Wednesday, December 26, 2007

Home of the brave (2006) di Irwin Winkler




Drammone militare americano al cento per cento nel peggiore dei modi: patriottico, strappalacrime, superficiale, dalla confezione extra lusso. La storia cerca di focalizzare l’attenzione non su una guerra reale, ma una intima, psicologica che continua anche quando la vera guerra è finita. Come dire che l’inferno non è solo nelle trincee, ma proprio nel ritorno a casa dei soldati americani. Come in “Rambo” il militare si trova un paese che non lo rispetta, lo teme forse e per questo non lo aiuta ad inserirsi. E se nel capolavoro di Kotcheff Silvester Stallone imbracciava le armi contro l’intera nazione che un tempo lui aveva servito, qui invece sembra che l’unica scappatoia per sconfiggere i propri demoni sia tornare a fare il soldato. Come diceva il bellissimo “Dust” di Milcho Malchevsky “Una volta puttana sempre puttana” così il reinserimento nel reale di tutti i giorni per i soldati è solo utopia, bisogna “aspettare un nuovo ritorno pregando e così una partenza”. Filosofia spicciola e buonista che butta alle ortiche i drammi sviluppati prima come il dottore alcolizzato (un ottimo Samuel Lee Jackson) o la militare dalla mano amputata (la bella Jessica Biels). I personaggi vengono dimenticati dall’occhio distratto del regista Irwin Winkler come l’ex ragazzo della Biels che appare e sparisce quasi senza perché e si scelgono le strade facili del dramma familiare che sfocia nel bene o nel male nell’happy end più vomitevole. Stilisticamente neanche malvagio, con un bel prologo in Iraq che fa respirare realmente sangue, ferite e proiettili, ma poi tutto si squaglia senza possibilità di salvare nulla di realmente buono. Una battuta carina comunque: “Vaffaculo Bush? Si, vaffanculo lui e pure te, figlio di puttana” detta da Jackson ad un preside troppo conservatore. Grande Samuel, peccato il film.

di Andrea Lanza

Wednesday, December 19, 2007

Saw 4 (2007) di Darren Lynn Bousman



Non ci siamo proprio. La saga di “Saw” è in netta discesa verso l’anonimato più assoluto. Se la piccola idea che faceva grande il primo film di James Wan mostrava già la corda nel secondo film, figuriamoci nel quarto episodio! I neofiti del cinema trucido caciarone grideranno forse al miracolo vedendo una bella autopsia con tanto di sangue e budello in bella vista, ma per gli altri resta solo la noia. Noia di un una storia che si morde la coda come un cane scemo, noia di un intreccio tremendamente simile al terzo episodio, noia per una sceneggiatura così idiota che si attanaglia il più possibile a rincorrere un finale sensazionalista che dovrebbe minare le certezze dei fan e invece fa solo incazzare. Jingsaw muore, è vivo, è un fottuto zombi alla Maniac cop? Chissenefrega. Ogni cosa in “Saw 4” puzza di vecchio: le trappole non fanno più ribrezzo, gli omicidi sono nella norma, forse il nostro livello di disgusto si è abituato a cose ben peggiori, ma questo non preoccupa gli sceneggiatori che anzi cercano di sfruttare fino all’esaurimento una gallina dalle uova d’oro. “Saw” potrebbe pure mostrare che alla fine chi ha concepito tutta questa sequela di torture è la Maga Magò e ci sarebbe comunque un cretino a dire che l’idea è geniale. Facciamoci del male, avanti così. Gli attori sono puro contorno, buttati lì come pedine di una scacchiera, non si parteggia per loro, non ci si emoziona mai, non un cenno di tridimensionalità in un film concepito a schemi come il peggiore dei videogiochi. La regia di Darren Lynn Bousman è poi approssimativa, effettistica, sciatta, scimmiotta le capacità visive (grandissime) di James Wan risultando solo un imbelle videoclipparo con il morbo di Parkinson nelle riprese di suspence. L’unica cosa decente in questo barile di pattume sono i flashback nel passato dell’enigmista, tocchi di poesia intimista in un mare di niente. Ben poca cosa davvero. Tra le scena cult di tortura la più riuscita è quella dove un uomo per salvarsi deve sfregiarsi il viso contro una serie di coltelli. Ma dopo il mare di siringhe del secondo ci si sorprende che esistano ancora anime candide ad impressionarsi. Si dice che al peggio non ci sia mai fine e invece riceviamo l’infausta notizia che la saga di Saw si accrescerà di un quinto capitolo. Piuttosto recuperate “Feed” in dvd: lì i brividi e le sorprese non mancheranno.

di Andrea Lanza

Tuesday, December 18, 2007

BLOOD CAR (2007) di Alex Orr

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C’è un fatto di cronaca: camion fermi e milioni di macchine in fila per una goccia di benzina: il caos. C’è poi un altro fatto di cronaca: il petrolio sta finendo. Ormai non è questione neanche di cent’anni: è imminente. Il crack potrebbe succedere da un momento all’altro. Così è partita la caccia alle nuove forme di combustibile. Pensate ad un mondo senza macchine: la mobilità ferma o gente che scopa dentro macchine rottamate in reminiscenza del passato (un tema di Romeriana memoria) Ed è qui che si inserisce a sorpresa il film dell’esordiente Orr. Il titolo già dice tutto: Blood car: macchine che vanno a sangue. E’ la grande scoperta (fortunosa) di un ragazzo vegetariano. Prendete una macchina, connettete al motore una super-ventola trita tutto dietro il cofano e cercate di procurarvi più corpi possibili da buttare dietro il bagaglio. Quanto fa il plot in un film: tantissimo, è Blood car forse è una delle intuizione più gradevoli degli ultimi anni. Soprattutto perché a dispetto delle apparenze è un film politico. Forse l’ horror più politico degli ultimi anni. C’è un ragazzo con la sua malata invenzione, che deve procurarsi il carburante organico a dispetto dei sensi di colpa. Come fare: basta eliminare la delinquenza; lo stato basso della società (che siano rapinatori o barboni).Alla fine è come eliminare due problemi in uno: la mancanza del combustibile e la delinquenza. Le macchine vanno e la coscienza è pulita. Ma c’è un altro aspetto più politico in Blood car, che ha l’apice nel suo cattivissimo finale (che in molti potrebbero trovare troppo crudo). Va spiegato piano però. Allora chi non ha mai sentito quella frase che sta tra il sensazione e le leggende che “solo chi ha la macchina tromba”. Vero o no, Blood Car lo da per scontato: la cosa è quasi ridondante nel film. Allora preso atto di questo c’è una verità inattaccabile: solo con il sesso si possono fare i bambini. E che cosa sono i bambini: dei combustibili (è brutto ma purtroppo è proprio così nel film). Quindi riepilogando, solo la gente con la macchina fa sesso, facendo sesso nascono i bambini, i bambini vengono usati come combustibile per fare andare le Blood Car che serviranno per procreare un'altra volta;in quello che diventa un circolo vizioso. Quasi impossibile non trovare somiglianza con l’attuale scena politica mondiale. Comunque se tutto questo vi spaventa sappiate che Blood Car è anche un film divertentissimo; molte volte “oltre” la demenza parodistica. Ricco di trovate, “fuck” e omaggi (c’è ne uno palese a Ultimo tango a Parigi) Insomma fa ridere e pensare. Complimenti a questo Orr.

di Daniele Pellegrini

LA MASCHERA ETRUSCA (2007) di Ted Nicolau

Dispiace dirlo, soprattutto dopo aver letto le lodi tessute sul mensile “Nocturno” a questo film, ma “La maschera etrusca” è pellicola orrenda. Dispiace anche perché poteva essere occasione per parlare bene di un prodotto che di italico ha quasi tutto, dall’ambientazione alla produzione. Invece il pastrocchio girato dall’ex enfant prodige della Full Moon, Ted Nicolau, non appassiona mai, risulta stilisticamente raffazzonato ed è interpretato da attori cani mal serviti da una sceneggiatura pedestre. Se si pensa che lo stesso plot poteva portare nelle mani sapienti di un Sergio Martino o di un Armando Crispino ad un thriller horror come i grandissimi “Assassinio al cimitero etrusco” e “L’etrusco colpisce ancora”, si capisce come questa pellicola sia occasione sprecata. E neanche inizia male, a dirla tutta, con un intro che ci mostra una strana compravendita di un elmetto antico e della scoperta che esso porta terribili sciagure a chi lo possiede. Il film continua ancora meglio con questa strega che sussurra parole incomprensibili ad un anonimo ragazzo e la macchina da presa che fluttua intorno a lei come l’Argento migliore, quello di “Suspiria”. Poi tutto cade nel niente, il plot si sfilaccia nella solita mattanza di giovani e con un finale esorcistico delirante. Dispiace anche che Siena sia usata tanto male come scenario per imbastire uno strong dvd come tanti mille uguali. A favore del film bisogna dire però che il reparto effetti speciali è notevole (con l’apice di un magnifico demone alato) e la pellicola su questo piano ha una dignità non indifferente. Peccato però che tutto è mal servito e a nulla valgono gli sforzi produttivi se i dialoghi sembrano usciti da un film porno e la messa in scena ricorda le telenovelas di Rete 4. Nota a margine: lo stregone sul letto ricorda moltissimo “Testament- the Legacy” di Richard Marquand, uno dei ripoff più famosi di “Suspiria”. Che sia un caso o meno non ci è dato saperlo, ma questo non toglie né aggiunge valore a questo scarso film. Da evitare come la peste.

