Sunday, September 24, 2006

OFFSCREEN

Folle ed interessante esperimento dell'artista danese Chrisoffer Boe,già autore dell'interessante Allegro. Il film,partendo da premesse vere(i nomi e i fatti sono realmente accaduti,fino a un certo punto,nella vita degli attori)si sviluppa da un'idea semplicissima.Nicolas decide di girare un film-documentario su se stesso.Decide di riprendere tutto ciò che fa 24 ore su 24 per un anno e in seguito montare il tutto per un film. "La Videocamera non mente" recita Nicolas e da quello che mostra si evincono tutte le debolezze e paranoie del ragazzo che,ossessionato dalla camera,comincia a dare di matto.A questo si aggiunge che la moglie,Lene, lo lascia(un pò troppo facilmente a dire il vero)e Nicolas cade nella depressione più totale.Come accade in questi casi la persona si estranea,si dispera,perseguita gli amici che non ce la fanno più di sentirlo lamentarsi,si ubriaca e colleziona una serie di patetiche figuracce nel tentativo di riconquistare la sua donna che intanto si è trasferita a Berlino.Tutto ciò sotto l'occhio vigile e spietato di una digitale che diventa parte inprescindibile dell'esistenza di Nicolas.Anche nei momenti più estremi Nicolas dovrà avere la sua camera con sè.Qui siamo ancora nel plausibile,nel sensato,nel quotidiano ma la situazione precipita quando la follia fa capolino nella mente di Nicolas,quando,spinto dalla disperazione,cerca a Berlino Lene e scopre che questa ha abortito senza dirglielo.L'ossessione di Nicolas diventa follia.Orribilmente divelta la sua mente si trasforma in orrore e amplifica tutto ciò che era stato.La sua casa vuota si riempie di camere e schermi,rivestita di plastica senza mobili e con le pareti nude così come Nicolas,grasso,nudo e impazzito con i capelli biondo platino ammazza a coltellate una giovane donna e danza come un orrido freak nella notte ricoperto di sangue fino alle estreme conseguenze mentre la camera va ancora senza pietà.Fantastico.

di Gianluigi Perrone

EXILED

Torna Johnny To in forma come non mai con un All Star Game degno dei migliori colossal di Hollywood.Diciamo subito che Exiled si pone tra i migliori film in assoluto di colui che forse è rimasto l'unico regista di Hong Kong a non essersi piegato e a rimanere fedele al genere noir.Quello che vorrebbe essere un ideale seguito di The Mission diventa l'opera più sentita e
epica di To,girata con una spensieratezza e una consapevolezza uniche che traspaiono dall'integrità dell'opera. Anthony
Wong,Francis Ng,Nick,Cheung,Simon Yam,Ritchie Ren e l'onnipresente Suet Lam sono i protagonisti di questo western metropolitano infarcito di parallelismi ocn un pò tutte le opere del maestro. Durante il passaggio di Macao da colonia portoghese a cinese,nel 1998,Wo è in fuga con la compagna e un bambino appena nato,dopo aver tentato di uccidere il
proprio boss ma gli vengono messi alle costole per ucciderlo i suoi migliori amici,il gruppo di the Mission capeggiato dal grande Anthony Wong.L'amicizia prevarrà e i "gangster dal cuore buono" tradiranno per scappare insieme all'amico alla ricerca di un bottino che gli permetterà di sparire. Da questo momento i protagonisti,spaesati e incoscienti del proprio futuro,si affidano al destino e prenderanno le proprie decisioni solo in base alla fortuna(tirando la monetina).Ed è questo il tema principale di Fanghzu,la cavalcata incosciente e coraggiosa di un gruppo di moderni avventurieri verso il destino ineluttabile.To pensa bene di citare il western più duro e intenso,cioè quello di Leone e quello di Sam Peckinpah(Il Buono,Il Brutto e Il Cattivo,Il Mucchio Selvaggio,Per Un Pugno di Dollari,Pat Garrett & Billy the Kid sono sempre presenti)e soprattutto nell'atmosfera epica che si respira nella pellicola.Un omaggio anche al cinema italiano ripetuto in molte scelte come nel "look" di una strabiliante Josie Ho che ricorda Anna Magnani e una scena dal respiro più rilassato in cui il gruppo di eroi intona in coro "Vaffanculo" in italiano. Dal punto di vista tecnico poi,Exiled è un continuo orgasmo con le migliori scene di sparatoria mai viste come quella iniziale e quella che chiude il film.To ci ha abituato a grandi cose,ci ha viziato e continua a viziarci con opere di incredibile magniloquenza.We just can't get enough!

