Wednesday, June 27, 2007

L'ULTIMA SFIDA (The Challenge) di John Frankenheimer (1982)

Gioiello misconosciuto di Frankenheimer,”the challenge” è un film che mostra più che l’incontro tra la civiltà americana e quella Giapponese ,lo scontro tra la tradizione e modernità. Pollack in “Yakuza” metteva a confronto lo yankee rozzo ma dal cuore d’oro con le regole d’onore giapponesi; qui,invece, Scott Glenn è un uomo che si ritrova in una terra straniera tra due fuochi,da una parte la modernità del nuovo capitalismo criminale che vuol corromperlo,e dall’altra l’onore di una tradizione atavica,impersonata dal maestro Toshiro Mifune e dal suo dojo. Un americano,intrappolato in Giappone per colpa di una antica spada,contesa da due fratelli,che,decide di imparare le antiche tecniche di combattimento samurai,allenandosi duramente,al limite della sopportazione umana. Glenn,con quel viso da uomo da marciapiede dal fisico scultoreo,affronta la fatica e la rudezza degli insegnamenti,accettando financo la tortura,venendo sepolto,con solo la testa fuori dalla terra e resistendo in questa situazione per cinque giorni,digiuno ed assetato.tutto ciò per rinascere guerriero. La trama segue il viaggio della spada,dagli U.S.A. dove era stata rinvenuta,dopo la battaglia di Okinawa,fino al Dojo del maestro Mifune,dove gli scagnozzi del fratello di quest’ultimo cercheranno di rubarla molte volte. Un film che rappresenta sia la lotta interiore del protagonista che da saltimbanco americano si tramuta grazie alla filosofia del bushido,ma anche il confronto tra vecchio e nuovo,simboleggiato dal diverso tipo di armi utilizzati dai due contendenti. I malvagi usano pistole e fucili,mentre le antiche armi,kitana e shuriken ,sono le uniche adoperate dal buon Mifune e dai suoi accoliti. Il film si muove su questi sentieri,fino all’esaltante redde rationem. Il duello finale è un passaggio da annali del cinema.Da togliersi il cappello. Una sfida,appunto,di due uomini, il vecchio Mifune e Glenn,armati solo di kitane e frecce, che si fanno largo in una fortezza ipertecnologica ,contro migliaia di nemici armati di moderni mitragliatori. Una scena che avrà fatto sbavare il Tarantino di “Kill Bill”,c’è da scommetterci! Un ultimo duello,dicevo, lunghissimo,con tanto di scarnificazioni,decapitazioni e trovate divertenti ed esaltanti ,che vi faranno sghignazzare e dimenare nell’aere il telecomando del videoregistratore come una immaginaria spada.

di Andrea Scalise

HOME SWEET HOME di Pou-Soi Cheang (2005)


Prima di DOG BITE DOG Pou-Soi Cheang gira questo horror che in realtà proprio di un horror nella classica accezione non si tratta, sebbene ne abbia tutta l’apparenza. Il talentuoso regista, già apprezzato in LOVE BATTLEFIELD, non si tira indietro nell’esternare attraverso i suoi film riflessioni sulla violenza umana più becera, sia fisica che emozionale. Illustrando come i sentimenti si trasformino in odio e anche in terrore e come l’egoismo umano sia un’arma micidiale. Il tutto però è naturale e paurosamente umano. Pou-Soi Cheang è straordinario perché confeziona dei quadri che si muovono apparentemente allo sbaraglio guidati da una forza dettata dall’istinto e dalle emozioni, il regista non si pone e non ci permette di porci come giudici, quello che lui mette in scena sono uomini e anche noi lo siamo, casi estremi certo, ma che se li guardiamo con consapevolezza e calma diventano casi di tutti i giorni, estremizzati o meno che siano. Questo film mette al centro il dualismo che rivedremo in un’ altra forma in DOG BITE DOG, l’amore di due persone che si trasforma in morbosità omicida, l’amore che si trasforma in una forza inarrestabile e pericolosa. Il mettersi in gioco è il fattore fondamentale del film, chi avrà il coraggio di andare avanti saprà. Gli ambienti asettici della location principale del film, un palazzo ultra moderno fresco di inaugurazione, si contrappongono al mostro (?) che fa da protagonista alla locandina del film, sporco, fatiscente, strisciante e che bivacca tra le intercapedini del palazzo e dei modernissimi appartamenti, come un ratto intrappolato in un luogo in cui si è abituato a vivere, o meglio sopravvivere, ma con cui non dovrebbe avere nulla a che fare. Il titolo originale è GWAI MUK ma è uno dei titoli per il mercato estero, HOME SWEET HOME, ad essere perfetto, per il fatto che richiama il dualismo con la parola “casa” e con al centro “dolce”, la dolcezza prima della tempesta, ossia del dolore in cui il dualismo ha luogo in una concatenazione di eventi dettata come sempre dal fato, d’altra parte la condizione umana per Pou-Soi Cheang sono la sofferenza e il dolore come fattori pressoché incontrollabili, e di nuovo abbiamo un dualismo: dolore fisico – dolore emozionale. Il binomio lo abbiamo in maniera ancora più evidente nel film successivo DOG BITE DOG, fin dal titolo originale stesso: GAU NGAO GAU. HOME SWEET HOME è un’opera struggente, non si riesce a non partecipare a tanto strazio e le lacrime scendono automaticamente in un crescendo di emozioni contrastanti, orchestrate ad arte da Pou-Soi Cheang.

di Davide Casale

HIDESHI HINO'S THEATRES OF HORROR - BOY FROM HELL di Mari Asato (2005)

Hideshi Hino è un artista giapponese a tutto tondo, in primis è un rinomato fumettista di manga horror, nonchè produttore e regista della famigerata serie splatter di culto Guinea Pig, ispirata in parte ad un suo fumetto Flower of Flesh and Blood e Mermaid in a Manhole.
I suoi lavori sono stati tradotti in varie lingue, da noi manco a parlarne se si esclude il suo “Visione d’inferno" 1992 (uscito per vie miracolose).
Le storie di Hino sono frutto di un attento mix di orrori quotidiani e tradizioni folcloristiche giapponesi filtrate in chiave horror, visivamente vicine al nostro cinema di genere.
Tutto questo per introdurre Hideshi Hino's Theater of Horror, una serie di
medio-metraggi supervisionati dal "maestro" e tratti in parte da sue idee/fumetti, realizzati per il mercato Home video giapponese, il cosiddetto “V cinema” (mercato assai florido di produzioni low budget a sfondo horror splatter con picchi di erotismo ai confini col porno).
Il primo capitolo di sei, il migliore a detta di chi scrive e l’unico preso in esame in questa sede s’intitola Boy from hell.
Daio, un ragazzino, muore durante un violento incidente stradale (scena capace di far rimanere a bocca aperta anche i più smaliziati), la madre inconsolabile darà ascolto ad una vecchia strega pazza. “Solo uccidendo un bambino della stessa età di tuo figlio, lo farai tornare da te” (passandogli uno strano artiglio in mano)
Però come spesso accade in queste storie, chi torna dall'aldilà è profondamente cambiato.
I richiami a Pet Cementary sono evidenti anche se il film si discosta di molto per la messa in scena e la soluzione del plot, in entrambi i casi però, abbiamo due madri pronte a tutto pur di riavere il proprio figlio.
Il povero Daio torna in vita deforme e con una fame implacabile, una voracità non soddisfabile in un qualsiasi Mc Donald, e così via alla sagra del “blood & guts”!
La deformazione fisica nei film di Hino (o da lui supervisionati) è sempre il contraltare al marciume che abbiamo dentro all'animo o in macro, il marciume di una società ormai sull'orlo di un decadimento morale, un male che si nutre di se stesso, così come Daio si ciba dei suoi simili, forse per sentirsi come loro o semplicemente per vendetta. Sentimento che di sicuro attanaglia la madre ormai priva di qualsiasi rimorso o freno morale, tanto da aiutare il figlio nella caccia.
Girato in video e con abbondante uso di fondi disegnati o ripresi dai fumetti dell’autore, l'atmosfera che si respira è pregna di un malsano senso di oppressione e degrado che non viene minimamente filtrato da uno spiraglio di luce.
Le vicende di Daio e della madre fanno paura, ma una paura intima, un dolore che si stringe come un serpente al fegato, non solo per le scene gore abbondanti e "Fulciane", ma per un senso di malessere che ci trasporta nel mondo di una donna impazzita per la perdita del figlio e le conseguenze ad essa correlate.
Splatter-sociale degno del miglior Yuzna (con le dovute differenze), esempio di cinema da noi impensabile e di difficile collocazione all’interno di un panorama saturo come l’horror.