di Andrea Lanza

AMERICAN PIE 6: BETA HOUSE (2007) di Andrew Waller



Eccoci all’ultimo appuntamento della saga di American Pie arrivati anche noi ormai, come dopo una lunga corsa, con la lingua a penzoloni, per la fatica. Questo sesto capitolo, come gli ultimi due episodi, non ha nessuno del vecchio cast, si fa forza solo di trovate ultracomiche e di un nutrito gruppo di ragazze nudissime a fare da cornice. Se il terzo episodio era il migliore così anche questo terzo capitolo new generation è senza dubbio il più riuscito della nuova serie. Naturalmente il film è diretto in modo anonimo, anche se divertito, e la sceneggiatura è quasi inesistente, va avanti per inerzia. Però, cosa non sottovalutabile, è un film che riesce a strappare più di una risata. Molte le scene cult: lo stupro della pecora da parte del nerd cattivo, l’eiaculazione al rallenty contro un orsacchiotto, un sogno lynchiano con una ragazza dotata di pene gigante. Difficile da raccontare, non un film indispensabile, ma una di quelle pellicole che fa piacere a volte vedere in totale scazzo. La storia, se proprio si vuole, è quella di due confraternite nemiche che si sfidano a delle olimpiadi in stile romano: la squadra vincitrice sopravviverà all’altra, mentre la sconfitta chiuderà i battenti. Naturalmente i cattivi sono i nerd secchioni, fan di Star Trek anche nella vita intima sessuale, depravati e ricchi, malvagi e sfigati, mentre i buoni sono simpatici e spigliati, non studiano mai e fanno sempre tanto sesso sfrenato. Siamo tornati indietro dagli anni 80 quando le star erano i freak e si parteggiava con loro. American pie 6 è un film oltretutto cinefilo dove vengono rifatte in maniera grottesco demenziale scene di film importanti: per esempio si cita Apocalipse Now cambiando la battuta “La mattina adoro il profumo di Napalm” con “La mattina adoro il profumo di tette bagnate” e “Il cacciatore” dove al posto di rivoltelle caricate con un proiettile ci sono pistole ad acqua riempite con sperma di cavallo. Cammeo di routine di Eugine Levy, presente in tutte e sei le puntate. Un film da amare o da odiare o da tenere come segreto nascosto mentre a tutti dici di amare Kubrick.

di Andrea Lanza

Headhunter (2007) Paul Tarantino


Guarda, guarda. Ogni tanto, specie a Natale, i miracoli succedono. Io non ci credevo, eppure scartabellando le novità in una videoteca, tra un “Cerberus” ignobile e un “American pie” senza attori principali, ho trovato questo “Headhunter”. A dire il vero il film prometteva di essere la solita cagatina che vedi col telecomando un mano, mandando avanti nei dialoghi e fermandoti nelle scene di sesso e di sangue. La copertina davvero anonima, vero plagio del brutto “Tamara – toccata dal fuoco” (un giorno qualcuno dovrebbe spiegarmi questo sottotitolo), il film, girato in digitale, eco di terribili incubi come “Evil eyes” e il regista Tarantino Paul, non Quentin, erano echi non indifferenti della stronzata imminente. Eppure non ho spento né mandato avanti favorendo il miracolo: il film è girato bene (pur con evidenti limiti di budget), scritto in maniera direi spumeggiante, interpretato discretamente e con scene che fanno balzare dalla poltrona quando meno te lo aspetti. Un horror riuscito al cento per cento, la cosa che non ti aspetti dopo che Argento e Avati ti hanno pugnalato alla spalle e il mondo non è più tanto perfetto come quando eri bambino. La trama racconta di come un uomo, deluso dal suo lavoro, trovi grazie ad un’agenzia, un altro impiego, questa volta notturno, in un ufficio semivuoto. Ben presto riceverà la visita di fantasmi che lo metteranno in guardia sul suo tragico destino: se non troverà una certa testa mozzata anche lui morirà. Paul Tarantino mette in scena fantasmi e streghe condendo il tutto con salsa splatter e girando scene a tratti insopportabili per la tensione come la mano nel tritarifiuti. L’ironia del finale poi ha qualcosa di inqualificabilmente geniale. Nota a margine: io non lo sapevo, ma il titolo si riferisce ai “cacciatori di teste” ovvero quella gente che procaccia un certo tipo di profili di dipendenti per delle grandi aziende. Io terra terra pensavo al classico maniaco con l’accetta e la bava in bocca. Ottimo comunque il film con più di un debito sotterraneo alla saga giapponese di “Ju-on”.

di Andrea Lanza

Thursday, December 13, 2007

Il buio dell'anima (2007) di Neil Jordan



Il buio dell’anima si presenta fin da subito come film d’autore che si addentra nei meandri di un genere volgare, quello dei giustizieri, per glorificarlo artisticamente. Niente di più sbagliato se ci si deve rapportare con un capolavoro di portata titanica come “Il giustiziere della notte” di Michael Winner con l’immenso Charles Bronson. Il film di Neil Jordan infatti ne è il remake non dichiarato, molto ben girato, ma pedissequo nel seguire lo stesso schema del film del 1972 banalizzando di molto i contenuti. L’architetto Paul Kersey bronsoniano cede il posto ad una dj in procinto di sposarsi con l’aitante fidanzato (il Said di Lost in pausa pranzo dal suo serial tv), nulla di più. Sarebbe stato interessante vedere come la stessa storia poteva svilupparsi in maniera diversa sotto un’ottica femminile, invece stessa solfa: nel film di Winner stupro e omicidio della moglie del protagonista, qui nel 2007 in aria di politicamente corretto solo pestaggio dei due fidanzatini. Lei oltretutto conciata malissimo, con il volto deturpato sembra a vita, in soli due giorni torna più bella e fresca di prima. Scadente inoltre la componente psicologica che riassume il dolore di una perdita nella materializzazione extrauterina di pene-rivoltella che eiacula vendetta. Come diceva anni fa Carlos Saura in un brutto film: “Spara che ti passa”, ma qui siamo a livelli assurdi, con due gocce di lacrime versate, una notte insonne, un sogno erotico, la bella dj sembra aver dimenticato il suo bel Said, tanto da restare affascinata in quattro e quattrotto da un altrettante aitante poliziotto con matrimonio rovinato alle spalle. Il film diventa disastroso poi quando cerca di materializzare quello che Winner mai aveva raccontato, il trovarsi davvero faccia a faccia con chi ti ha rovinato la vita. Nel "Giustiziere della notte" Bronson uccideva chi poteva essere l’assassino della moglie, ma senza, incubo forse ancora più terribile, riuscire a trovarlo. Lei invece, vera catalizzatrice di sfighe umane, si trova soltanto passeggiando per strada ad essere testimone di omicidi brutali o peggio. Poi, colpo di genio della sceneggiatura, non manca neanche il fortuito faccia a faccia con un ricchissimo industriale uxoricida che, caso del destino, a lasciato a casa la sua scorta personale. Il finale è da antologia della demenza poi con una trovata finale che esalta l’omicidio e traccia linee impossibili tra sbirri e vigilantes. La Foster comunque in questo guazzabuglio dal sapore vagamente lesbo è bravissima, peccato che il film non lo sia altrettanto. Fastidioso.


di Andrea Lanza

Wednesday, December 12, 2007

30 GIORNI DI NOTTE di David Slade (2007)

Tutto in una notte. Una notte lunga 30 giorni. La città di Barrow in Alaska vive questa condizione una volta l'anno ed è l'ideale per un clan di vampiri andare lì a pasteggiare indisturbati. Questo l'assunto della fortunata graphic novel di Steve Nile e Ben Templesmith , munifica di sequels, che la GhostHouse di Sam Raimi ha deciso di consegnare nelle mani di David Slade, sulla fiducia del lavoro fatto su Hard Candy. Innanzitutto, mettetevi l'anima in pace, qui il fumetto di Niles c'entra poco. Niente vampiri "goodfellas", nessun Vincent, nessuna ironia cafona. Niente figure acuminate dalle fattezze di vetro. Quello che rimane dei succhiasangue di Templesmith è la ferocia con cui pretendono il sangue dalle vittime. Niente romanticismi, baci,poppisti,il morso è netto e si porta via bei pezzi di carne insieme al sangue. E' difficile parlare del lavoro di Slade perchè sulla carta c'è molto più di quello che alla fine vediamo in video. Slade ama la regia classica. Le avvisaglie c'erano già in Hard Candy, un costrutto tradizionale, compassato, asciutto, basato su dialoghi ed attori. Qui si è tentato di fare la stessa cosa, nellaria rareffata dell'Alaska, Slade ha tentato l'evidente omaggio a La Notte dei Morti Viventi, mettendo una comunità a confronto con se stessa di fronte ad un pericolo ignoto,terrificante e incomprensibile. Infatti la presenza della minaccia si palesa attivamente (a parte sporadiche apparizioni) solo dopo un'ora di film. Tutto il resto voleva essere lavoro su personaggio, tensione, mestiere da artigiano classico, quasi un film in bianco e nero. Il problema è che il risultato non è stato quello che Slade si aspettava. Perchè non c'è tensione, non c'è lo scontro tra personalità, decisioni, movimento delle situazioni. C'è confusione ed indecisione. Gli attori fanno un ottimo lavoro, Hatnett e Ben Foster su tutti, ma non basta certo ad interessarci alle loro chiacchiere. Oltretutto, a parte sporadici casi, questa tendenza alla ripresa classica di Slade non ha alcuna resa moderna. Semplicemente non ha un bel senso visivo,non vi sono immagini che rimangono impresse e questo perchè Slade ha volutamente girare nella maniera classica che forse è l'unica possibile per lui. Verso la fine, di sangue ne scorre e l'azione comunque non manca (esistono pure sempre dei produttori) ma l'eccesso di sofisticatezza della regia (già,perchè fare oggi un horror classico è sofisticato) cozza con il risultato finale ed è un vero peccato, perchè le aspettative erano molto alte.

di Gianluigi Perrone

Tuesday, December 11, 2007

SHOOT'EM UP di Michael Davis (2007)

Ma perchè alla Bellucci danno sempre ruoli da mignotta da bordello? Ci penserò. Intanto Shoot'em Up. Che è uno sparatutto letteralmente. C'è stato Crank che prenderva le mosse da Hong Kong e si spacciava velatamente pure per un prodotto extra occidentale, e ora c'è questo delirio di azione senza via di scampo. Smith, un vagabondo interpretato da Clive Owen, ingaggia una sparitoria mentre fa partorire a una donna un neonato appassionato di Death Metal che un agente dell'FBI corrotto (Paul Giamatti) vuole morto. Porta il bambino con se e cerca di salvarlo dai cattivi insieme a una prostituta(indovinate chi la fa?) mentre i proiettili gli vengono vomitati addosso per tutto il film. Michael Davis finalmente è arrivato, dopo commedie a non finire e l'interessante Monster Man, a fare quello che voleva, cioè un action furibondo. Che sia cartoonistico è dichiarato sin dall'inizio con Clive Owen che sgranocchia carote come Bugs Bunny, ma quando fai un'operazione del genere devi stare attento a non annoiare perchè peggio stancare lo spettatore con le chiacchiere c'è di farlo con l'azione fine a sè stessa. Ogni tanto Shoot'em Up cala e si perde in idee troppo banali (non diciamo inverosimili perchè sarebbe ridicolo). Autoironico nel voler essere contro la diffusione delle armi un film che dovrebbe avere un esercito di guerrafondaio come pubblico,vista la quantità di colpi in arrivo che si spreca. Un prodotto dignitoso di intrattenimento, forse un po' finto ma che grazie a un cast tecnico e artistico importante non ha rischiato di scadere nell'inutile.