di Gianluigi Perrone

SUMMER LOVE

Il primo western polacco,l'esordio del giovane e simpatico Piotr Uklanski.Per cui dopo lo spaghetti western e il vodka western di Jonathan degli Orsi questo cosa sarebbe?Che mangiano in Polonia?Vabbè,in attesa di dare una risposa a questo interessante interrogativo cerchiamo di capire perchè,nonostante una marea di difetti e mancanze,su tutti primo il titolo,questo Summer Love riesce ad essere comunque saporito(e ancora si parla di cibo). Piotr,polacco ma molto attivo a New York,è una artista di istallazioni di quelli di rottura,che ama le opere scandalistiche e provocatorie. Non meno,in questo suo primo
film,cerca di utilizzare il genere come palcoscenico della metafora del male puro,selvaggio ed unico insito negli uomini e della privazione idiota dell'amore.Questo non è che sia esplicito ma diciamo pure di sì. In un villaggio microscopico di due baracche di cartapesta arriva un bounty killer vestito di nero,l'attore Karel Roden noto per aver fatto Hellboy,15 Minuti-follia omicida a New York ed altro,e si porta appresso un criminale che gli frutterà una bella taglia,interpretato(se così si può dire)da Val Kilmer la star riportata a caratteri cubitali in locandina che si sarà prestato per fare una favore all'amico Piotr(e in efetti tenendo conto che Kilmer si diletta come artista visivo è praticamente certo).I bifolchi animaleschi che abitano lì però sentono odore di grana e decidono di sbarazzarsi del bounty killer e di prendersi il gruzzoletto.Da qui la storia ricorda Chato di Michael Winner e la presenza dell'ex capitano confederato che annusa le tracce fa pensare che comunque è quello che volesse citare Uklanski.Il regista ruba un pò a destra e a sinistra per ricreareuna trama western che gli permetta di interpretare i suoi sperimentalismi visivi.Molto spesso,e forse unico nel genere,si riconoscono immagini e sequenze da videoarte concettuale e forti rimandi simbolici.Il tutto però stride col fatto che probabilmente Piotr(e questo è sia un bee che un male)non si prende troppo sul serio quindi il tutto è infarcito da una forte ironia di fondo che sembra voler ammortizzare alcune scelte visive esagerate come a gustificarle con l'ironia.Chissà se Piotr farà un'altro film.In attesa riflettiamo su come abbia trovato i soldi per fare questo.Quindi l'arte paga?

di Gianluigi Perrone

Monday, September 18, 2006

WORLD TRADE CENTER

Pensando a cosa ci si potesse aspettare da un film sulla tragedia dell'11 Settembre da parte di Oliver Stone,ci si aspettava sicuramente un pò di pepe.Il regista ci ha abituato ormai alle sue invettive verso i grandi eventi degli USA e della sua popolazione liberale,democratica,contro il sistema costituito e sinistrorza. E purtroppo,come spesso succede,Stone dimostra che finchè c'è da manifestare,fare girotondi,indignarsi e lamentarsi sa mettersi in prima linea ma alla fine i suoi ideali non sono poi tanto diversi da quelli dei suoi nemici politici. WTC narra l'esperienza tragice dei due poliziotti americani John McLoughlin(Nicholas Cage!)e Will Jimeno(Michael Pena)rimasti per ore ed ore incastrati tra le macerie delle torri aggrappati alla vita con disperazione.Il film celebra l'eroismo del popolo americano con un tale patetismo e vittimismo da risultare urticante.Possibile che un regista del calibro di Stone non si sia reso conto della pesantezza di un film che rimane un'ora e mezzo fisso al buio sulle facce di due attori che fanno i mezzi morti?E' possibile che Stone non si sia accorto che la evidente commiserazione patriottica delle vittime non fa altro che scatenare(come se ce ne fosse bisogno)gli istinti vendicativi del popolo americano?I due poliziotti vengono mostrati,come in un film di Michael Bay,come i tradizionali padri di famiglia,cittadini medi,magari multietnici in cui il cittadino americano si identifica.Non è che Nicholas Cage sta lì per caso.E il film sembra dire "guardate cosa ci hanno fatto" senza dirlo esplicitamente.Alla fine la volontà non politica di Stone è più politica di quanto si possa immaginare.Perchè a parole sono bravi tutti ma non c'è nessuno in America che abbia il minimo remore per aver scatenato la guerra.