di Marco Figoni

AFTER DEATH di Claudio Fragasso 1988

Correva l’anno domini 1988 quando Claudio Fragasso girò il suo “After death”. Nessuno capì la portata di un simile colosso, ma niente sarebbe stato più lo stesso nel cinema horror dopo questo seguito spurio di “Zombi 3” di Lucio Fulci. “After death” è un incubo surrealista, un viaggio senza ritorno nell’inferno più rosso e violento, dove il sangue, i colori, la nebbia sono tonalità presenti nella tavolozza di un pittore impazzito. La trama è poca cosa è vero, ma non di certo materiale di scarto, visto la varietà di citazioni e l’interesse inaspettato nel ritagliare ombre su personaggi all’apparenza bidimensionali. L’idea di un manipolo di reduci del Vietnam posti al centro dell’azione e di umanizzare inaspettatamente gli zombi ha l’occhio di una Cassandra avanti col tempo (“Dal tramonto all’alba” ne sa qualcosa). Sicuramente “After death” è qualcosa di assolutamente moderno e diverso da ogni altra cosa concepita prima. In primis l’intro lunghissimo, quando la mania dei prologhi alla “Scream” è lontana, ha il sapore di un’intuizione avanti mille anni luce da un semplice prodotto d’imitazione. Così come porre in un ruolo regio l’hubrìs umana, il cercare di vincere la morte, ha la grazia sinuosa del serpente, la voce non ancora taciuta di un Omero cantore di eroi e divinità crudeli. I primi dieci minuti sanno giostrare la paura con precisione quasi balistica. Se da una parte i ghoul di Fragasso devono più di un obolo ai Demoni di Bava, dall’altra risultano completamente differenziati per come sono raffigurati con osceno attaccamento al vissuto terreno: parlano, sparano e hanno coscienza. “After death” dice forse la parola definitiva al cinema dei morti viventi. Neanche lo stesso Romero riuscirà con “Land of the dead” ad avere la stessa forza del film di Fragasso. D’altronde come poter liquidare come semplice bassa macelleria un film che si chiude con un finale così plumbeo, barkeriano? Come l’occhio di “Un chien antalou” viene estirpato dal vigore surrealista di Bunuel così la carne e la materia umana diventano solo un passaggio per l’anima. Fragasso gira, tra rallenti e guerriglie urbane, l’inferno sulla terra più sconvolgente mai visto sullo schermo dai tempi di “Dawn f the dead”. Probabilmente non comprendendo neanche lui la portata di una tale pellicola. Quello di Fragasso è uno splendido gioiello ancor oggi sottovalutato. Come un magnifico quadro in attesa di essere studiato…
di Andrea Lanza

JACKIE BROWN di Quentin Tarantino 1997

Se Pulp Fiction è una lampante evidenza dello stile di Tarantino,Jackie Brown lo è della sua anima. Dopo l'inaudito successo del film precedente,il giovane regista del Tennessee aveva un grandissimo potere ma anche una grandissima responsabilità con sé stesso e con i fan. I secondi li ha trascurati ed ha deciso di fare quello che aveva sempre desiderato nella vita:fare un film con Pam Grier. La regina della blaxploitation,insieme alla presenza di Samuel Jackson nel ruolo di Ordell,hanno creato un po' di confusione sulla natura del film che proprio non rientra nei classici stilemi del genere. Infatti,che fossero i fortemente politicizzati film di Melvin VanPeebles e di Ralph Bakshi o le cazzate parodistiche di Rudy Ray Moore,quello che accomunava il genere era una presa di coscienza della comunità nera,cosa che è assolutamente assente nel film di Tarantino,checcè ne abbia detto qualcuno poco attento. Quindi l'omaggio di Tarantino è solo ai personaggi,Ordell e Jackie vengono da quei film ma vivono in un contesto diverso. Lo stesso Ordell è meno macchiettistico di quello che ci si aspetterebbe. Quello che probabilmente colpiva Tarantino era la personalità e la forza della Grier che probabilmente gli ricordava la madre,d'altronde QT è stato abbandonato dal padre da piccolo ed è stato cresciuto dalla madre quindi questo lato tutt'altro che misogino(altro misunderstandig da parte di alcuni)è comune e comprensibile. Jackie Brown quindi si presenta come il progetto più ambizioso,forse coraggioso più probabilmente incosciente,in cui Tarantino elabora un soggetto non suo(Rum Punch di Elmore Leonard)con l'intenzione di rispettare il modello adattandolo però al suo colorito universo,un'impresa non facile. Inoltre è evidente che Tarantino intende dargli uno spessore più forte,fugando qualsiasi critica passata,alla ricerca di un valore più autoriale per film. Ha in mano gli attori che vuole ma il suo istinto lo fa innamorare del personaggio di Samuel Jackson(qui in una delle migliori interpretazioni della sua carriera)e di "mamma" Jackie che diventa veramente un personaggio "larger than live". Questo a discapito sia di Robert De Niro che,non c'è nulla di male a dirlo,è decisamente fuori parte anche perchè si era proposto per il ruolo di Robert Forster(quindi Tarantino ha detto di "no" a De Niro,segno che l'amore per la sua arte di questo "big boy" supera qualsiasi timore reverenziale,comportamento bissato con Warren Beatty in futuro in maniera ben più incisiva). In jackie Brown Tarantino sembra morto e rinato in sé stesso,finalmente libero di fare tutto. Quindi Tarantino ravana nell'intimo e produce questo sentimento nostalgico,crea probabilmente involontariamente un film che sembra quasi parlare di terza età ma che in realtà è un desiderio di eterna libertà a cui il regista si presta in estasiata contemplazione. E' la contemplazione di ciò che è bello e che ora non è più quella di Jackie Brown che al di là di alcuni meccanismi non perfettamente oliati nella trama,dimostra alcune capacità registiche di Tarantino gigantesche da far tremare le vene all'interno dei polsi. Jackie Brown oggi è considerato il film di Tarantino che non piace a nessuno tranne a quelli che vogliono farsi i belli ma in questo film si vede molto più il percorso umano di quello professionale del regista,che ha bruciato a tal punto le tappe da aver fatto il suo vero capolavoro subito,già al suo terzo film. Il bello è che se Tarantino avesse fatto questo film nel 2023 sarebbe stato salutato come un genio assoluto,invece al botteghino fu un flop. Ironia galileiana.
di Gianluigi Perrone