di Gianluigi Perrone

DEATH SENTENCE - di James Wan (2007)

Non è stata la delusione del pallido successo di Dead Silence a convincere James Wan a cambiare lo sceneggiatore con cui aveva condiviso l'exploit di Saw. Infatti Leigh Whannell è in Death Sentence come attore. Wan è stato attratto dal desiderio di ogni fan di genere di fare un film sulla vendetta, di riportare in auge la figura dei giustizieri inarrestabili e rocciosi come Charles Bronson e Dirty Harry. Dato che è ormai evidente un ritorno ai temi, ecco che il secondo libro di Brian Garfield, sequel di Death Wish da cui è tratto il film di Michael Winner, diventare una pellicola. O meglio: Death Sentence ha solo il titolo del romanzo di Garfield perchè il resto non ha nulla a che vederecon la storia. Il succo invece è che un normale impiegato a cui hanno ammazzato il figlio durante una rapina, decide di farsi giustizia da sè visto che quella ufficiale non funge. Storia vecchia come il cucco, quasi banale se non fosse che, per evitare di essere accusato di giustizialismo, lo sceneggiatore Ian Jeffers decide di ricercare le colpe di tutto questo caos nella società e nell'imprevedibilità del caso. A rendere una traballante sceneggiatura un grande action sono un protagonista come Kevin Bacon e la regia pazzesca di James Wan. Non è una bestemmia dire che Wan ha l'approccio vigoroso alla regia dei migliori (Walter Hill, Michael Mann,J. Lee Thompson...), non ha una poetica ma ha la grammatica giusta e non ha paura di sperimentare. Ricordate il piano sequenza di Ong Bak? Nulla in confronto a uno dei più grandi inseguimenti mai visti, una scena talmente di azione da dover prendere le medicine per il cuore anche se non si soffre di problemi cardiaci, dopo averla subita. Se Wan avrà modo di trovare la strada giusta non vi sono dubbi che farà cose gigantesche.

di Gianluigi Perrone

Monday, December 10, 2007

ZOMBIES DIARIES (2007) di Michael Bartlett e Kevin Gates

In attesa del (probabile) capolavoro romeriano “Diary of the dead” ecco la prima imitazione, “Zombies diaries”, girata così in fretta da essere uscita prima del lavoro al quale si ispira! La cosa affascinante è che questa operina, girata probabilmente con due euro, non è poi così male: ha delle buone idee nel suo cilindro e la trovata, non pedestre, di fare incontrare il filone dei morti viventi con quello dei finti documentari horror alla Blair witch. I due registi, Michael Bartlett e Kevin Gates, ce la mettono tutta per creare tensione negli scarsi 75 minuti di durata della pellicola, sia grazie all’espediente della digitale tenuta in mano da un cameramen voyeur sia nell’addentrarsi in terreni quasi hitchcockiani eliminando a metà film tutto il cast per raccontare la stessa storia sotto altri punti di vista. Sul piano qualitativo siamo a livelli scarsini però e se alcuni zombi hanno un make-up decente fa sorridere vedere un assalto di morti viventi compiuto al massimo da 5 mostri quando la copertina del dvd ci inganna mostrandoci migliaia di cadaveri ambulanti. La storia, come molti degli horror di questi ultimi anni, si ambienta a Londra e il film non manca di una certa spettacolarità quando ambienta l’azione in alcuni quartieri della città diventati deserti per via del virus. Certo le buone intenzioni non possono fare un bel film, ma questo “Zombies diaries”, pur con evidenti limiti di budget, non difetta né di suspence né di trovate brillanti. Se mettete da parte i pregiudizi verso i film indie l’opera di Michael Bartlett e Kevin Gates vi potrebbe persino piacere. Poi potrebbe essere cassandra inaspettata verso il futuro film di George A. Romero.

di Andrea Lanza

Sunday, December 09, 2007

BRICK - LA ROBA(2005) di Rian Johnson

Strano teen movie, vincitore di diversi premi, e da noi uscito in ritardo (e in sordina) nelle sale dopo quasi 3 anni. “The brick” fa fatica a partire, la trama risulta molto contorta e non ci si riesce ad affezionare molto ai personaggi che, neanche ventenni, parlano e agiscono come adulti. Ma appena si capisce il gioco intellettuale del regista Rian Johnson il tutto comincia a combaciare perfettamente e il film riesce ad appassionare e a catturare. Non capita tutti i giorni d’altronde di vedere un vero film noir poliziesco con un’ambientazione tanto bizzarra: il college. Ecco quindi che il preside agisce come un poliziotto bastardo e il protagonista, tra amori ammazzati e dark lady fameliche, prende cazzotti come Robert Mitchum e sbroglia una matassa più grande di lui. “The Brick” è un film probabilmente fatto col cuore, un atto d’amore verso un genere che ha avuto il suo massimo apice a cavallo tra gli anni 40 e 50 con grandi opere chandleriane come “Il grande sonno” di Howard Hawks. “The Brick” però è anche un film avanguardistico, quasi cronenberghiano, che se ne fotte dei rigidi canoni dei generi per creare un idea diversa del racconto proposto: la carne si sfalda meravigliosamente per essere plamata e riplasmata a piacere del regista, la storia, sempre quella, diviene meravigliosamente originale anche se originale non è. Il film ha rastrellato per il mondo premi su premi, meritatissimi, anche grazie al grande lavoro recitativo del cast, ogni attore più bravo dell’altro. Rian Johnson poi dimostra di avere grandissimo senso dell’umorismo creando situazioni ai limiti del demenziale senza mai affondare nella cretineria parodistica: tra tutti il personaggio del Perno, il cattivo dei cattivi, una specie di Stewie Griffin più grande, che vive nella cantina della casa materna spacciando droga in tutta la città e impartendo ordini mentre la mamma serve succo di frutta ai suoi sgherri. Non mancano i grandi momenti drammatici, come il plumbeo finale, quasi alla “Seven”. L’eroe alla fine malconcio e pesto perde tutto, amore, ricordi nei quali aggrapparsi, non ha neanche una sigaretta da accendersi come i grandi classici di Chandler. “Che ti ha detto?” chiede l’amico al protagonista “Niente: una parolaccia” è la risposta. E il vento che avvolge la verità nascosta è davvero il più freddo di tutti. Da vedere.

di Andrea Lanza

Saturday, December 08, 2007

LIVING DEATH(2006) di Erin Berry

“Living death” fa parte dei soliti film diretti al mercato dvd senza arte né parte. Non serve strillare sulla copertina il nome di bellone ormai incartapecorite come Kristy Swanson (Buffy, Ammazzampiri 2) o la scritta unranted quando non si capisce quale mente malata applicherebbe dei tagli ad una pellicola così rovinosamente televisiva. E’ vero c’è il budello alla Antropophagus, un paio di scene sono disgustosamente compiaciute, ma una serie tv come CSI ha molto più splatter da esibire che questo innocuo filmetto senza estro. La curiosità semmai (che potrebbe attirare qualche sventurato) è la similitudine con un piccolo cult movie degli anni 90, “Sepolto vivo” di Frank Darabont (“Il miglio verde”) con Tim Matheson e Jennifer Jason Leigh, tratto (alla lontana) da Poe. Ma le somiglianze si perdono man mano che la storia di questo “Living death” prende strade stupidissime fino ad un finale demente ed incomprensibile. La trama vede un ricco e depravato uomo, con il vizietto per antiche macchine di tortura, essere ucciso dalla moglie e dal suo migliore amico. Ma un errore nel dosaggio del veleno (estratto di pesce palla come una mitica puntata dei Simpson) lo renderà una specie di zombie incazzato col mondo e coi suoi assassini. Di horror però c’è poco, il resuscitato ha solo delle grandi occhiaie e uccide a destra e a manca per i motivi più cretini, di tensione men che meno, meglio stare a casa a vedere, che so, qualche bel serial tv thriller come “Cold case” o “Dexter”. Più brividi sicuramente e nessun complesso di colpa per aver buttato via il nostro prezioso tempo con queste stronzatine buone per un cestone da discount. Per assurdo il regista Erin Berry è il produttore di un horror demoniaco non male, “5ive girls” con Ron Perlman. Si vede che la regia non fa per lui.

di Andrea Lanza

Tuesday, December 04, 2007

AMERICAN GANGSTER di Ridley Scott ( 2007)