di Gianluigi Perrone

WHEN THE LEVEES BROKE:A REQUIEM IN FOUR ACTS

"Che cosa faceva il governo quando qui noi eravamo senza cibo e sanitari come nel terzo mondo?Ah dimenticavo.Era impegnato a esportare democrazia."Queste le parole più significative dell'ottimo documentario che Spike Lee ha voluto girare come evidenza delle disastrose conseguenze che ha avuto l'uragano Katrina sulla città di New Orleans.
Ovviamente si potrebbe obbiettare che l'uragano non ha nulla a che fare con i repubblicani e con la politica visto che è una disastro naturale tra l'altro tipico di quelle zone degli states.E infatti Lee parla(anzi fa parlare)di quello che è successo dopo.Sarebbe meglio dire:di quello che non è successo. Come è noto la popolazione di New Orleans è in gran parte di colore e,effettivamente,molti dei quali non hanno potuto evacuare la città erano neri(ma non tutti come si vedrà dalle testimonianze).Nel momento in cui una città viene letteralmente spazzata via e allagata con milioni di persone in panico sena sostentamenti e servizi igienici,ci si aspetta che lo stato più potente del mondo si preoccupi di portare le proprie super-armate a salvare i superstiti.Ebbene questo avveniva dopo giorni di agonia in cui la popolazione povera di New Orleans agonizzana e nei casi più tragici moriva. Intanto la Presidenza i preoccupava di cacciare la democrazia a forza nel culo degli Iraqueni a fora di bombe e Condoleeza Rice(che ricordiamo,pare essere nera)andava ad acquistare delle costose scarpe in uno dei negozi più costosi di Washington. Come nei documentari(o meglio dire rotocalchi)di Michael Moore George Bush ci fa la figura dell'imbecille ma a differenza degli osannati lavori di Moore,Spike Lee non sceglie la strada ruffiana dello scherno,della mezza verità e della denuncia forzata ma cerca testimonianze.When The levees broke non è altro che una lunga raccolta di interviste agli abitanti di New Orleans che hanno subito l'abbandono da parte del governo.Di ogni razza e ceto sociale(c'è anche Sean Penn)rilevano lo scandalo di una situazione del genere.E lo scandalo è semplice.Il governo attuale non ha la simpatia degli elettori di colore o delle classi minori,il governo ha interessi prioritari che non sono altro che la guerra quindi,citando la gaffe di un rapper ripresa in tv:"a Bush non gliene frega nulla della popolazione nera".
Spike Lee dimostra inequivocabilmente di non aver bisogno di sparare a zero ovvietà e per far riflettere su quello che succede oggi nella società Americana.

di Gianluigi Perrone

HOLLYWOODLAND

Ma fino ad adesso tutto quello che toccava Ben Affleck diventava merda.Adesso si becca pure un premio a Venezia come miglior attore per l'interpretazione di un attore fallito.Se non è ironia questa! Che interpretare Superman portasse sfiga fosse tutt'altro che una leggenda lo dimostra non solo la tragica fine di Christopher Reeve ma anche quella se vogliamo peggiore del suo quasi omonimo George Reeves che ironia della sorte,interpretò con successo il Superman televisivo.L'attore,che aspirava a ben altro che saltare da una parte all'altra in calzamaglia,fece una brutta fine e ufficialmente si sparò alla testa.Tuttavia pare che l'uomo avesse una liaison con la moglie Edward Mannix(Bob Hoskins),vice-presidente della MGM e uomo tra i più potenti a Hollywood.Si sa allora(esattamente come oggi)se avevi i soldi potevi far sparire chi ti pareva senza troppe noie.
L'unica maniera per smuovere un pò la sabbia è fare rumore.Hollywoodland in sostanza parla di come l'esistenza delle singole persone a L.A. nei 40/50 fosse legata esclusivamente a quante copie vendevano i giornali e quanto clamore la tua storia riuscisse a fare. Come nel classico degli hard boiled,il detective(divorziato,duro,testardo...)Louis Simo(Adrien Brody)si mette contro tutto e tutti per scoprire(per denaro e poi per principio)gli intrighi dietro la misteriosa morte di Reeves.Parallelamente vediamo come si svolgeva la vita di Reeves dalle aspirazioni,al successo relativo,all'inevitabile decadenza.Il film non osa dare un'opinione univoca ma ne dà tre diverse,tutte plausibili.Affleck in effeti non è male,simpatico come il suo personaggio e ingrassato per l'occasione.Il motivo principale per vedere il film è però Diane Lane(Toni Mannix),sensuale e lirica,vera vittima di un sistema ingordo e possessivo.