FOUR ROOMS di Anders,Rodriguez,Rockwell,Tarantino 1995

Four Rooms nacque come omaggio di Tarantino all'anti-realismo della nouvelle vogue e al suo spirito cameratistico che tutt'ora lo lega a Robert Rodriguez e che lo portò a voler fare un classico film a episodio,ogniuno diretto da un regista diverso,insieme a dei compagni del Sundance Film Institute Robert Rodriguez, Allison Anders, Alexandre Rokwell e Richard Linklater,quest'ultimo poi uscito dal progetto. Allora partono dall'assunto più banale,un albergo e le sue tante camere e dal personaggio di Jerry lewis in Ragazzo Tuttofare,una delle interpretazioni più esilaranti dell'attore. Tim Roth(che prese il posto di Steve Buscemi)entra completamente nella recitazione nervosa ed ironica del personaggio(non avrebbe sfigurato Jim Carrey)e vive queste avventure inverosimili. La prima,Strano intruglio,di Allison Anders, è completamente al femminile e vede un gruppo di streghe(tra cui Valeria Golino,Lily Taylor e Madonna che vinse i Razzie per la peggior performance)che cercano di riportare in vita una Dea ma ammancano dell'ingrediente principale,che una di loro dovrà "succhiar via" da Ted,il factotum. Il secondo,L'uomo sbagliato di Alexandre Rockwell è il gioco perverso di un marito geloso con la moglie dispettosa. Già questo,rispetto al primo,gode di una regia più frenetica e ispirata. I Cattivi di Robert Rodriguez si scatena sulla sua solita commedia familiare che poi riporterà in Spy Kids,con Banderas questa volta padre tremendamente autoritario che mette a nanna i figlio con Ted come baby sitter. Tutto andrà talmente in malora da sembrare inconcepibile. Il bello è che in poco tempo Robert Rodriguez,in un impeto di politically diabolical uncorrectness,prende in giro la sessualità,l'educazione minorile e l'aids arrivando a unirle insieme in una scena in cui l'allora undicenne Lana McKissack(che per la cronaca è diventata un bel pezzo di gnocchettina)si arrischia in atteggiamenti provocatori addirittura mostrando il piede,evidente presa in giro per l'amico QT. Quasi sicuramente l'episodio migliore. Infine Tarantino interpreta praticamente se stesso in questo delirante festeggiamento di capodanno in cui pretende di riprendere L'Uomo del Sud(qui L'Uomo di Rio)da Hitchcock presenta,con il giochetto della scommessa dell'auto per un dito della mano. Il pretesto della citazione esiste pr due motivi:prendere in giro gli stereotipi mondani di Hollywood e stupire con alcuni piani sequenza da brivido.

di Gianluigi Perrone

GRAVE DANGER di Quentin Tarantino 2005

Il 5x23-24 di CSI è stato pubblicizzato in pompa magna perchè scritto e diretto da Quentin Tarantino,da sempre fan della serie. QT si prende il tempo degli altri registi e cerca di essere il più onesto possibile nei confronti della serie non senza aggiungersi degli elementi personalissimi,quasi esclusivamente citazionistici. Alla dife,nonostante sia stato spacciato quasi come nuovo film di Tarantino,Grave Danger non che una normale puntata di CSI con massicci elementi tarantiniani per appagare i fan del regista. E quindi ad un tratto Grissom e soci usano dialoghi pop,le immagini del film diventano più incisive e così la trama. E' evidente che il mezzo del format televisivo mostra sia la forte personalità registica di Tarantino che i suoi limiti nell'adattarsi ad una struttura che lo chiuda in dei limiti. E' naturale che per dare il meglio di sé Tarantino non debba essere legato da nessun vincolo altrimenti il tutto si trasforma,diventa innaturale ed imperfetto. Che sia un bene o un male poco importa.

di Gianluigi Perrone

KILL BILL VOLUME 2 di Quentin Tarantino 2004

Uno scorpione, dovendo attraversare un ruscello, chiese alla tartaruga di portarlo dall'altra parte.Stai tranquilla, le disse, non ti pungerò perché se lo facessi moriremmo tutti e due in mezzo al guado. La tartaruga si convinse e accettò di traghettarlo ma in mezzo al guado lo scorpione la punse.Prima di morire della velenosa puntura la tartaruga chiese allo scorpione perché mai avesse fatto un gesto così inconsulto e la risposta fu:è la mia natura. Questa vecchia favola indiana ,che forse casualmente appariva in maniera leggermente dissimile in Natural Born Killers, può riassumere il messaggio di Volume 2,un film molto più intimo rispetto al precedente,un ennesimo colpo di scena di Tarantino che in mezzo alla storia di violenza e vendetta della Sposa (che qui finalmente conosciamo come Beatrix Kiddo)parla di una storia di amori,di quello di Bill per Beatrix,di Beatrix per la figlia e anche di Beatrix per Bill che,nonostante il conto in sospeso,è cosciente del fatto che il suo unico uomo può essere lui anche se ha scelto "un coglione" per la sicurezza del suo bambino. Volume 2 è un film molto più disperato,blues,del suo predecessore perchè ci proietta nella miseria della vita di questi personaggi. Bud è un disastro su tutta la linea e se lo merita e il serafico Bill non è da meno che,nonostante la saggia coscienza della sua malignità non si risparmia bassezza e prediche ipocrite,segni inequivocabili di debolezza. La nemesi di Beatrix,Elle,che contiene un universo già nel nome ,che in francese vuol dire "Lei",si legge come la lettera "L" ma anche "Hell" come inferno a sottolineare la sua personalità demoniaca antitetica a quella della Sposa. Qui Tarantino ci mette molto del suo,riferimenti personali evidenti anche se non possono essere noti. "Come ogni uomo cresciuto senza padre collezionava figure paterne",dice parlando di Bill ma il riferimento a sé stesso è chiaro. Ancora una volta l'azione è maestosa,anche se diluita emotivamente,e su tutte esalta la scena della sepoltura,ennesimo colpo da maestro. La parabola di Superman che Bill riversa su Beatrix,dopo averla ammorbidita con la visione della piccola BB,vero esempio di natural born killer come apprendiamo dalla storiella del pesce rosso,contiene il senso del film. Ciò che è nella propria natura non può essere negato con un compromesso,sta a chi è grande trovare la propria e portarla avanti a tutti i costi. Elegia del coraggio e della libertà,i temi del cinema di Tarantino.

di Gianluigi Perrone

KILL BILL VOLUME 1 di Quentin Tarantino 2003

E' eufemistico dire che l'operazione Kill Bill è quantomeno sospetta. In pochi hanno creduto al fatto che fosse intenzionale la divisione in due capitoli come due film diversi nel momento in cui,conoscendo i Weinstein,le regole di mercato gli imponevano di evitare di fare uscire un film di oltre tre ore e gli consigliavano di prendere due volte i soldi che avrebbero guadagnato per un unico film. Tarantino ha girato a suo favore questa "imposizione" ed ha realizzato due diversi capitoli della stessa storia con un mood completamente diversa. Volume 1,ormai è arcinoto,non è altro che un enorme omaggio a Lady Snowblood,per tutta la sua struttura compreso il cartone animato che,nel film di Toshiya Fujita erano delle scene a fumetti. Detto questo ci siamo tolti il dente dell'obbligo. L'atto d'amore di Tarantino al cinema d'Asia si trasforma in un capolavoro grazie alla disumana,è proprio il caso di dirlo,perizia tecnica del nostro che ha una specie di tocco di Mida nei confronti delle sue influenze. Le scene e le tradizioni che prende non vengono solo valorizzate ma trasformate per diventare gigantesche,epiche,indelebili nella memoria. Se dovessimo stare qui ad elencare la mole di riferimenti di Kill Bill volume uno non basterebbero delle ore,Kurosawa,Fukasaku,Honda fino a Miike ma non solo Giappone ma anche Hong Kong e cinemabis italiano,sono lo scheletro su cui vive questa opera mastodontica in cui è evidente non solo l'amore ma uno sforzo produttivo immane. Gigantesco il lavoro di Uma Thurman che qui è talmente centrale da rendere difficile credere che Tarantino non ne sia innamorato e talquale per Zoe Bell,che nelle acrobazie appare almeno per la stessa quantità di tempo. Stavolta sì che si può dire che Tarantino ha spinto l'accelleratore sulla violenza,sul sangue che è stato leggermente ammorbidito nella versione occidentale come se bastasse un bianco e nero per anestetizzare una strage all'arma bianca come quella che avviene nella Casa delle Foglie Blu. La vendetta in Kill Bill è un elemento trainante ma non ideologico,inutile pensare a riferimenti all'11 Settembre o alla situazione americana,la vendetta tira in un film perchè è istintiva ed istintivamente ci si affeziona ad essa soprattutto per la quantità di abomini che ha subito la Sposa. Questo gigante di emozioni ed icone che è Kill Bill Vol 1 non sarebbe stato lo stesso senza una delle migliori colonne sonore mai sentite,curata da RZA,del Wu Tang Clan,che lega in maniera geniale le azioni. Incredibile come Tarantino sia riuscito ad esaltare alla ennesima potenza tutti gli elementi exploitation del suo cinema,in una evoluzione stilistica che fa venire i brividi e che lasciava spiragli per il capitolo successivo che,ancora una volta per il gioco della beffa,non era quello che ci si aspettava. di Quentin Tarantino