Guardando American Gangster, dopo una ventina di minuti avrete un deja vu. Questa storia l'ho già vista da qualche parte. Non ci vorranno più di una manciata di secondi per capire che si tratta di Scarface di DePalma. In effetti la sceneggiatura di Oliver Stone era ispirata al personaggio di Frank Lucas, detto Superfly (ricorderete il film Gordon Parks jr del 72 dedicato al personaggio), che in breve tempo divenne il punto di riferimento per il traffico della droga in america, una ascesa al potere inaudita, ancora più surreale perchè portata avanti da un nero. Infatti sarebbe stato impensabile che il protagonista di Scarface potesse essere un afroamericano e quindi si pensò a un più "pallido" cubano, mischiando un po' di fatti di cronaca. Invece Ridley Scott racconta la storia vera di Lucas, romanzandola e dipingendolo come un personaggio romantico e vincente. oRmai Denzel Washington, insieme a Samuel L Jackson, è il nuovo blaxploitation hero della sua generazione, nonostante sia un grandissimo e versatile attore fa scelte di genere e si impegna in una maniera sopraffina. Puoi vedergli la tensione intorno alle spalle, fremere tra le labbra e valorizzare ogni inquadratura con la sua presenza: questa è inesauribile energia. Ci vuole un bel paio di palle per mettere giù uno come Russell Crowe, co-protagonista che impallidisce di fronte all'attore nero. Insieme a lui tutta la nuova(e non) generazione di attori di colore come il bravissimo Chiwetel Ejiofor e Cuba Gooding Jr. a supportare una leggenda come Frank Lucas, il sogno americano criminale nell'immaginario di qualsiasi gangsta rapper che NON si rispetti. American Gangster ha tutti gli elementi per essere un blaxploitation moderno: azione,ritmo, musica soul e funky, orgoglio nero e epicità cafona ma stavolta con un mare di denaro in più rispetto alla media dei vari Truck Turner e similia. Un film del genere doveva finire tra le mani di un Craig Brewer o John Singleton, o Spike Lee persino, invece lo dirige un inglese come Ridley Scott! Non solo, Scott da qualche anno a questa parte è diventato freddo, gelido. Una tecnica perfetta e spaventosa, elementi che collimano perfettamente eppure non c'è anima nei suoi film. Talmente perfetti da non essere veri, ed è dura con una storia originale avvincente come quella di Lucas. Intendiamoci, American Gangster è un bel vedere e si fa piacere nonostante la lunghezza, ma è finto, quasi parodistico. Cosa è successo a Ridley?

di Gianluigi Perrone

IL COLPO DELLA METROPOLITANA (THE TAKING OF PELHAM 123) di Joseph Sargent (1974)

Quello che fa di Pelham 123 uno dei migliori classici crime action degli anni 70 è la bomba ad orologeria innescata nella sceneggiatura di Peter Stone ma già nel racconto di Morton Freedgood (che firmò come John Godey). Infatti raramente una storia dannatamente semplice ha raggiunto il ritmo del film di Sargent, il classico uovo di colombo che ha fatto scuola, determinando il successo dei vari Die Hard e Lethal Weapon. L'idea vincente è l'attacco al cuore della città, o meglio ai suoi vasi sanguigni, ovvero la complessa rete sotterranea che è la metropolitana di New York. Un gruppo di criminali anonimi, vestiti alla stessa maniera e che si chiamano con nomi di colori (vi ricorda qualcosa?) prendono in ostaggio i passeggeri di un vagone della metropolitana di Manhattan e tengono in pugno la polizia. Una situazione inedita ma plausibilissima (strano che il film non abbia ingenerato emulatori) che lascia sbigottite e impreparate le forze dell'ordine. Sarà paradossalmente il responsabile della Transit Authority a trovare la soluzione del gioco. Sargent non è mai stato un virtuoso della macchina da presa ma,come dimostrato anche in White Lightning, ha l'idea degli spazi e dei tempi, dei ritmi cinematografici nonostante la propria carriera sia stata principalmente televisiva, e lavorando per sottrazione va dritto al punto. Il tutto coadiuvato da un cast perfetto, un'orchestra che suona all'unisono un'aria tesissima.Walter Matthau, Robert Shaw, Hector Elizondo, Jerry Stiller, Martin Balsam, tutti sopra le righe ma incredibilmente reali. Un cult assoluto.

di Gianluigi Perrone

INSIDE (A L'INTERIEUR) di Alexandre Bustillo e Julien Maury (2007)

Ha fatto parlare molto di sè questo nuovo prodotto della vivacissima scena horror francese che, anche un po' forzatamente, sforna nuovi registi come fosse la mamma dei cretini. Ed in effetti di maternità si parla in questo slasher vecchia maniera a tinte forti...fortissime. Non ci è dato sapere se sia la solita mossa commerciale ma c'è chi giura che durante la proiezione commerciale a Cannes (che ha fruttato un bel contratto per i registi con i Weinstein Bros) la gente scappasse indignata dalla sala a causa delle scene troppo violente. Infatti quello che ha suscitato tanta curiosità nei confronti del film scritto da Alexandre Bustillo (redattore di Mad Movies) e diretto a quattro mani con Julien Maury sono stati i commenti degli addetti ai lavori riguardo la violenza inaudita della pellicola e i quasi inverosimili accostamenti con Cannibal Holocaust. Capirete che per chi è abituato alle gratuite efferatezze asiatiche dei vari Men Behind The Sun, Guinea Pig e similaria, è difficile credere che ci si possa impressionare di qualcosa. Effettivamente, vedendo il film non si può negare che il gore non sia veramente esplosivo e disturbante. Alcune scene sono assolutamente insostenibile, soprattutto una immagine finale che potrebbe far svenire la vostra ragazza anemica nel cinema. Più che altro è il costante e esagerato spargimento di sangue che non diventa grottesco solo grazie all'esperienza di spettatori dei due. Infatti, se esiste un film derivativo, quello è A L'Interieur. Rispetto ad un Alta Tensione però, la sua essenzialità non è supportata da una regia vigorosa ma da elementi decisamente sapienti (o furbi) che sono funzionali alla narrazione (le musiche, la fotografia scurissima, la piattezza dei movimenti di camera). La storia poi è veramente sciocchina. Una ragazza incinta all'ottavo mese viene assalita in casa da una donna che vuole strapparle il bambino dal ventre. Il perchè e cosa succederà dopo lo potrebbe intuire anche un bambino al suo terzo horror. E per allungare il brodo Bustillo fa arrivare gente a casa che viene sistematicamente massacrata. Quindi il film non è altro che una serie lunga e impietosa di omicidi efferatissimi, senza preoccuparsi troppo della trama. Allora cosa è che funziona? La messa in scena, assolutamente perfetta e derivativa. Il film di Bustillo sembra dire che se hai visto migliaia di horror da qualsiasi parte del mondo, hai un budget decente ,la parente di un'attrice famosa cioè Alyson Paradis sorella di Vanessa, e una ex attrice in disuso con il culone, Beatrice Dalle, allora puoi raggiungere il successo. Questo film parla di esperienza indiretta con la camera, parla di passione per il genere e parla di molta furbizia tipicamente francese. Tant'è che i ragazzi sono arrivati in America e adesso sono in trattative per il remake di Hellraiser. E pensare che in patria è andato malissimo. Anche noi dovremmo fare cose del genere.

di Gianluigi P
errone

Monday, December 03, 2007

LA PROMESSA DELL'ASSASSINO (EASTERN PROMISES) di David Cronenberg (2007)

Questa volta un noir puro per Cronenberg, o ancora , un classico gangster movie che, secondo la sceneggiatura di Steven Knight, non sarebbe dispiaciuto a Raoul Walsh. Già, perchè stavolta siamo su territori già ampiamente calcati nella storia del cinema, quasi banali nella loro classicità: le regole della criminalità organizzata come l'immaginario comune le ha assimilate. I dettami del Mafia Movie vengono rispettati pedissequamente e probabilmente in mano ad altri il risultato non sarebbe stato il medesimo. Cronenberg invece trasforma in delirio anatomico tutto ciò che tocca, passa attraverso gli scontri emotivi dei personaggi per suggerire le implicazioni dei loro corpi, più che mai organici, più che mai involucri. L'involucro che contiene la vera protagonista del film, Christine, nata da una madre 14enne morta per dissanguamento,figlia di una violenza carnale e che nel suo dna ha la rivoluzione delle gerarchie criminali costituite. L'involucro di tatuaggi e cicatrici che contiene Nicholai, un gigantesco Viggo Mortensen, un enigma vivente, l'aspirante Re che nasconde dolorosamente il vero se stesso con l'immagine incredibilmente suggestiva, cool, che può avere un hitman della mafia russa. Per sua stessa ammissione privo di madre e padre, morto a 15 anni e da allora abitante della "zona" dove le emozioni non solcano lo sguardo. L'involucro scomodo in cui è contenuto Kirill, Vincent Cassell, il migliore in assoluto, il principe incapace di potestà, insicuro di una identità reietta, sia essa familiare (il sangue) sia essa sessuale (la presunta omosessualità), personaggio complesso ed indispensabile. L'involucro che contiene il mite Semyon, Armin Mueller-Stahl, il Re apparentemente giusto e buono che nasconde dentro la Bestia, capace delle azioni più basse, una figura quasi horror nella sua inespressa psicopatia. Questi sono i corpi senzienti in cui sono sepolti gli orribili segreti. C'è tutta una poetica attraverso parole e sentenze che dipingono un universo profondamente cronenberghiano("seppellisci i segreti coi propri corpi"-"corpo,singolare", "siamo nati già sepolti,io e mio padre","dagli schiavi nascono schiavi","per ragioni poetiche,suggerirei il suo sangue"), frasi intense e "coreografiche" ma fondamentali per Cronenberg che ne trascrive sopra naturalmente i propri temi. Come nella più grande bladefight di tutti i tempi, in cui il guerriero più valoroso, nudo e feroce, conquista il diritto al trono epicamente. Come nel finale solo apparentemente consolatorio, dove nonostante si raggiunga il proposito si ammette, mestamente nello sguardo del nuovo Re, che l'unica soluzione è l'esilio, la negazione di sé, l'abbandono del corpo verso altro.
di Gianluigi Perrone

OMBRE (SHADOWS) di John Cassavetes (1959)

C'è del jazz nel film debutto alla regia di John Cassavetes. E non solo nei temi ma anche nell'atteggiamento sperimentale che il regista volle porre nella sua narrazione. Certo c'era della nouvelle vogue, c'era una certa europeicità nell'occhio del regista ma soprattutto c'erano tutti gli elementi principali che Cassavetes porterà nelle sue opere migliori. Hunsbands, Minnie & Moskowitz, A Woman Under Her Influence, sono tutti contenuti in stato embrionale nel film, le idee di sceneggiatura, i momenti di follia dei personaggi ed il loro essere squisitamente egoisti. Tutto nel mondo dei musicisti neri di Manhattan. C'è molto di Leila in quello che sarà Gena Rowland in futuro, una ragazza nè nera nè bianca, splendida ma che vive il pregiudizio del suo spasimante sono quando questi si accorge, dai suoi fratelli, di essere di sangue afroamericano. E Leila vive questo amore con spregiudicatezza e appassionato travaglio. Così come il gruppo di bulletti scipafemmine non è altro che un riflesso dei mariti sconsiderati di Husbands. Rigirato per metà, il film ebbe due versioni, di cui una ritirata e scomparsa per 50 anni, creando contrasti tra il regista ed il produttore. Ancora embrionale ma fondamentale per la conoscenza della poetica del regista.