di Gianluigi Perrone

INFAMOUS

Caso più unico che raro,nel giro di meno un anno il grande schermo vede comparire due film sulla figura di Truman Capote.Anzi,i due film parlano dello stesso argomento:il periodo in cui Capote decise di trasferirsi in Kansas per analizzare il massacro di una famiglia ntera per una rapina,conoscerne i colpevoli,innamorarsi della vicenda e scrivere In Cold Blood,uno dei libri più significativi di tutti i tempi.
Il confronto con il film che è valso l'oscar(meritatissimo)a Philip Seymour Hoffman è d'obbligo e pare proprio che questa produzione indipendente abbia battuto il gigante di Hollywood. Douglas McGrath dimostra tutto l'amore che prova per la figura di Truman Capote immergendosi a fondo nelle vicende che portarono alla nascita del libro e alla disgregazione dello scrittore dovuta al grande impegno morale profuso nella scrittura.
A entrare nei panni dell'autore newyorkese è l'attore inglese Toby Jones che regala un'interpretazione sicuramente differente ma non meno intensa di quella di Hoffman.Il Capote di Jones è forse più macchiettistico,vezzoso e punta molto sull'omosessualità dello scrittore facendolo spesso sembrare,nella prima parte del film,una macchietta impazzita.Eppure era questa l'immagine pubblica di Capote e il suo essere omosessuale dichiarato negli anni 50/60,i suoi vezzi narcisistici,la sua aristocratica eccentricità facevano parte dell'uomo pubblico,spesso bugiardo e manipolatore come ammetterà egli stesso più volte.Eppure McGrath ci mostra anche il Capote più intimo,quando il film abbandona definitivamente i toni di commedia per diventare una tragica discesa verso una tragica storia di parole mai dette.A differenza del Capote di Bennett Miller,McGrath ci tiene a farci capire di come possa crearsi un contatto(non certo facile)tra un dandy moderno che frequenta i salotti bene e un reietto della società,l'assassino Perry Smith,che appartiene ai gradini più bassi della scala sociale.E qui va dato un encomio speciale a Daniel Craig,duro e ruvido da ricordare Johnny Cash,che pur non avendo il fisique du role(il vero Smith era mingherlino),spazza letteralmente via Clifton Collins jr che interpretava lo stesso ruolo nel film precedente. Il fatto che
Craig diventi il vero protagonista della vicenda ci fa un pò rimpiangere la sua decisione di diventare il nuovo Bond che allontanerà le sue doti da ruoli ben più complessi e meritevoli di nota.La maniera in cui un sicuramente brutale assassino che,inspiegabilemente accomoda le sue vittime ed impedisce al suo compare di violentare la ragazzina,porta a rivelare un animo gentile e artistico castrato dalla brutalità del destino mostra a Capote come siano le due facce di una stessa medaglia.Come la vita,che comunque aveva portato via degli affetti allo scrittore,era stata più cinica ancora con la sua controparte.Capote e Smith diverranno un tutt'uno,prigioniero della legge l'uno e della personalità dell'uno l'altro in una metaforica forma della sindrome di Stoccolma,dove alla fine chi sopravvive non riuscirà più a riprendersi.
Infamous vuol essere la dottrina del motto per cui l'opera dell'artista lo priva sempre più di qualcosa fino a rinchiuderlo in se stesso.Come avvenne a Capote.

di Gianluigi Perrone

CAPOTE

Truman Capote era già una star,un personaggio ambiguo ed amatissimo dal jet set newyorkese,già giovane autore di opere che sarebbero divenute immortali quando,tra il '58 e il '66,si apprestava a scrivere l'opera che non solo l'avrebbe consegnato alla storia della letteratura mondiale ma che avrebbe anche cambiato il modo di scrivere.E sicuramente non sapeva che "In Cold Blood",il suo successo sempiterno,sarebbe anche stato il romanzo che gli avrebbe rapito l'anima e lo avrebbe privato della propria dote.
A Sangue Freddo nasce come la cronaca di un evento di sangue avvenuto in Kansas.Un'intera famiglia massacrata da due balordi per pochi dollari.A Capote non interessava raccontare il fatterello in sè ma voleva catturare,nella sua infinita sensibilità,ciò che per quella comunità aveva significato un atto talmente feroce e primordiale. Quando Capote avrà modo di conoscere dal braccio della morte uno dei colpevoli,Perry Smith,scoprendone l'animo nobile nascosto dietro il brutale omicida,capirà che la faccenda richiede un maggiore respiro.Truman Capote donerà tutto se stesso per consegnare alla pagina l'intensità di quei giorni con Smith.
La vicenda di Capote è talmente affascinante che non necessita di particolari orpelli per essere raccontata. Eppure lo scrittore meriterà(ed avrà come vedremo)ben più che il biopic freddo che ha realizzato Bennett Miller.Il film si poggia esclusivamente sull'interpretazione di Philip Seymour Hoffman che è effettivamente nato per incarnare Truman Capote e che attraversa lo schermo in punta di piedi ma incredibilmente intensamente come ci ha sempre dimostrato fino ad adesso.Però "Capote" non sembra altro che il bel compitino perfettino che piace all'Academy e che non scava nell'anima dell'artista e da per scontati i perchè e per come.Alla fine abbiamo una serie di eventi passivi e spesso insensati perchè non permeati dall'essensa vispa,vibrante e vivida che era il senso di Truman Capote.