PULP FICTION di Quentin Tarantino 1995

Paradossalmente Pulp Fiction è il film più semplice di cui parlare tra le opere di Tarantino. Praticamente non c'è nulla da dire,e stiamo parlando di uno dei film più influenti della storia del cinema! Già perchè a differenza di altre pietre miliari della settima arte non deve la sua grandezza all'importanza socioculturale della storia,alla rivoluzionarietà dello stile linguistico,a un particolare messaggio o modo di essere scritto o diretto rivoluzionario. Forse c'è tutto questo e nulla di questo in Pulp Fiction ma la cosa che lo rende indispensabile e capace di sostenere più e più visioni nel tempo è la sua perfezione nell'essere raccontato. Perchè Pulp Fiction è grandissimo perchè idealmente una puttanata,così come lo era Evil Dead che però può vantare lo stesso valore ma solo all'interno di un genere così a sé come l'horror. Il secondo film di Tarantino è l'intreccio di diverse storie di gangsters,neanche particolarmente originali. Quello che appare originale e familiare allo stesso tempo invece è la sua messa in scena. Se può essere paragonato a qualcosa,Pulp Fiction ha lo stesso effetto sullo spettatore dei Simpsons,altra invenzione geniale del secolo scorso. Non è tanto la fluidità a rendere leggera la visione di Pulp Fiction ma il continuo cambio di registro. E' molto più semplice per chiunque vedere diversi episodi di seguito rispetto ad una lunga storia intrecciata e PF solo a conti fatti è una unica storia. In realtà è una beffa geniale nascosta dietro una perfezione unica di regia,dialoghi,scenografie ed interpretazioni. Tutto ciò che avviene in quel film è estremamente assurdo e allo stesso tempo reale perchè questi personaggi si prendono il loro tempo ed esistono,con piccoli suggerimenti di cultura popolare che ci vengono innescati nella mente. Da questo punto di vista Pulp Fiction è universalmente subliminale. A tre quarti di film nessuno potrebbe negare che questi personaggi sono reali,realmente esistenti anche se in totale disaccordo con la realtà,così come avvine per alcuni personaggi dei cartoon e dei fumetti. Ancora,potremmo pensare ad un mondo in cui non esiste Homer Simpson?Oppure,sarà anche un papero vestito di marinaio ma nel nostro immaginario Paperino esiste,è vero! Questo perchè impariamo a conoscerli in quel breve lasso di tempo e sappiamo cosa farebbero,cosa sono,ci ricordano qualcuno. O ci ricordano noi o quello che vorremmo essere e dove stare,cioè in un mondo dove tutto è cool,cioè bello,affascinate,pericoloso,ridicolo...estremo. Estremo come tornare indietro con una katana per uccidere un gruppo di maniaci sessuali che stanno viontando un gangster negro in cantina. Se Tarantino abbia rubato la struttura dal cinema giapponese,oppure la coppia di gangster a Fernando Di Leo,poco importa. La certezza è l'influenza di Godard e quella di Aldrich ma sono talmente evidenti e dichiarate da rasentare il sublime. Se Tarantino è un ladro perchè nessuno ha saputo ripetere la stessa cosa e avere lo stesso successo? C'è qualcosa di più allora. C'è il principio dello storyteller che studio o ruberia che sia,è innato ed è innegabile talento.
di Gianluigi Perrone

MY BEST FRIEND'S BIRTHDAY di Quentin Tarantino 1987

Ci sono due cose che si possono dire di My Best Friend's Birthday senza ombra di dubbio:che è un film di merda,che è un film di Tarantino. La prima è ovvia visto che è incompleto,totalmente amatoriale e dilettantesco,fatto con i colleghi del Manhattan Beach Video Archives da una idea dell'amico Craig Hamann,girato in 16 millimetri con 6000$(ok da noi con 6000 dollari ci fai un film cazzo,ma in america chissà perchè no!). Il fatto che sia un film di Tarantino è lampante innanzi tutto dal fatto degli innumerevoli elementi che poi faranno parte delle sue sceneggiature successive. C'è la K-Billy de Le Iene,situazioni e nomi di Una Vita al Massimo,c'è un magnaccia nero che fa una lotta di simil-arti marziali,'è una botta di roba come in Pulp Fiction e soprattutto c'è tanto cinema,poster ovunque e dialoghi che vertono sulla passione di QT. C'è la semplice storia di Clarence(Tarantino coattissimo)che regala una mignotta a Mickey e tutto ciò che nei 36 minuti di film ci gira intorno. Registicamente è piatto anche se qualche volta la macchina ci ricorda quello che sarà il futuro ed è innegabile che ci sia della nouvelle vogue,a partire dal bianco e nero della pellicola. Tarantino si è vergognato spesso di questo film e,anche se non ha tutti i torti,è innegabile che questa pellicola è la prova che tutto ciò che è venuto dopo non è che farina del suo sacco.

di Gianluigi Perrone

LE IENE (RESERVOIR DOGS) di Quentin Tarantino 1992

Vi siete mai chiesti perchè si è sempre parlato di eccessiva esposizione della violenza rispetto a Le Iene? Eppure tutti si saranno detti "ma io ho visto decine di film horror e non molto più violenti,splatter,pregni di budello,talmente sanguinolenti da far impallidire qualsiasi taglio di orecchio di un Mr Blonde qualsiasi". Questo è assolutamente vero ma è anche vero che quel cinema exploitation,prima dell'avvento dell'"era Tarantino" non aveva mai avuto dignità. Quel cinema non aveva mai avuto dignità o la aveva avuto in circoli ristretti o era stato saturato da una quantità di cinema che era immondizia. Infatti l'errore grave che fanno molti estimatori dell'ultima ora di QT è di credere che nel suo cinema sia valorizzata qualsiasi forma di merda(vedasi chi scrive che a Tarantino piacevano le commedie scollacciate facendo di tutto il cinemabis anni '70 un "fascio"). Quel tipo di cinema oggi faceva parte di qualcosa di diverso,era all'interno di quello che alla prima occhiata era un dannato cult movie! Quello diReservoir Dogs è il Tarantino puro ed inconsapevole,che non aveva scritto quel film per autorialità ma per fare qualcosa di incredibilmente efficace e lo faceva rimaneggiando tutto il meglio che aveva visto fino ad allora. Perchè se Lynch ha l'approccio cinematografico di un artista visivo,Tarantino lo ha dello scrittore(non ha caso è stato una delle penne più ispirate della Hollywood indipendente)e si sa che non c0è nessuno che scriva bene producendo più di quanto legge. Senza per forza andare a pensare da dove ha preso cosa,la cosa che appariva inedita era che lui aveva preso da qualcosa che non era "familiare" o lo era ma in maniera diversa. Era la cultura popolare vista con occhi sinceri. Quel tipo di cultura che accomuna tutti i personaggi di Reservoir Dogs,già dalle prime immagini,anzi dalla prima voce nel buio che parla di quanto più pop potesse esistere allora cioè Madonna. E quella voce,come la prima immagina del primo film di Tarantino è proprio lui,una grande prova di esibizionismo e personalità vista adesso,che si esprimeva nella cosa che amava di più...il cinema e la sua scrittura.La trama delle Iene è arcinota e la sua struttura anticonvenzionale anche,eppure non era solo un gioco per dare un ordine diverso alla narrazione,in questo racconto nel racconto nel racconto che vive nella storiella del cesso di Mr Orange sta il cinema di Tarantino:una storia raccontata maledettamente bene. Senza rendersene conto Tarantino racconta nel suo film quello che lui sta facendo,manipolando la realtà in una maniera che sia viva e pulsante. E quindi i famosi dialoghi di Tarantino non sono stupefacenti perchè si parla di tizie dalla fica stretta,di sangue,di droga,di affari cool o altro,questo è il grosso errore dei suoi emulatori e di chi non ha realizzato il cinema di Tarantino. La forza nei dialoghi di Reservoir Dogs era nella maniera in cui i personaggi ne parlavano,le loro personalità si palesavano nelal vita quotidiana,negli avvenimenti di ogni giorno e poi esplodevano nella situazione "particolare" e nella straordinarietà della realtà cinematografica. Perchè la caratteristica del personaggio di Tarantino è di essere pazzeschi ed irreali,fumettistici e perennemente sopra le righe nelle situazioni in cui vivono. Mr White è nei casini fino il collo ma accende comunque l'accendino con uno schiocco di dita. Li vediamo e non sono persone comuni ma si comportano da persone comuni perchè hanno sentimenti umani come invidia,rispetto,rivalità e supremazia e quindi arriviamo a percepirli come persone normali anche se sono rapinatori e ragionano come dei criminali(la talpa è innegabilmente per tutti il cattivo). Ed allora la rapina,il McGuffin,è un pretesto per raccontare una storia di rapporti umani,la chiave autoriale del film. Il rapporto tra un uomo di onore che crede fino in fondo a qualcuno per rimorso,di chi non si fida neanche di sè stesso,di chi finge ed approfitta degli altri,di chi divora gli altri. Un ping pong sfrenato di battibecchi che sfocia nel secondo mexican standoff più famoso della storia. Il primo ovviamente lo ha fatto una delle più grandi influenze di Tarantino.
di Gianlugi Perrone