di Gianluigi Perrone

IL GRANDE IMBROGLIO (Big Trouble) di John Cassavetes (1985)

Ultimo film di John Cassavetes e decisamente il suo più commerciale, Big trouble è una meravigliosa commedia che nonostante le premesse riesce a tenere un concetto base del cinema di Cassavetes: la libertà ,per quanto folle,paga. Protagonisti indiscussi Peter Falk, Alan Arkin e la sempre splendida Beverly D'Angelo, in questo surreale incontro tra il grigio e impostato assicuratore Leonard Hoffman(Arkin) che ha l'obbligo morale di mandare i tre dotati gemelli a studiare a Yale e deve trovare i soldi in qualsiasi modo. I compromessi morali cadono nel momento in cui conosce i Rickey, una coppia di truffatori che gli fanno credere della morte del marito (Falk) per riscuotere una assicurazione in maniera truffaldina in complicità con Hoffman. Tutto va a rotoli per la incredibile faccia tosta dei due cialtroni e l'assicuratore rimette in gioco tutta la sua etica. Spumeggiante Falk, fa del film il suo campo di battaglia, conquistando la scena con il suo tipico modo di fare sornione. Ottimo anche Alan Arkin, a volte surreale nel suo ingobbirsi e rattrappirsi davanti alla gravità degli eventi, per non parlare della D'Angelo, ochetta sexy dallo sguardo languido che tutti vorrebbero avere in casa. E' divertente vedere come ci si prende gioco della istituzionalità dell'uomo comune in favore dei due truffatori che nonostante i loro intenti poco puliti sono sicuramente più simpatici di tutti gli altri. Sembra quasi vogliano essere due angeli custodi per Hoffman e fargli capire che la sua rettitudine in fondo è inutile visto che il suo capo è un verme e la sua moglie una rompiscatole. Incredibile quando Falk nel finale gli chiede se voglia rimanere con lei nonostante tutto, quasi sussurrato ma contenente il tema del film, che, come al solito è la libertà.

di Gianluigi Perrone

GLI ESCLUSI (A Child is Waiting) di John Cassavetes (1963)

Il primo Cassavetes a discostarsi dalla sua produzione classica, decisamente più lineare e se vogliamo commerciale nonostante evidenti sottotesti di riflessione profonda. Un classico film che tratta della situazione nelle case di cura mentale e per bambini "difficili". Cassavetes racconta di un istituto di cura dirigendo diversi ragazzi mentalmente disabili, ritardati o affetti da sindrome di Down e il loro processo attraverso un ragazzo emotivamente difficile che viene mandato in quella casa e che si chiude in sè stesso ed il punto di vista dei suoi tutori, l'uno, Burt Lancaster, motivato,esperto e cosciente del problema, un personaggio dedito al suo ruolo, l'altra Judy Garland, che impara attraverso i propri occhi una realtà che, all'epoca come oggi, si tendeva a tenere nascosta. Come spesso accade nei film di Cassavetes c'è una ambivalenza di veduta, tendendo ad accettare i due punti di vista, come il conflitto della madre del bambino, Gena Rowland, su cosa sia meglio per il figlio. Grande coraggio da parte di Stanley Kramer a produrre un progetto così complesso con un tema talmente ostico.

di Gianluigi Perrone

Tuesday, November 27, 2007

MARITI (HUSBANDS) di John Cassavetes (1970)

Stupendo film del clan di Cassavetes con gli amici Ben Gazzara e Peter Falk che interpretano sé stessi e probabilmente il rapporto che avevano con l'attore/autore. L'assunto è veramente stupendo. Tre amici (Gazzara,Falk e lo stesso Cassavetes) decidono di celebrare la morte prematura del loro quarto compagno di avventure scappando dalla vita. Senza dormire, cantano, bevono,delirano,litigano,piangono letteralmente vivono per tributo alla vita di uno di loro. Questa bravata li mette a confronto con le proprie vite, con le proprie famiglie e le restrizioni che ne derivano. Il matrimonio, nel cinema di Cassavetes, è sempre stato visto come la morte dell'amore, se non come una situazione burrascosa in divenire che sembre necessaria per la fruizione dell'amore e della passione ,fatta di grida, disperazione, risate a squarciagola e anche botte, nella ricerca di esprimere l'assoluta dedizione all'altro. Qui è il punto di vista dell'uomo, soprattutto di Gazzara, stufo di dover comportarsi da buon padre di famiglia che decide di mandare completamente la vita all'aria. Il film schiaccia lo spettatore grazie alla personalità dei tre interpreti, giganteschi, delle personalità incredibili, libere, smarty, attori che al giorno d'oggi non esistono più e che si muovono dominatori davanti alla macchina da presa che strettissima ruba ogni minimo singulto o movimento. Quando i tre decidono di andare a Londra senza un apparente motivo e qui cominciano dei siparietti divertentissimi in cui cacciano donne giusto per auto riflesso di sè.

di Gianluigi Perrone

MINNIE & MOSKOWITZ di John Cassavetes (1971)

Forse il Cassavetes per eccellenza, nato per divertimento insieme a Seymour Cassell e Gena Rowlands e diventato un classico assoluto. La storia d'amore delirante tra Minnie, esaurita ,pretestuosa e incapace di crearsi una relazione, e Seymour, uno sfaccendato hippie( che ha influenzato il personaggio de Il Grande Lebowski) che si innamora disperatamente della donna. Tutti i canoni del cinema di Cassavetes sono rappresentati da questi personaggi, pazzi ed incoscienti, dei bambini che giocano con i sentimenti senza preoccuparsi delle conseguenze a cui vanno incontro, una generazione folle e assolutamente libera che si confronta con il mondo con menefreghismo, senziente di sè stessa, egoista e debole, mai replicata. Capolavoro.

di Gianluigi Perrone

LA SERA DELLA PRIMA (OPENING NIGHT) di John Cassavetes (1977)

Atto d'amore di John Cassavetes al lavoro di attore e alla follia insita dei più grandi talenti di cinema e teatro, Opening Night è la riflessione del regista/attore sulla sfida di un individuo (in questo caso l'onnipresente Gena Rowlands) a confrontarsi con l'età matura. Dominata dall'attrice, la scena vede un personaggio tipicamente cassavetesiano, telluco, alcolizzato e viziato , l'attrice in là con gli anni Myrtle Gordon,che non riesce a raccapezzarsi con la sua esistenza ma dedica tutto a quello che vive sul palco. Contemporaneamente alla sua esistenza, perseguitata da una giovane fan morta nel tentativo di inseguirla, viviamo le scene della commedia che sta interpretando a teatro e la maniera con cui osa stravolgerla secondo i suoi capricci. Al di là del rimorso per la morte della ragazza Myrte ne invidia la giovane età ed il fatto che lei, ormai in avanti con gli anni, ha in qualche modo rubato il bene preziosissimo della giovane.

di Gianluigi Perrone

Thursday, November 22, 2007

LA ANTENA di Esteban Sapir (2007)

In una città un cinico e potente uomo d’affari tiene in scacco la popolazione avendo rubato loro le voci. Riescono ad esprimersi col labiale e formando nell’aria le parole, quelle si, ci sono ancora. Un uomo e la sua famiglia, dopo aver conosciuto un bambino senza occhi ma che ha ancora la voce, decidono di combattere il tiranno attraverso un’antenna posizionata appena fuori città. La voce del bambino senza occhi è la chiave e devono trasmetterla a tutti gli abitanti affinché possano recuperare la loro. Per osteggiare il piano dei protagonisti il ladro delle voci mette loro ai calcagni un uomo ratto e un manipolo di sicari. Il film è girato come un’opera dei primi del 900’ di stampo surrealista, molti scenari sono costruiti in carta pesta e i monti attorno all’antenna che da il titolo all’opera sono realizzati con semplici fogli di giornale (con tanto di foto e articoli che si intravedono). Abbiamo degli echi anche nei confronti dell’opera di Odilon Redon, in particolare nella sequenza in cui si vede la luna che sta fumando il sigaro. Gli abitanti senza voce fanno in modo che la recitazione sia in linea con quella dei film muti dando un contrasto tra alcuni aspetti futuristici e altri che si rifanno al passato, un po’ quello che si vede in Brazil, ma qui siamo su canoni totalmente differenti. La Antena di Esteban Sapir, regista Argentino il quale aveva un altro film all’attivo e un videoclip di Shakira, è una metafora in stile fabula del totalitarismo, la città in cui si svolge la vicenda è una qualsiasi città, o uno stato, è lo stesso, l’importante è la frase che ripete l’anziano tra i protagonisti “ci hanno rubato la voce ma non le parole”. Un metafora perfetta del popolo a cui viene impedito di esprimersi, di avere una voce, ma che deve sottomettersi in silenzio alla brutalità di un regime. In Argentina durante la dittatura di Peron la situazione non era certo floreale, moltissimi dissidenti rifugiarono infatti all’estero… Un film interessante e brioso con degli attori molto bravi nel dare l’idea del film muto, interessante il lavoro di scenografia, le musiche e la perfetta fotografia in un bianco e nero d’altri tempi. Un’ opera che vuole essere istruttiva e ci riesce con uno stile del tutto peculiare.

di Davide Casale

Wednesday, November 21, 2007

MECHENOSETS di Filipp Yankovsky (2006)