di Gianluigi Perrone

BLACK DAHLIA

Quando ormai 20 anni fa James Ellroy diede alle stampe la sua personale interpretazione su quello che fu uno dei delitti più chiacchierati degli anni '50,la raccapricciante morte della 22enne Elizabeth Short,era già destino che la carta stampata divenisse materiale per Hollywood. Diversi nomi si era avvicendati alla regia,tra cui quello di David Fincher che alla fine si occuperà di un'altro caso insoluto americano,The Zodiac Killer,fino all'interessamento di Brian DePalma,concretizzatosi nell'enigmistico noir che trattiamo. Elizabeth Short era una giovanissima aspirante starlette di Hollywood che aveva una vita segreta fatta di sesso promiscuo e frequentazioni ambigue. Chi l'abbia torturata per giorni fino a sezionare in due pezzi il corpo,svuotarla delle viscere e sfigurarla in maniera agghiacciante non è ancora dato sapere e forse rimarrà un mistero per sempre. Fatto sta che una tale atrocità aprì,come spesso avveniva,uno squarcio nell'opinione pubblica che divenne morbosamente attirata dall'evento. La polizia di Los Angeles,fortemente interessata a guadagnare privilegi dal sensazionalismo dilagante,metterà i suoi migliori segugi sulle tracce dell'assassino.E poi nulla più.Ellroy,forse il miglior tessitore di noir vivente,dà la sua personale interpretazione dei fatti scavando nelle sordide vite dei poliziotti e degli indagati sui quali la tragica figura della Shorts aleggia eterea.
Chi ha letto il romanzo troverà,da parte di DePalma,una esatta riproduzione degli eventi narrati con una evidente dilatazione cronologica di alcune situazioni.La Dalia Nera di DePalma si aggira tra una serie a volte macchinosa di misteri e intrighi che macchiano le vite dei protagonisti. Su tutti i due poliziotti ossessionati dal delitto,soprannominati "Fire and Ice",Bucky Bleichert(un Josh Hartnett bravissimo nonostante troppo giovane per la parte) e Lee Blanchard(un ottimo Aaron Eckhart)che divisi tra donne misteriose,spietate e traditrici,consumeranno le proprie vite.
DePalma riprende letteralmente l'atmosfera dei noir anni 50(sarebbe stato curioso se il film fosse stato in bianco e nero)e la adatta al suo stile ed ai suoi virtuosismi.Lo stile è pacato e fumoso,dipanandosi verso vicende impreviste.L'unico neo è l'aver voluto abbandonare la vicenda della Dalia Nera,che nel libro aleggiava sempre presente come un fantasma silente,per occuparsi di snodi della trama abbastanza vacui.La scelta,probabilmente,è dovuta al fatto che il personaggio interpretato da Scarlet Johansson nel libro ha uno spazio marginale mentre nel film si è voluto far valorizzare l'attrice.A discapito della narrazzione che perde di fluidità e di atmosfera.Inoltre la Johansson deve lasciare scena sia a Hilary Swank,in un ruolo insolitamente sensuale e perfido,che soprattutto alle sporadiche ma significative apparizioni della Dalia,l'attrice televisivaMia Kirshner,che ircarna la vuota disperazione di Elizabeth Short,così giovane ma già così svenduta alle disillusioni sul mercato della depravazione della L.A. bene. Un'anima cannibalizzata la cui figura sfuggente è stata cannibalizzata dai media oltre la sua orribile fine,congelata per sempre in un osceno sorriso.

di Gianluigi Perrone