MATERNITA' di Quentin Tarantino 1995

Chissà perchè,nella filmografia di Tarantino,spesso si trascura l'episodio girato per la serie televisiva ER. Forse perchè,a differenza per esempio di CSI,non è un episodio che può esistere a sé tanto da poter essere considerato un vero film. O forse perchè si fa fatica ad immaginare l'universo tarantiniano popolato da killer,maniaci,prositute,giustizieri e personaggi sopra le righe in un luogo come un ospedale. Eppure la caratteristica dei personaggi di Tarantino è,nel loro essere eccezionali,la loro umanità e i luoghi di asilo dei malati sono un ricettacolo brulicante di umanità come neanche quelli di culto. Infatti Motherhood(maternità) ha molte caratteristiche tipiche del cinema di QT sin dal titolo che rivela ancora una volta l'amore mai nascosto per la Signora Tarantino e per il ruolo materno della donna. E' la scena iniziale a dichiarare immediatamente l'estraneità alla media degli episodi di ER con una delle scene di parto più belle mai viste,con la neomamma che fa cercare invano la cassetta del White Album e fa intonare in coro nella sala parto Blackbird dei Beatles. Elementi popolari evidentissimi che conosciamo bene. Tarantino rispetta l'intreccio classico della serie immettendo le vicende umane dei protagonisti tra i loro casi clinici apportando però i propri elementi tipici. Ecco che i convalescenti sono un gruppo di boyscout affetti da diarrea e delle giovani ispaniche che si scannano in sala parto(e una di loro perde un orecchio!). Inoltre i personaggi acquistano una dimensione diversa tanto che ER diventa quasi una puntata di Dr House. Clooney gigioneggia più del solito e Eriq La Salle,essendo coloured,acquista un'aura profetica e compassato inedita. Il tutto in un omaggio,nel giorno della Festa della Mamma,all'impegno e la centralità della figura di madre e di donna nell'esistenza di un uomo e...di un regista.

di Gianluigi Perrone

Thursday, June 07, 2007

PLANE DEAD di Scott Thomas (2006)

Plane Dead è un film sicuramente non perfetto, ma che ha molti motivi per essere visto. La storia, semplice semplice, è quello di un aereo turistico diretto dall’America alla Francia che per un incidente diventa cornice della solita invasione di morti viventi. Detto così non gli si darebbe due lire, invece è un prodotto che sa appassionare senza mai annoiare. Si respira aria di buon b movie citazionista che miscela sapientemente Resident Evil con Snake on plane. Proprio questa pellicola dev’essere stata il motore che ha mosso tutta l’operazione: già li vediamo gli ideatori che dicono “e perché al posto dei serpenti non mettiamo degli zombi?”. Piccole cialtronerie che però hanno il profumo di genio visto che questi morti viventi di ultimissima generazione (iperveloci quindi) strisciano, fanno verso proprio come i rettili della pellicola di David R. Ellis e risultano tra i più azzecati degli ultimi anni. Poi cosa dire di un film che rende reale i progetti abortiti di molti maestri del terrore: Dario Argento e Lamberto Bava su tutti avevano in mente un progetto simile per il mai girato “Demoni 3” (altra saga citata sapientemente qui). Si potrebbe criticare che la prima parte è più convincente della seconda dove prevale un umorismo non sempre azzeccato nel contesto (anche se il morso della zombi senza dentiera è divino), ma sa regalare nel complesso uno spettacolo con la s maiuscola. Scene come il risveglio della zombessa capo (necrofogamente sexy a cominciare dalla rossa chioma fluente) o l’idea di una stiva diventata maelstrom infernale valgono senza dubbio un Romero dei tempi migliori. Cosa chiedere di più? Lo splatter ha un ruolo importante pur non eccedendo nel reparto macelleria, il finale è apocalittico quanto basta, il basso budget non si sente più di tanto. Sicuramente un filmettino che non farà la storia del cinema horror, ma uno di quei prodotti che sentivamo la mancanza. E senza tanti fronzoli “Plane dead” resta più impresso di tanti horror urlati a forza nei cinema.

Andrea Lanza

QUALCUNO STA PER MORIRE (One False Move)di Carl Franklin (1992)

Dopo aver compiuto una strage a LosAngeles, due criminali, insieme alla loro complice, si dirigono verso Star City, un piccolo paesino nell'Arkansas. Li ad aspettarli ci sono lo sceriffo di zona e due poliziotti di Los Angeles. Dopo due prove non proprio esaltaltanti Carl Franklin, uno dei tanti protetti di Roger Corman, dirige questo delizioso film, tratto da una sceneggiatura di Billy Bob Thornton e Tom Epperson. L'aspetto sorprendente del film è il sintetizzare qualsiasi concetto (razzismo, provincia americana..), evitanto forzature nella storia. Tutto succede perchè non c'è altro un altro modo per procedere o magari perchè noi alla fine non conosciamo tutti i fatti. Lo stesso Thornton ci dice che la sceneggiatura " è venuta in un certo senso dal nulla. Ogni parte del film è basata sulla vita reale - non necessariamente la trama, ma i piccoli scorci, il contesto generale, la caratterizzazione dei vari personaggi". Ma quel che rende significativo questo film è come si sviluppa la storia, praticamente il plot è tutto giocato sull'attesa del contatto, quando finalmente i malviventi varcheranno le porte di Star City. Un attesa che si dilunga fino alla fine; tutto quello che c'è prima serve solo per far crescere la tensione, per esaltare quei bellissimi venti secondi finali, quando la storia avrà il suo meritato finale di sangue a ritmo di blues. La regia di Carl Franklin, fatta di essenzialità e tocchi di classe, faceva ben sperare per il suo futuro. Purtroppo dopo non si è mai ripetuto; anche se Il diavolo in blu e Out of time non erano prodotti disprezzabili, gli mancherà per sempre quel quizzo di genialità e impredibilità che aveva reso Qualcuno sta per morire uno dei film più attraenti degli anni 90'. Grosso impegno recitativo di tutto il cast: su tutti Michael Beach che, in mondo come quello del cinema, in cui conta sempre di più la parlantina, riesce a dare spessore al suo personaggio taciturno e complesso. Anche lui non si è mai ripetuto.Da riscoprire.

di Daniele Pellegrini

Sunday, June 03, 2007

IL PASTO UMANO di Ryan Nicholson (2006)