Terzo film del regista Yankovsky, questa sua opera è degna di attenzione, vanta una storia particolare girata con estrema eleganza e una poetica visiva strabiliante.Il protagonista è una sorta di supereroe nell’accezione negativa, ossia un essere dotato di un misterioso potere: una lama che gli spunta dal polso quando si infuria. Il “dono” gli ha portato solo disgrazie, fin da quando bambino ha ammazzato senza volere il padre mentre assisteva impaurito e furente al pestaggio della madre. Ogni persona di cui si innamora e ognuno che gli sta vicino finisce per scoprire il suo dono e l’orrore che Sasha (così si chiama il protagonista interpretato da Artyom Tkachenko) deve sopportare. Il film si focalizza sull’amore che prova il nostro Sasha per la bella Katya (Chulpan Khamatova), sentimento corrisposto che amplificherà la sua sofferenza quando, dopo aver assassinato sempre senza controllo l’ex amante di lei, si troverà braccato dalla polizia e in fuga col suo amore. Quello che si nota nel film fin da subito è una fotografia estremamente curata, un uso di colori caldi e avvolgenti e un montaggio che segue dei canoni musicali, che danno un ritmo alle sequenze, ci si accorge presto di ciò e ogni immagine diventa incantevole. Fotografia e musiche, e questo è importante, sono ben lontane da dare un effetto cosiddetto videoclipparo al tutto. La storia di per se non è affatto complicata e lascia spazio ad una recitazione fatta soprattutto di gesti e di sguardi che rendono Mechenosets a tratti teatrale. Vi sono momenti indimenticabili, come lo sfogo sugli scogli sul finale del film, i momenti di smarrimento che prova il protagonista di fronte alla sorte ingrata che il suo dono-maledizione gli procura in ogni istante della sua esistenza. Ma quella lama da dove proviene? Che spiegazione ha? Anche questo concetto surreale di una lama che spunta dal braccio contribuisce a rendere il film affascinante, partendo da un presupposto che ha dell’incredibile. Personalmente se avessi saputo in precedenza di un tale soggetto non avrei scommesso sull’esito del film, invece mi sarei sbagliato. Questo Mechenosets è davvero un film mirabile.

di Davide Casale

JADESOTURI di Antti-Jussi Annila (2006)

Jadesoturi è il primo film in cui la Cina incontra la Finlandia: gli sforzi produttivi sono congiunti (vi partecipa in parte anche Hong Kong) e si alternano attori Finlandesi e Cinesi. Si mescolano vicende tratte dalla mitologia Finlandese ambientate attualmente nel Paese nordico e vicende ambientate nella Cina antica. Vi sono quindi scene di arti marziali, per la precisione di kung-fu e molti effetti speciali che hanno il compito di esaltare la parte mitologica tratta dall’opera di leggende folcloristiche Finniche denominata “Kalevala”.Il regista, alla sua prima opera, mette in campo una storia che ha come protagonista un fabbro e un vaso da aprire solo in caso di estremo pericolo.. Per quanto l’operazione non abbia precendenti e sia pionieristica, manca di una struttura efficace, i cambi di ambientazione tra presente e passato e quindi tra Finlandia e Cina antica sono fin troppo repentini e contornati da effetti speciali purtroppo fine a se stessi. Una semi delusione anche per quanto riguarda le scene di lotta, coreografate in maniera approssimativa, si è visto di meglio in numerosissime altre opere più o meno recenti e di varia entità. Le carte in regola, per essere per lo meno un prodotto interessante, le aveva tutte, ma il regista non riesce a confezionare una storia interessante e più volte ci si annoia sebbene capiti di tutto durante i 110 minuti della durata. Il film per lo meno non è costato molto, anzi direi molto poco per un’operazione del genere, si parla di 2.700.000 euro circa.

di Davide Casale

CHRONOPOLIS di Piotr Kamler (1982)

Con questo panflet è stato presentata l’opera in questione al SciencePlusFiction Festival edizione 2007 di Trieste: “Non esistono prove sufficienti della non esistenza di Chronopolis. Anzi, i sogni e i manoscritti concorrono nell’affermare che la storia della città è una storia eterna e di desiderio. I suoi abitanti, ieratici e impassibili hanno come una occupazione e piacere quella di comporre il tempo. Nonostante la monotonia dell’immortalità, vivono nell’attesa; un evento importante deve prodursi nell’incontro tra un istante particolare e un essere umano. Ora, quest’atteso momento si sta preparando.”
Piotr Kamler è un regista polacco classe 1936; era in stretto rapporto con le avanguardie, soprattutto musicali, durante gli anni ’60. Di lui si dice essere più un artigiano che un artista, questo perché creava lui stesso in laboratorio scenari e oggetti che poi animava nei suoi lavori. I mondi particolari che metteva in mostra Kamler sosteneva esistessero veramente, erano solo in attesa di essere rappresentati. Questo lungometraggio di 82 minuti fu presentato fuori concorso a Cannes nel 1982 nella versione estesa di due ore circa. L’approccio a un’ opera di questo genere è particolare, va ovviamente introdotto e reso consapevole il pubblico di quello che sta per vedere. Il “comporre il tempo” di cui si parla nel panflet sono delle immagini in cui particolari figure architettate ad hoc per dare una continuità individuabile nell'infinito. I bizzarri abitanti di Chronopolis compongono il tempo liberando oggetti che vanno a incontrarsi e scontrarsi, che generano altri oggetti e che hanno come comune denominatore quello di mantenere una sorta di scansione della realtà, di cui nella città sono privi dato che il tempo non è ravvisabile in nulla. Con un approccio disinformato Chronopolis potrebbe essere tranquillamente usato come strumento di tortura, data la monotonia delle sequenze. L’immagine qui presente è tratta dalla copertina di un dvd che oltre a raccogliere questo lungometraggio contiene altre 9 opere, cortometraggi, firmati sempre dallo stesso artista.

di Davide Casale

ALMAZ BLACK BOX di Christian Johnston (2007)


“In 1998 a Russian Military Space Station received a powerful signal of unknown origin. Sixty-seven hours later the Station broke up in the Earth's atmosphere. The Russian Government initiated an extensive cover-up. They were unable to find the Station's Black Box and assumed it was destroyed on reentry. They were wrong. This year, the disturbing contents of the Black Box will be revealed.”

Presentato come film a sorpresa all’edizione 2007 del SciencePlusFiction festival di Trieste, in una sala mezza vuota con tanto di regista presente alla proiezione. L’opera è stata inserita tra i film a sorpresa, così ci han detto, quindi senza titolo, per i temi delicati di cui tratta, sarebbe del materiale sottratto per chissà quali vie all’intelligence Russa.. L’aura di mistero si è impadronita subito degli spettatori e il film viene spacciato come documento segreto. Nessuno dei presenti, immagino, si aspettasse da un momento all’altro un' irruzione di corpi speciali Russi con Putin in persona armato di sciabola, tanto meno il sottoscritto, il quale ancora col sapore del pranzo in bocca si apprestava divertito alla visione, anche se devo ammetterlo, piuttosto incuriosito. Il film è girato molto bene, chiaramente per la maggior parte in camera a mano, intervallato da riprese delle videocamere fisse posizionate nella navetta che registrano ogni cosa. Bisogna dire che il tutto è fatto egregiamente, la tensione sale ogni minuto che passa e il film scivola via che è un piacere, ci troviamo anche noi all’interno della navetta e la claustrofobia è palpabile. Non a caso vi è un approccio molto big brother, con gli astronauti che spesso confidano le loro paure e i loro timori alla camera fissa, collegata ovviamente alla scatola nera. Una miscela vincente presentata in maniera speculativa, anche perché il giovane regista, quando fu il momento di intavolare un dibattito post visione, se ne è scappato (proprio di corsa) con una scusa incomprensibile sul fatto che l’attore del film non doveva essere presente in sala o chissà cosa.. Non l'ha ben capito nemmeno la presentatrice, molto carina tra l'altro. La mossa commerciale mi è parsa più che evidente e quasi ingenua, forse il signor Johnston dovrebbe tenere presente che non tutti sono allocchi. Pseudo antipatie a parte, il film è ben realizzato, lo si inserisce, non occorre nemmeno dirlo, nel filone Blair Wich Project e lo consiglio vivamente (tanto in qualche modo tenteranno di venderlo).

di Davide Casale

Tuesday, November 20, 2007

THE 4th DIMENSION di Tom Mattera & David Mazzoni (2006)

Tom Mattera e David Mazzoni girano a due mani e con 75.000 $ circa questo lungometraggio che vanta una buona fotografia in uno sgranato bianco e nero per tre quarti circa del film. La vicenda vede il protagonista, dapprima bambino e poi adulto, alle prese con un concetto che lo ossessiona, ossia la rappresentazione di una quarta dimensione, la quale sfugge ai sensi ma non esistono prove sufficienti per decretarla inesistente. Per buona parte del film assistiamo il protagonista in strani esperimenti accompagnati da fobie e manie di persecuzione con continui deja vu nei confronti dell’opera di Darren Aronofsky Pi. Tra alti e bassi e una colonna sonora praticamente assente, oltre ad un’incisività di rumori di fondo piuttosto fastidiosa, arriviamo all’epilogo e il palco casca tutto, fino all’ultimo bullone della nostra impalcatura immaginaria si sfalda e prende pure fuoco. Tutta la pazienza che abbiamo avuto nell’ osservare, quasi affascinati (o annoiati?), i deliri del protagonista viene ripagata col divenire di The 4th Dimension una fotocopia di un film di successo di qualche anno prima. Gli ultimi minuti di questo lavoro sono un plagio del finale di quel gran film firmato Brad Anderson che è Session 9. Vi sono sequenze identiche, stesso intreccio e stesse identiche rivelazioni con tanto di scenari pressoché identici. C’è da rimanere davvero a bocca aperta. Inspiegabilmente pare abbia vinto anche dei premi quest’opera, mentre i due registi dovrebbero solo vergognarsi.Vedere per credere.


di Davide Casale

CHRYSALIS di Julien Leclercq (2007)