Che schifo. Che schifo. Che schifo. “Il pasto umano” è quanto di peggio potrebbe capitare tra le mani di un fan del cinema horror. Lento, inutile, derivato, noioso, raffazzonato. Questa specie di pseudo “Hostel” dei poveri non terrorizza mai, non appassiona, la tentazione di mandare avanti col telecomando del dvd è sempre troppo grande. La trama segue cinque idioti americani in vacanza in Thailandia tra orrori folkloristici (un cane massacrato sotto i loro occhi) e delizie locali (il regista continua a inquadrare ripetutamente delle discinte ballerine di lap dance). Non si sa perché i cinque geni dopo aver sfidato un boss mafioso locale (patito di torture con la fiamma ossidrica) decidano di passare la notte in uno squallido albergo ad ore con cinema porno annesso. Ovviamente hanno scelto bene in quanto proprio quel luogo è scenario di una vero e proprio mercato dei porno snuff più brutali. Naturalmente ai danni dei turisti americani. Seguire la vicenda è quasi impossibile: ci si perde in trame e sottotrame lasciate lì senza approfondire, ma sicuramente al regista Ryan Nicholson non interessa minimante raccontare le vicende dei cinque ragazzi, la sua è morbosa attenzione solo per il binomio sesso/sangue. Peccato che, pur essendo un esperto di make up con alle spalle grosse produzioni come “Ghost Raider” o la serie X file”, cada proprio nella sciatteria del reparto “budellaro”. Se il paragone con “Hostel” è il più vicino, il film di Eli Roth, pur nella sua affascinante imprecisione, sembra quasi Bergman confrontato con quest’opera. Il digitale, i facili effetti da premier per “sporcare” la pellicola, la recitazione incerta non aiutano certo a rendere il tutto anche solo il minimo interessante. Esistono certo film brutti, ma deliziosi, non è il caso di “Il pasto umano” che a tutti gli effetti potrebbe concorrere per il titolo di “Ciofeca dell’anno”. Dispiace che vengano distribuite certe cose immonde e film più interessanti restino inediti nel nostro paese. Vogliamo “Bloodrayne” di Boll doppiato. Cazzo!

di Andrea Lanza

MANI SPORCHE SULLA CITTA' (BUSTING) di Peter Hyams (1974)



Peter Hyams è un regista dalla carriera altalenante,che è passato da ottimi film a progetti meno buoni,se, però, un merito gli va riconosciuto,è quello di non essersi mai fermato ad un genere, ma di aver cercato di spaziare e portare la sua indubbia bravura registica ad esplorare sempre nuove tematiche. “Busting” è, a mio parere,una delle sue opere più riuscite,vuoi per la perizia nelle scene di inseguimenti(punti cardine di ogni buon poliziesco - action) vuoi per la competenza nel dirigere gli attori e nel caratterizzarli. Individuando in Elliott Gould la "faccia giusta" per il personaggio del burbero e sarcastico poliziotto Keneely, Hyams ci lascia una figura indimenticabile,accomunabile ,per certi versi, ai campioni del genere,"Popeye" Doyle di "the French Connection" su tutti. Una trama tipica del poliziesco americano,dotata di una dose massiccia di humor, con una coppia di poliziotti che ,contrastando la criminalità di piccolo cabotaggio,si ritrova ad essere invischiata nel giro grosso,contro un "pesce” enorme ed influente. In questo film il duo protagonista presenta molte similitudini con la coppia Hackman/Scheider di "the French Connection":come nel film di Friedkin ci si trova di fronte a poliziotti scafati e speculari, entrambi sarcastici,duri e cinici. Ci si distacca ,quindi,dagli stereotipi del genere: "poliziotto anziano e duro - giovane recluta" o "poliziotto duro e violento - poliziotto ligio al dovere", per offrirci uno spaccato di "realtà metropolitana". Il Cattivo che, meno originalmente, è il solito boss “italianozzo”, se da una parte non sfugge ai peggiori clichè sulla mafia italiana(Domenica in chiesa con famiglia, lunedi all'inferno a comprare droga),dall'altra si contraddistingue grazie a battute sarcastiche ed incisive che vi resteranno in testa per un bel po' di tempo. Non basta picchiare papponi,arrestare puttane e "pervertiti" per saziare la sete di giusizia dei protagonisti, perché, quando uno stronzo di malavitoso sbatte loro in faccia la sua prosopopea da ricco delinquente senza morale nè scrupoli,sfidandoli con un "....e prendetemi", la caccia si fa dura,fino in fondo,senza cura della degradazione e delle umiliazioni a cui i superiori corrotti li costringeranno per farli desistere. Altre note distintive del genere ,pienamente rispettate,sono gli inseguimenti: a piedi,in auto,sempre pistola in mano,sempre divertenti e ben girati. Hyams se ne frega del politically correct e le prese in giro degli omosessuali, che gli sono costate una miriade di critiche,fanno di Busting un film ben lontano da un altro importante tassello del poliziesco quale è "Cruising". Una curiosità sta nel trovare nei panni dello scagnozzo del boss quel Sid Haig che molti ricordano come il Capitan Spaulding dei film di Rob Zombie. A rimanere impressa,infine, è ,soprattutto, la denuncia alla corruzione del sistema giudiziario,espressa in maniera secca e fatalistica dalla voce fuoricampo nel finale, perchè in una metropoli come L.A. mantenersi "puliti" costa molto caro.

di Andrea Scalise

LEGACY OF DRACULA:THE BLOOD THIRSTY DOLL di Yamamoto Michio (1970)

Legacy of Dracula è il primo film di una trilogia che comprende: Lake of Dracula e Evil of Dracula, diretti da Michio Yamamoto e prodotti dalla mitica Toho famosa casa di produzione da noi nota per i film di Godzilla.
I tre film in realtà non sono correlati tra loro se non per il tema trattato, l'idea “della trilogia di Dracula” è nata a posteriori su suggerimento dei produttori americani per cavalcare l’onda del cinema “Hammeriano” tanto in auge in quel periodo.
Il tema vampirico così come lo conosciamo noi con castelli diroccati, mantelli neri, fanciulle discinte in vesti svolazzanti e pipistrelli, è quì remixato con il classico Kaidan Eiga (film di fantasmi giapponesi).
Il Conte del titolo in realtà non fa la sua comparsa, abbiamo fanciulle vampire che compaiono tra le ombre come spettri armate di pugnali, una specie di Sadako sotto anfetamine, o vampiri vestiti da sera con sciarpetta bianca in stile Fred Bongusto a Sanremo.
L'ambientazione è quella tipica: magioni vittoriane avvolte tra le nebbie -in Giappone?!?!?!?-, aiutanti in stile Igor, e situazioni che strizzano l’occhio al gotico nostrano quello più becero tipo Nuda per Satana di Solvay.
"Il ritorno a casa di Kazuhiko Sagawa non è dei più felici, la sua ragazza Yuko è morta in un incidente stradale, ad accoglierlo solo la povera madre distrutta dal dolore. Durante la notte strane presenze popoleranno i sogni del giovane, l’anima inquieta della giovane defunta sembra non voler lasciare la casa.......
Kazuhiko incredulo visiterà la tomba della donna scoprendo un orribile segreto..."
Non vado oltre per non svelare l'arcano, però una cosa è certa: il film si discosta molto dai classici vampiri da noi conosciuti, pur mantenendone alcune peculiarità la storia sembra essere ispirata ad un racconto di Poe “Lo strano caso del signor Waldemar” più che ad una novella di vampiri classica.
Le atmosfere rarefatte, la magione tra le brume, e altre trovate sceniche sono di chiara ispirazione gotica, basta vedere l'uso delle luci ed ombre per accorgersi come il regista abbia studiato il nostro cinema di genere, e perché no la Pop art.
Le atmosfere stregate di Oni Baba(1964), le immagini surreali di Kwaidan(1965) sono dietro l'angolo, anche se la poesia delle suddette pellicole non è minimamente intaccata da quest’opera sì interessante, ma dallo scarso valore artistico.
Gli spaventi ed i colpi di scena sono inesistenti, il sangue fa capolino nel finale (tipica scena con sangue a fontanella) e la risoluzione del plot è alquanto risibile, nonostante ciò il film ha un suo fascino.
Ammaliante, morboso, decadente, intriso di quella malinconia tipica del cinema che fù, Legacy of Dracula si candida come variante surreale del mito occidentalizzato del vampiro.
Solo per fanatici dei succhia-sangue o del cinema exploitation, astenersi tutti quelli che storcono il naso davanti al fantasma paraplegico di Sadako.

di Marco Figoni

Saturday, June 02, 2007

THANKSGIVIN' di Eli Roth (2007) fake trailer segmento di Grindhouse

Una voce over baritonale introduce una delirante mattanza, ordita da un feroce quanto inventivo serial killer, con lo scopo di servire per la cena del Ringraziamento un tacchino alquanto “speciale”… Comunque ogni parola è superflua: è da vedere per credere

L’afflato sociologico che fortemente caratterizzava le due opere precedenti di Roth viene del tutto aggirato, concedendo ampio sfogo alla voglia di “baldoria” più libera e disimpegnata possibile. Quindi, totale precedenza ad una letterale orgia di citazioni da film horror: la musichetta che apre il trailer è saccheggiata direttamente da Creepshow 2; il coltellaccio nella vagina rimanda al tempo stesso a “L’ultimo treno della notte”, ma soprattutto a “Cutting Class”, semisconosciuto slasher del 1989, da cui riprende papale papale (due inquadrature sono del tutto identiche) l’idea del salto sull’elastico e coltello annesso; i tentativi di pomicio mandati a ramengo dal serial killer sono pressoché identici a “Prom Night”. Il mood di cui è permeato è una ricostruzione di lodevole precisione delle atmosfere slasher di cui sopra, reso ancor più credibile da puntinature inflitte alle pellicola, atte ad accrescere la sensazione di assistere a qualcosa di squisitamente datato e vintage. Il risultato è il fake trailer più divertente e riuscito dell’intera operazione Grindhouse, quello che meglio riflette lo spirito sadico, grottesco, di trasgressiva inventiva che caratterizzava un tipo di cinema che, nonostante gli sforzi, sarà impossibile ricreare ai nostri tempi sotto forma di lungometraggio, perché manca un elemento di non poco conto che impreziosisca il tutto: una sana e autentica ingenuità.


di Francesco Furlotti

HOSTEL di Eli Roth (2005)

Tre allegri ragazzi in interrail in giro per l’Europa (due americani e un esagitato quanto arrapato islandese) arrivano ad Amsterdam, iniziando un bell’excursus tra droghe leggere e sesso sfrenato a pagamento. Una notte, dopo essere stati letteralmente chiusi fuori dall’ostello cui alloggiano ,causa tardo orario di rientro, vengono ospitati da uno strano ragazzo di nome Alexei, il quale consiglia loro di andare in Slovacchia, garantendo che vi saranno orde di ragazze allupate pronte a soddisfare ogni esigenza sessuale. Manco a dirlo, i tre partono diretti al luogo indicato dal sedicente pappone, e, una volta arrivati in un ostello che pare un gineceo, fanno conoscenza di due splendide quanto facili donzelle, con cui soddisfano le proprie bramosie la notte stessa dell’arrivo. Dal giorno successivo, però, i due americani notano l’inspiegabile e repentina scomparsa dell’amico islandese, e l’atmosfera attorno a loro si fa sempre più sinistra e imprevedibile, corredata di baby gang particolarmente aggressive, e sguardi pieni di ostilità. Uno dei due americani, Josh, scompare a sua volta, e starà allo yankee superstite Paxton fare in modo di salvare la propria pelle, per arrivare a scoprire che dietro a tutto vi è un letale club che rifornisce di materiale “umano” tutti coloro disposti a versare una discreta somma con il solo scopo di provare emozioni forti.
L’idea basilare del film è nata a Roth dopo aver visitato un sito tailandese in cui, dietro un pagamento di poche migliaia di dollari, si offrivano esseri umani a chiunque avesse voglia di torturarli e ucciderli per puro ludibrio. Inizialmente l’idea era farne un documentario, per poter almeno svolgere un’indagine riguardo la presunta veridicità del sito, ma in seguito il regista decise di sfruttare la raggelante trovata per inserirla all’interno di uno script con protagonisti tre backpackers a spasso per l’Europa. Vi è da ammettere che la soluzione è stata delle più azzeccate perché se da un lato Eli coglie al volo la possibilità di confermare il proprio nome nell’apogeo della ritrovata brutalità dei film orrorifici americani attuali, dall’altra si struttura un vero e proprio apologo morale sulla realtà contemporanea post-11 settembre, vissuta da un americano che viaggia in Europa con il solo scopo di trovare decerebrato e disimpegnato divertimento.
Pubblicizzato come un ritorno senza compromessi alla violenza cinematografica puramente seventy, Hostel è stato sia forgiato che penalizzato da un hype che lo riguarda solo in parte. Costato 4,5 milioni di dollari, in merchandising ne sono stati sborsati più di venti, portandolo sì in testa alle classifiche americane (grazie ad esilaranti, quanto inutili trovate, come la barf bag distribuita all’ingresso delle sale), ma creando un clima di insoddisfazione generale davvero eccessivo. Certo, vi è da ammettere che l’impostazione del film è quanto meno bizzarra per quello che dovrebbe essere un horror di pura razza grindhouse: dopo un incipit agghiacciante, in cui vediamo i postumi di ciò che senza dubbio è stata un’uccisione, con tanto di grottesco fischiettìo in sottofondo proveniente da un non rivelato individuo che ripulisce sangue, strumenti e umori vari, Hostel prende una virata in cui solo in apparenza è rapportabile ad una teen comedy destinata ad adolescenti dagli ormoni in subbuglio. L’idilliaca scampagnata sessuale dei protagonisti ad Amsterdam (in realtà “ricostruita” a Praga) straborda sì di tette e culi, ma ha uno scopo ben preciso all’interno dell’economia narrativa dell’intero film: fungere da malaugurante incipit alle sadiche mattanze della seconda parte. Si prenda su tutte l’emblematica sequenza in cui il timido Josh dal corridoio del bordello olandese sente urla di dolore provenire da una stanza, per poi scoprire che si tratta di un gioco accondiscente tra una mistress e la sua vittima pagante. Ciò che in superficie pare un’innocua gag sporcacciona è un preludio, quasi didascalico, alla mortale mercificazione dei corpi che avrà in seguito luogo nella fabbrica delle torture. Anche la tanto sbandierata joie de vivre dei protagonisti è netto contrasto con quanto li circonda: coloro che non sembrano nutrire un rigido pregiudizio nei loro confronti (la rissa nella discoteca, scatenata da un futile motivo), mostrano ai ragazzi una sin troppo sorridente e generosa accoglienza (Alexei, le ragazze dell’ostello, ecc.). L’unica nota di biasimo che si può sollevare alla parte “allegra” del film è un’eccessiva lunghezza, la quale ha però una ragion d’essere nella costruzione dello slow burning che conduce alle violenze a venire. La fotografia segue a pari passo il mood della vicenda: l’illuminazione irta di neon, prossimi alla fantascienza nel bordello olandese, vira in progress verso toni più grigi durante i momenti delle inaspettate sparizioni dei personaggi, per poi sprofondare in una raggelante cupezza quando si arriva alla fatidica “fabbrica”. Lo script di Roth, vantando anche un paio di memorabili dialoghi (quello “carnivoro” dell’uomo d’affari tedesco su tutti) è abile nel tenere presente la propria consapevolezza di appartenere al “genere”: i rimandi, seppur meno esibizionistici rispetto a Cabin Fever, si sprecano. Si va da The Wicker Man, (il senso di pregiudizio e tacito accordo proveniente dagli abitanti della cittadina slovacca , “Quien puede matar a un nino?” (l’esplosione di rabbia, frenata in extremis di Paxton su un bambino teppista), “Shining” (la stanza 237), lo slasher Intruder dell’amico Scott Spiegel (il disvelamento, con carrello all’indietro, della testa decollata di Oli l’islandese), “The Texas Chainsaw Massacre” (la gamba tagliata) a strizzate d’occhio palesi alla violenza del cinema orientale odierno (il taglio dei tendini di “Sympathy for Mr.Vengeance”, e poi Audition, Suicide Club, ecc.), senza scordare una fuga finale di Paxton che pare in bilico tra la nervosità de “Il Maratoneta”, e “Il Fuggitivo” in salsa gore. Quindi, se Roth non perde l’abitudine di divertirsi, e di divertire, talvolta anche dimenticandosi il senso logico di alcune soluzioni che oltrepassano il limite della verosimiglianza, al tempo stesso desidera imbastire una chiara metafora sull’acrimonia e il pregiudizio che infesta l’animo delle persone in questi tempi angusti, riuscendovi appieno. L’americano viene visto nelle lande a lui estere come epitome della monodimensionalità yankee terroristico/scopereccia, e lo sconosciuto, quando non tutto indifferente, è capace di modi cortesi e simpatici solo per forgiare gli scopi più abbietti immaginabili. Sotto questo aspetto, Hostel è probabilmente l’apologo post-11/9 più pregnante, significativo e sfaccettato che si sia visto al cinema negli ultimi anni. Unicamente questo motivo basterebbe ad elevarlo al di sopra di tanti rip off di Saw (di cui non è), facendogli aggirare anche le accuse di non essere all’altezza della violenza promessa. Forse meno efficace è il j’accuse lanciato verso il sadismo della classe dirigente, perché più didascalico e verboso (l’esagitato torturatore americano interpretato da Rick Hoffman), ma ciò non smussa la forza tagliente di Hostel, al di là degli oggetti contundenti meticolosamente mostrati. La brutalità visiva rientra in effetti nello standard dell’ horror contemporaneo , ma sul piano psicologico da’ svariati giri di stacco a qualsiasi forzatamente moralistico “Enigmista”. Tecnicamente il film non si avvale di movimenti di macchina virtuosistici, ma opta per una messa in scena rigorosa, essenziale, quasi classica nella sua ostinata pervicacia nell’aggirare ogni trappola videoclippara finto cool à la Saw, prediligendo un’attenzione smodata ai dettagli, assemblati in modo tale da creare una suspense in crescendo; funzionale e azzeccatissima, quanto inconsueta, la scelta del ridente paesino slovacco Cesky Krumlov come preludio infernale, così come ben studiata la scelta di una fabbrica/teatro delle barbarie che fosse il più anonima, inusuale e sotto tono possibile, quindi più reale. Gli attori, nemmeno qui eccelsi, risultano però funzionali al racconto e ai ruoli che rivestono, con particolare menzione per la splendida Barbara Nedeljakova nel ruolo di una femme fatale impossibile da resistere, e Jan Vlàsak nei panni dell’infido uomo d’affari tedesco. Da ricordare anche la scelta di comparse dai visi decisamente poco raccomandabili. Gli effetti speciali dei soliti noti Berger & Nicotero sono ben fatti, ma dalle sembianze talvolta fin troppo cheesy e artigianali.
Da vedere e affrontare, non di pancia, ma di testa.