Dalla Francia arriva questo interessante film di fantascienza, opera prima di un giovane regista classe 1979 che tenta, parole sue, di creare una sorta di fusione tra Gattaca e Minority Report. Presentato in questo modo sembra che l’originalità non sia di casa, ma nei confronti dei film sopraccitati, soprattutto di quello con Tom Cruise tratto dal romanzo di Philip K. Dick, vi sono solo similitudini di fondo.In Chrysalis salta subito all’occhio l’ottima e freddissima fotografia, diretta da Thomas Hardmeier, che sottolinea il contrasto tra gli eventi meccanici e spietati che avvolgono la storia, la quale però si fa sempre più umana man mano che si procede verso l’epilogo. La prova del protagonista, interpretato da Albert Dupontel, è estremamente efficace e rende alla perfezione un personaggio che rappresenta il classico poliziotto rude e deluso dalla vita, col peso di una moglie morta in una sparatoria tra le sue braccia. Ma Dupontel darà il meglio cambiando il registro di recitazione in seguito ad eventi dello script. L’attore è molto famoso in Francia, noi lo abbiamo visto piuttosto recentemente come partner di Vincent Cassel nel film Irréversible. Vi sono parecchie scene d’azione, e i combattimenti corpo a corpo sono quanto di meglio si sia visto dai tempi di Fight Club, diretti in maniera impeccabile con il risultato di essere davvero realistici. Non si tratta di arti marziali, ma di un ibrido di queste messo al servizio della lotta stradale più becera. Il regista Julien Leclercq, sebbene la giovane età, sembra avere le idee chiare, ha realizzato questo film con molti sforzi per riuscire a mettere insieme un budget di tutto rispetto, che si aggira attorno ai nove milioni di euro, pare si sia personalmente indebitato per riuscire nell’impresa. C’è chi lo accusa di presunzione per questa sua opera, di certo non chi scrive. Il film è un prodotto concepito per il pubblico di massa e gli effetti speciali di pregevole fattura non nascondono affatto l’intento, peraltro riuscito, di stupire. Una piccola curiosità: la giovane e bella protagonista del film è la moglie del regista.


di Davide Casale


VEXILLE di Fumihiko Sori (2007)


Fumihiko Sori era già noto nel 1997 come supervisore degli effetti speciali durante la lavorazione di TITANIC, il colossal firmato James Cameron. Nel 2002 gira il suo primo lungometraggio, che probabilmente molti di voi ricorderanno, un film bizzarro intitolato Ping Pong. Questo Vexille è il suo ultimo film, interamente girato in cgi che raggiunge i più alti traguardi nello sviluppo di questa tecnica. Il film è davvero sorprendente ed è a tutti gli effetti un prodotto ideato per un pubblico di massa, un blockbuster che è stato già venduto in oltre 120 paesi. Lo script è piuttosto classico, sebbene il film sia Giapponese è molto occidentale nella trama, con tanto di Americani come eroi di turno nel salvare il mondo. Siamo nel 2077 e il Giappone, uscendo dalle Nazioni Unite in seguito a pesanti sanzioni, si è isolato da anni tagliando ogni contatto con l’ambiente esterno. Sii sospetta che nel paese del sol levante si continui a sviluppare la tecnologia degli androidi, vietata in tutto il resto del mondo.. Gli Stati Uniti (e chi se no…) spediscono segretamente un’unita S.W.O.R.D all’interno del, i militari scopriranno un’agghiacciante verità.. Se la trama non brilla certo di luce propria, gli strabilianti effetti la mettono spesso in secondo piano, lasciando lo spettatore a bocca aperta con delle trovate create appositamente per la resa visiva. La morale, come in molti film di fantascienza di ultima generazione, è rivolta ai giovani, all’amore per la vita, un bene prezioso da non sprecare e soprattutto sottovalutare. Curioso il fatto che ci vengano propinate moltissime morti, addirittura delle stragi, il tutto comunque in funzione del sottolineare il significato di fondo del film: con la tecnologia non si scherza essendo una lama a doppio taglio. Certamente non siamo di fronte ad un capolavoro, ma vale la pena visionarlo in primis per il traguardo raggiunto con la cgi e per alcune trovate piuttosto interessanti, sebbene siano inserite in contesti molto derivativi rispetto ad altri classici scifi.

di Davide Casale

PUMPKINHEAD 4 di Michael Hurst (2007)

In Italia, terra di poeti, l’horror il più delle volte è trattato come genere di serie B. Basti pensare al trattamento riservato ai tre Gingersnaps, dove si è spacciato l’ultimo capitolo come primo e l’effettivo primo come sequel. A Pumpkinhead, saga creata dallo specialista in effetti speciali Stan Wiston, non è andata meglio. I capitoli migliori (i primi due) sono ancora da noi inediti e abbiamo avuto la fortuna di vedere solo in dvd i due sequel fotocopia (il tre e il quattro). Questo quarto film, a dirla tutta, poi è il peggiore della serie: mal diretto, mal interpretato da attori cani e neanche tanto marcato sul piano della violenza come invece era il predecessore. La trama è sempre quella: una morte violenta e uno sconsiderato che rievoca lo spirito di Pumpkinhead, un bambino rettile dalla testa a forma di zucca, che per lui attuerà una sanguinosa vendetta. Se nel primo capitolo (diretto dallo stesso Wiston) la formula era ancora (relativamente) inedita, arrivati al quarto episodio tutto puzza di tremendamente vecchio. A nulla servono le (flebili) ambizioni del regista di voler girare una specie di Romeo e Giulietta horror con questi due innamorati divisi dall’odio di due famiglie: se solo Brian Yuzna con “Il ritorno dei morti viventi 3” è riuscito nel miracolo. Meglio tacere poi sulla marchetta di Lance Heriksen, intrappolato nell’irritante ruolo di un fantasma consigliere. In America questo “capolavoro” è uscito direttamente sulla tv via cavo saltando persino il mercato dei dvd. Noi restiamo intanto in attesa che qualcuno si decida a buttare fuori Pumpkinhead 1 e 2, due opere che hanno segnato l’immaginario horror anni 80 e che a noi, come molti capolavori (Basket case fra tutti), sono stati solo sogni ad occhi aperti. In qualsiasi caso se proprio dovete vedere un Pumpkinhead in italiano buttatevi sul capitolo tre “Cenere alla cenere”, almeno lì il sangue tiene alta la tensione.

di Andrea Lanza

Saturday, November 10, 2007

PARANOYD di Debora(h) Farina e Giuseppe Amodio (2007)

Al di là di tutto il chiacchiericcio nato intorno a Paranoyd, la presentazione al Tribeca (ma che sia quel Tribeca?),delle presentazioni a Los Angeles(ma che sia quella Los Angeles?) e degli attestati di stima di Quentin Tarantino (ma che sia quel Quentin Tarantino?) quello che incuriosisce riguardo a quella che è stata pubblicizzata come una visual sensorial experience, un sexy thriller psicologico, una via di mezzo tra Argento e David Lynch è di che tipo di film fosse e se fosse effettivamente un film. Più di qualcuno ha espresso dubbi sulla creazione di un progetto cinematografico totalmente a budget zero, girato con una troupe di 2 persone tutto incluso in un solo giorno di riprese(compreso sonno e pausa pranzo). Il film esiste ed ha più di una qualità assolutamente inedita alla storia(del cinema e non). Nonostante siano dichiarate come influenze del film i succitati Lynch e Angento, il lavoro di Giuseppe Amodio(regia,sceneggiatura,operatore di camera,montatore,compositore,special fx,best boy,driver,stunt...) e Debora(h) Farina(soggetto,regia,camera,montaggio,fotografia,musiche,distribuzione,produzione...) ricorda più da vicino alcune delle sperimentazioni recenti di Jess Franco per l'uso di effetti caleidoscopici da funghi allucinogeni, preponderanza di atmosfere di erotismo più vicine al gonzo amatoriale anche se non così spinto ed il mistero,che è una costante del lavoro. Non solo perchè durante il film,come recita una delle numerosissime didascalie all'inizio del film, sono avvenuti fatti misteriosi ma anche per l'incomprensibilità di alcune scene topiche su cui la camera si dilunga, come le armi da Cluedo che spuntano dagli alberi all'inizio dei titoli di testa o una lunga insistenza sul disegno delle mattonelle della cucina su cui la camera inducia fino ad impazzire soffermandosi sui fornelli e successivamente sugli utensili del bagno, come a volere trarre fuori una misteriosa essenza dal focolare domestico. Ancora il mistero si insinua nel sonoro in loop, le musiche psichedeliche insistenti e onnipresenti che continuano oltre l'immagine, tanto che nonostante il cambio di scena la musica rimane la stessa, effetti campionati slegati dalla realtà, quasi ipnotici e senseless. E ancora la H che compare e scompare dal nome di Debora(h) Farina e la Y peregrina di Paranoyd, due incognite che potrebbero anche celare altri misteri sconosciuti. "Ogni mente costruisce il suo proprio mondo" è una delle numerose didascalie dalla quale si dovrebbe intuire il mistero dietro Paranoyd, didascalie da retrogusto seventies che diventano quasi dei video o addirittura un karaoke che segue le musiche a tema. Farina e Amodio sono tutti i personaggi che passano per lo schermo, addirittura quest'ultimo nel triplo ruolo del postino,di Giorgio e dello zappatore, con una rivelazione finale naturalmente aspettata visto che in fin dei conti sullo schermo ci sono sempre le stesse due persone. Paranoyd è un prisma che non teme rischio di spoiler vista l'esilità del plot, potrebbe essere il sogno lisergico di un ferrotranviere pachistano, di un infante che si appresta a nascere o di una foce che sta per morire, qualsiasi cosa potrebbero esprimere le immagini dello schermo così a rischio di epilessia. Espedienti sperimentali aggiungono effetto alla narrazione:scenografie asettiche,screensaver di windows,uso massiccio dello split screen,simboli fallici, la frammentarietà cronologica,new york sono derive drammatiche per lo spettatore che affrontano una anti-narrazione in divenire. Difficile contenere l'applauso nella scena di sesso ctonia in cui sotto il movimento delle coperte risuona una versione pop di Happy Birthday to You e con voce atona la protagonista recita un brano da un manuale di entomologia. Come è possibile tutto ciò? In una ideale sintesi minimale le farfalle,l'(assenza di) acqua sono temi semantici ormai quasi abusati ma qui rappresentati con una valenza popolare, quella della donna sexy che fa entrare l'uomo maschio per controllare il proverbiale tubo che perde. Nonostante le presenze del film siano due, il terzo protagonista del film è il bosco, che si ripresenta ancora e ancora,nelle stesse immagini colorate da tonalità opprimenti. Alla fine del film i nomi dei due protagonisti di questa avventura ritornano ancora e ancora a sottolineare la dualità dell'operazione ma quasi di monito oscuro verso quel mistero mai svelato che va oltre la visione del film, che ti porti a casa e ancora nel sonno della mente.

di Gianluigi Perrone

Sunday, November 04, 2007

QUEL TRENO PER YUMA (3:10 to Yuma) di Delmer Daves (1957)