di Francesco Furlotti

CABIN FEVER di Eli Roth (2002)

Cinque giovani universitari (tre ragazzi e due ragazze) decidono di iniziare le vacanze estive andando ad alloggiare in uno chalet situato in mezzo ai boschi di un’imprecisata cittadina provinciale popolata da strani personaggi. Tra pomiciate, scopate, racconti del terrore davanti al fuoco ecc., tutto pare procedere per il meglio, finché una notte un uomo dalla pelle completamente devastata chiede loro aiuto, in maniera sin troppo veemente, ottenendo in cambio di bruciare tra le fiamme. Scossi dall’accaduto, i ragazzi cercano di riprendersi, denunciando il fatto ad un giovane quanto strambo e inconcludente rappresentante della legge. Quando tutto pare aquietarsi , una delle ragazze viene infetta da enormi piaghe che le appaiono su tutto il corpo. Gli altri quattro fanno il possibile per preservarsi dalla propagazione dell’ignoto virus, senza conoscerne le cause con precisione, al punto tale da dimenticare completamente di aiutarsi a vicenda. Avrà inizio una imprevedibile quanto bizzarra carneficina a catena, quando in conclusione il tutto pare essere stato scatenato da un elemento solitamente ritenuto innocuo, ma vitale…

Il lungometraggio di esordio di Eli Roth può essere forse considerato lo spartiacque delle produzioni horror americane più emblematiche ed emoglobiniche del XXI° secolo. Fino ad allora, mancava la volontà di cimentarsi in qualcosa di originale e differente dalle usuali produzioni con serial killers, fintamente metacinemografiche ( il prototipo “Scream” a parte) e inflazionate da un vuoto pneumatico di idee. Ci voleva l’energia di un giovane come Roth che apportasse con chiarezza le coordinate attraverso le quali un horror che si rispetti deve passare. Cabin Fever è uno scontro frontale tra la brutalità allo stato brado dell’exploitation anni ’70, e l’ironia gory scanzonata tipica delle produzioni di genere anni ’80. I rimandi e le citazioni per questi ultimi si sprecano: la location ricorda direttamente Evil Dead di Raimi; il contagio (e relativo isolamento forzato) “The Thing” di Carpenter; gli fx di Berger e Nicotero paiono trarre ispirazione dal secondo episodio di Creepshow 2 in cui uno schifoso e indefinibile essere acquatico si pappa dei giovinetti su una zattera in mezzo a un laghetto (scena citata anche visivamente, seppur in un momento di raccordo). Non si pensi, però, che le dosi di massiccia ironia scalfiscano la potenza visiva e metaforica di un’opera davvero inconsueta: anche se mancano gli stupri, i soprusi psico-fisici tipici di tanto cinema esploitativo anni ’70, l’amarezza, il nichilismo, la disillusione che trasuda Cabin Fever paiono uscire esattamente da quel tipo di film. Il riso grottesco, lo sberleffo repentino e inaspettato sono sì presenti, (il bambino karateca, il vecchietto rincoglionito del negozio, il divertentissimo personaggio del poliziotto amante della “baldoria”) ma transitori: quando si arriva al sangue, si fa sul serio. Non è la quantità, nemmeno tanto alta, di gore a dirigere il film verso plumbei sentieri, quanto il senso di pessimismo cosmico che aleggia nei momenti in cui il pericolo più estremo entra in scena. Si pensi alla sequenza in cui Marcy (Cerina Vincent), dopo essersi fatta una ceretta alquanto “dolorosa”, in preda al panico viene divorata dal cane famelico. Oppure alla scena, impreziosita da una dolce quanto raggelante nenia musicale del grande Angelo Badalamenti, in cui Paul (Rider Strong) masturba Karen (Jordan Ladd), salvo poi scoprire che altro non faceva che ravanare con le dita in una grossa pustola aperta: ogni “sorpresa” è una sorta di scherno cupo e inquietante, praticamente impossibile da alleggerire con una risata da “pelo sullo stomaco”, ma tutto sommato rasserenata, come poteva avvenire con la saga “Evil Dead” di Raimi, oppure con “Bad Taste” e “Brain Dead” di Jackson, infinitamente più splatter, ma anche sinistramente più solari e grotteschi. Senza considerare poi l’individualismo più sfrenato che subentra in ognuno dei protagonisti quando la situazione varca le soglie dell’irreparabilità: ogni personaggio pensa solo alla propria salvezza, anche a costo di calpestare coloro che fino a pochi attimi prima erano suoi amici. Nemmeno si potrebbe tacciare il film di eccessiva freddezza, perché, nonostante appaia arduo simpatizzare anche per un solo character, vi è parecchio di stranamente prossimo alla realtà quotidiana nel loro modo di affrontare tutto il marasma che li coinvolge. E’ forse questo andirivieni, sebbene sia voluto, di toni a rendere il film, per quanto riuscito, velleitario e difficilmente collocabile, anche se il tutto è controllato da una sceneggiatura che, per quanto umorale e solo in apparenza “casuale”, mantiene in realtà lo svolgimento dei fatti sotto uno strenuo controllo che permetta alle caratteristiche psicologiche dei personaggi più rilevanti di emergere durante i momenti topici. Fatto sta che è girato con discreta maestria: i movimenti di macchina sono fluidi, avvolgenti, ammiccanti: la sequenza dell’ospedale, ripresa in carrello laterale (di cui si farà uso anche in Hostel), rimanda a Shining e alle apparizioni allucinate dell’Overlook Hotel.. Il cast di giovani attori non è particolarmente meritevole, ma volenteroso (indimenticabile lo sceriffo di Giuseppe Andrews, e lo stesso Roth nei panni dello svalvolato Grim). Gli effetti speciali della premiata ditta KBN risultano assolutamente credibili nella loro audace volontà di ricreare, con quasi pornografica ostentazione, le piaghe del derma, il quasi cronemberghiano disfacimento della carne , dotando il film di un’ulteriore marcia di disagio, la quale non se ne va nemmeno dopo una memorabile gag che si prende gioco della politically correctness della parola “nigger” e del ballo scanzonato di parte delle comparse, rimandante a sua volta al 2000 Maniacs di Herschell Gordon Lewis.

di Francesco Furlotti