Difficile spiegare bene cosa sia 3:10 to Yuma adesso che è diventato uno dei simboli del cinema western. La percezione che si sarebbe avuta allora è quella di un film smaccatamente commerciale, che prendeva i presupposti da Mezzogiorno di Fuoco, ma che aveva la freschezza e l'intuizione di portare elementi inediti nel genere. Questo,più che a Delmer Daves, che in definitiva era un ottimo artigiano ma non molto di più, si deve alla produzione che seppe riunire diversi elementi fortunati ed in qualche modo geniali. Abbiamo una storia avvincente, merito di un ancora inespresso Elmore Leonard che fa dei personaggi la forza del plot, tenendo solo sui due protagonisti il succo del racconto. Un uomo mite che deve portane un altro estremamente pericoloso all'appuntamento per venire portato in prigione a Yuma, a prendere quel treno. Ci sono diversi elementi che sono chiaramente catalizzatori di suspance. Innanzitutto il fatto che si aspetti l'evento che succede in quel momento, a quell'ora precisa. A questo si aggiunge l'assedio che precede il finale, dove convergono tutte le forze del film in maniera centrifuga e centripeta,i due protagonisti, il bandito Ben Wade, furbo,feroce ma con un codice morale e il contadino Dan Evans,un uomo pacifico che per denaro ma soprattutto per una dimostrazione personale verso la sua famiglia, si avventa a rischiare la vita. Naturalmente l'idea è che ci sia un rispetto che accomuna i due,Wade in pratica racconta a Evans la sua vita e dimostra di conoscerlo ma di aver scelto una strada diverso. Nel luogo dove sono loro in attesa sembra esserci un fulcro atomico pronto ad esplodere, che alcuni rifuggono per timore e altri cercano di raggiungere per innescare. Entrambi i protagonisti hanno il potere o il volere di rifuggirlo ma si crea una ideale bomba che deve raggiungere la fine del suo conto alla rovescia per terminare. Quel 3:10 per Yuma. Se un plot del genere trionfa su tutta la linea, che dire del fatto di usare Glenn Ford come protagonista, una proposta che non ha il fine solo di richiamare il pubblico ma di dare una immagine diversa al bandito verso cui lo spettatore deve avere una chiara simpatia. Questo era un lavoro di produttori intelligenti. Se pensiamo che il regista sarebbe dovuto essere Robert Aldrich possiamo solo immaginare verso che livelli potesse aggirarsi il prodotto finale. Una curiosità su quale peso abbia avuto la popolarità del film a livello mondiale, il termine Yuma è diventato a Cuba di uso comune riferito ai turisti americani.
di Gianluigi Perrone

Sunday, October 28, 2007

IN PRISON MY WHOLE LIFE di Marc Evans (2007)

Documentario realizzato da Marc Evans (Trauma, My little Eye) su Mumia Abu-Jamal, giornalista di sinistra ed esponente delle pantere nere condannato più di vent'anni fa alla pena di morte e ancora in attesa di esecuzione. A seguire la vicenda ci pensa un giovane di nome William anni nato proprio il 9 dicembre 1981 il giorno che Mumia in circostanze ancora misteriose viene arrestato per aver sparato e ucciso un poliziotto. Inizia bene questo documentario, con un countdown di un interminabile minuto di attesa. Un minuto in confronto a 25 anni. Giusto per rendere l'idea. Che Mumia sia colpevole o no l'attesa è una condanna troppo severa per tutti: un girone infernale costruito dalla burocrazia. Specialmente se poi la condanna viene attraverso un mezzo medievale come la pena di morte. E fino a qui tutto a posto. Il problema del dopo Moore è che ogni documentario deve avere il suo bel apparato di effettismo populista. Ecco allora che Marc Evans si gioca la carta del razzismo. Magari è pure plausibile che Mumia sia stato arrestato perchè era nero. Ma quali sono le prove; un Giudice che dice "aiutatemi a friggere questo negro!". Dove sta scritto che veramente il Giudice abbia riferito queste parole; da nessuna parte. Ma il documentario da per scontato di si. Per forza. Siamo in un mondo razzista. Altre prove: un schemino sugli spari che neanche il caso JFK. Un prostituta pentita dopo 25 anni. Ok. Ammetto di aver avuto pietà nei confronti di Mumia. Ma perchè si cerca sempre di istaurare un processo mediatico. Dove mai hanno portato le teorie di cospirazione? Credo da nessuna parte. Interessante invece il discorso politico sui vari movimenti Black nei anni '70. Noam Chomsky, Angela Davis, Alice Walker, Steve Earle sono solo un gruppo delle persone intervistate per raccontare quegli anni. Da pazzia invece lo sgombero di un palazzo occupato da un movimento chiamato "move" attraverso un bomba. Un bomba lanciata da un elicottero cha fa saltare in aria un palazzo (c'e il video):11 morti, tra cui 6 bambini e siamo a Philadelphia non in Vietnam ricorda una delle tante voci di quell'epoca. Pazzesco. Questo è il razzismo. Naturalmente il documentario si chiede se quello che succedeva allora succede anche ai giorni nostri. Purtroppo cade ancora nel ridicolo intervistando Mos Def e Snoop Dogg. I due Rapper prendono come esempio l'arresto di Mos Def durante uno spettacolo tenuto in piazza. Con tutta la simpatia che ho per il personaggio c'è un differenza grande come oceano tra un uomo condannato a morte per omicidio e un rapper che viene arrestato (probabilmente per farsi pubblicità) durante un esecuzione Live. Tutti d'accordo che il razzismo esiste. Ma ci sono esempi ed esempi.

di Daniele Pellegrini

Saturday, October 27, 2007

POP SKULL di Adam Wingard (2007)

Sarò io. Devo avere degli anticorpi che mi permettono di assemblare qualsiasi informazione da un film del genere. Pop Skull guarda con ingordigia a Tsukamoto e Lynch. Wingar vorrebbe (o crede, che differenza fa?) far parte della loro prole. Sognare le stesse cose. Sperimentare le stesse tecniche. Pisciare pure nello stesso cesso se fosse possibile. Wingar non è il solo. Quello che la gente si deve mettere in testa è che sia in Tsukamoto che in Lynch (per quanto mi duole dirlo) c'è un idea di cinema. Quella che permette da più di cent'anni di raccontare storie. Non è la tecnica o il fatto di essere criptici. E' l'idea stratosferica che ognuno la sua storia la racconta come vuole lui (un pò come le barzellette). Quindi premesso questo voglio giudicare Pop skull solo per quello che è. Prima di tutto va chiarito un fattore; questo non è un horror. Pop skull è un film dilettantesco (niente scuse dei 3000 dollari), che si basa escusivamente su tre fattore: Lei lascia Lui, Lui si deprime e vede un fantasma, Lui fa la stronzata. Niente di più. Poteva benissimo durare 5 min. Eppure riescono ad allungare il brodo con una serie infinita di effetti allucinogeni. Divertente? Non credo. Qualcuno ha mai detto che i tempi di caricamento dello Spectrum era arte; no, preferivamo giocare. Qual'è allora il senso di tale operazione? Non riesco a spiegarmerlo. Un frase iniziale diceva "che il film poteva creare problemi a chi soffre di epilessia". Precauzione giustissima ma allora perchè nessuno si interessa a chi soffre invece di sonnolenza? Un idea per il cinema in generale.

di Daniele Pellegrini

JUNO di Jason Reitman (2008)

Good Vibrations. Le vibrazioni positive cantate dai Beach boys sono forse l'esempio perfetto per spiegare Juno. Quelle vibrazione emozionali che separano l'ipocrisia dalla tenerezza. Dimenticate per un attimo chi per meschinità esibisce dolore e pianti. Juno parte da un presupposto deplorevole per la società moderna; la gravidanza prematura di una quindicenne. Eppure non può esimersi da essere una commedia; dark, ma pur sempre commedia. Jason Reiman figlio del grandissimo Ivan non più di due anni fa aveva esordito con Thank You for Smoking, commedia di buon livello ma didascalica sul problema dell'industria del tabacco. Ottimo film ma Reiman si era fatto travolgere troppo da un script cinico senza lavorare seriamente sui personaggi. Qui in Juno non fa lo stesso errore; il nuovo mondo creato è un posto dove uno può sputtanarsi, amare, lasciare, odiare, isolarsi, ignorare; insomma farsi travolgere dalle emozioni. I personaggi sono emozionali. C'è Juno (Ellen Page) insofferente quindicenne incinta che vorrebbe affrontare la vita come un adulto ma con la capacità orribile di rimanere adolescente come Mark Loring (Jason Bateman). Paulie Bleeker (Michael Cera), ingordo mangiatore di Tic Tac, frastornato dall'idea di aver messo incinta una ragazza e di non poter avere scelta sulla questione solo perchè si sente ancora un gretto adolescente. Fino ai due genitori di Juno (due strepitosi J.K. Simmons e Allison Janney) e il loro modo di essere quello che la ragazza vuole solo perchè non possono essere d'esempio. Ma non c'è niente di sbagliato in questi personaggi; anzi si può definire con assoluta certezza che non esistono personaggi cattivi. Anche la frustrante Vanessa Loring (Jennifer Garner), adotattrice del bambino insieme a Mark Loring, si rivelerà un personaggio più dolce di quanto potesse far pensare all'inizio. Eppure in mezzo c'è aborto, l'adozione, il sesso e i rapporti di coppia. Il messaggio è chiaro; non esiste gente cattiva, ma solo situazione sgradevoli. Non so dire se questa affermazione sia plausibile (ma di sicuro piace) ma vorrei essere più chiaro di un eclissi; Juno è un capolavoro. E' non è assolutamente per quella brodaglia scritta qualche riga più su. Le emozioni non possono essere descritte e di certo non sarò io a levar merito alla poesia. Guardatelo e innamoratevi senza compromessi. Lo script magnifico è stato scritto dalla bloggista Diablo Cody; la sua passione per l'horror porta a un piccolo scontro dialettico tra Juno e Mark su chi sia meglio tra Dario Argento e Herschell Gordon Lewis. Solo per i più fanatici. Quattro parole pure per Ellen Page; mostruoso talento di vent'anni. Imperdibile anche per lei.

di Daniele Pellegrini