Tuesday, September 02, 2008

The Mad di John Kalangis (2007)



Una ventina di anni fa andavano di moda gli horror ironici, titoli principi di questo sottogenere i vari “Un lupo mannaro americano a Londra”, “Ammazzavampiri” e “Vamp”, ma è stato un periodo abbastanza breve; come si sa però le mode prima o poi tornano. “The mad” appartiene a questo tardo filone di nuovi horror ironici che ha avuto l'apice massimo negli ultimi anni con gli inglesi “Shaun of the dead” e “Severance-tagli al personale”. In questo caso niente di eclatante, ma comunque uno spettacolo schiacciapensieri spassoso che paga soltanto un budget ridicolo che non permette in pieno di sviluppare l'aspetto più truce della pellicola. Il “ The mad” del titolo è un padre di famiglia imborghesito, un tempo leader di una band di musica rock anni '80; si troverà suo malgrado a combattere contro un'orda di cadaveri affamati di carne umana. Punto forte della pellicola i dialoghi curatissimi e citazionisti, già cult la discussione se i nostri eroi si stanno trovando davanti a morti viventi o ad appestati dal morbo della mucca pazza. Molte le trovate da ricordare tra cui un tango tra il protagonista e una zombi terminato con un caschè al colpo di fucile o la sequela di sfighe che accadono al ragazzo più giovane (piede divorato da un morto, colpo di pistola alla schiena, hamburger cannibale sulla faccia e infine pasto succulento dei morti viventi). “ The mad” non è come sembrerebbe all'apparenza una commedia sui morti viventi, ma una storia di conflitti generazionali sullo sfondo ornamentale di un'apocalisse di morti viventi. La regia di John Kalangis è di pura routine, ma l'interpretazione di Billy Zane è fenomenale, confermando la vena comica che l'attore di “Titanic” ci aveva dimostrato in “Il cavaliere del male”. Da noi uscito direttamente in dvd: una visione comunque la vale, non si sa mai che possa diventare un cult di mezzanotte.
di Andrea Lanza

Thursday, August 28, 2008

Blood trails di Robert Krause (2006)


“Blood trails” non è solo un brutto film, è un film stupido. E questo è sicuramente il suo maggior difetto. Si salvi pure la regia di Robert Krause che ogni tanto un paio di scene ben confezionate sul piano della suspence riesce anche a metterle in canestro, si salvino pure gli attori che, pur non eccellendo in virtuosismo recitativo, danno anche una caratterizzazione non disprezzabile dei personaggi, ma Dio Santo la sceneggiatura è quanto di più demenziale uno possa immaginare, roba che “Scary movie” diventa un dramma elisabettiano. Finchè la protagonista tradisce il fidanzato ok, anche quando i due vanno in vacanza insieme ci siamo, lo stesso per la corsa in montain bike tra le impervie viuzze di montagna, ma quando a km e km di distanza l'amante della notte si ripresenta uccidendo con un colpo da playstation (mezza luna al contrario) il cornuto e mazziato (aveva appena accettato la scappatella) arrivano i guai. Uno dice: ok sei tanto sfigata da scegliere tra mille luoghi per fare le ferie proprio quello dove risiede il tuo occasionale amante, poi non un tipo apposto, no no uno che si diverte forse a stuprare le bambole ed andare in giro di notte nudo ad uccidere le galline, ma un tipo così dovevi scegliere per fare le corna al tuo uomo? Quando poi vediamo la protagonista scappare lontano lontano lontano e trovare sempre il killer ad aspettarla nei luoghi più inaspettati può venirci spontaneo il dubbio che forse forse stiamo assistendo ad un remake di “Alta tensione” di Alexander Aja. Eh già tutto combacia: magari il killer lo vede solo lei, magari ha dato di testa e alla fine vedremo le diverse scene sotto un punto di vista che si vuole spiazzante; prevedibile ok, ma per lo meno non stupido. Invece no il film è proprio così: lineare, sfrontato nel suo essere così fuori tempo massimo ad invertire i ruoli di “Attrazione fatale”, sottilmente cretino e disonesto con l'intelligenza dello spettatore nel creare situazioni assurdamente non sense. Non ci sono scuse: “Blood trails” è uno dei concorrenti più quotati per vincere l'Oscar della paraculaggine. Già me lo vedo sogghignare in Germania il regista Robert Krause dicendo “Vi ho fregato tutti. Vi ho fregato tutti”. Eh già perchè le foto di scena erano succosamente al sangue e la copertina molto bella, ma come insegna il proverbio: non tutto è oro quello che luccica. Forse se avessimo prestato fede alla puzza di rancido...
di Andrea Lanza

Saturday, August 23, 2008

Birth rite di Devin Hamilton (2003)


Amanti del cinema caciottaro, scoreggione, paraculo ecco per voi il pane degli angeli: “Birth rite” di Devin Hamilton. Difficile trovare titolo peggiore, peggio girato o peggio recitato. Nulla davvero funziona in questa storiella di magia nera e streghette puttanelle, nulla che anche per un nanosecondo faccia pensare per sbaglio a qualcosa di buono. Per cominciare abbiamo una protagonista alta un metro e un puffo, brutta come la morte, cicciottella persino, che si ostinano tutti come un mantra a dirci durante il film di quanto sia appetibile sessualmente. Meglio sicuramente la sorella maggiore, una specie di pornostar di trent'anni con due tette paura che il coraggioso regista vuole spacciare per una diciottenne o giù di lì, ma che per forza di una sceneggiatura scema come poche nessuno durante il film cagherà neppure di striscio. Tutti invece con la bava in bocca a cercare di infilarsi nelle mutandine della bonzona strega sanguinaria. Abbiamo poi un antagonista che agisce come un idiota che in una scena regala un diadema alla protagonista dicendole che l'indomani cominceranno i suoi poteri e subito dopo si materializza nella sua stanza in boxer attillati per ucciderla senza che ci sia ragione logica. Ma di incongruenze la pellicola è tappezzata: una ragazza va in bagno a fare i suoi bisogni senza togliersi i jeans, la protagonista attraversa un sentiero di impiccati che muovono palesemente le mani pur essendo morti, dopo un omicidio in piena lezione gli altri studenti si fanno i fatti loro. E' un continuo di scemenze infarcite da dialoghi stupidissimi, di velleità da regista che Hamilton vorrebbe avere e non ha, di zoomate senza senso, di combattimenti di karate coreografati come una recita delle elementari. Non si sa se ridere o se piangere, ma ci si chiede soprattutto come diavolo fa la Mediafilm a distribuire film tanto brutti? Ma fallisse una buona volta per tutte o assumesse gente capace con almeno un minimo senso critico per la scelta dei film. Fastidiosamente dilettantesco.
di Andrea Lanza

Friday, August 22, 2008

Jolly Roger di Gary Jones (2005)



Quante speranze tradite, quanta delusione nell'accingerci alla faticosa visione di questo “Jolly Roger”. Gary Jones anni fa era un nome promettente negli effetti speciali, il suo apporto più significativo è stato per “L'armata delle tenebre” di Sam Raimi, ma poi si è perso nella velleità di una carriera da regista che appagasse sia il suo ego autoriale che un certo gusto per il make up truculento. Di Jones abbiamo visto i pessimi “Spiders” e “Crocodille 2”, ma qui si è toccato il fondo del fondo del fondo. Difficile poter fare di peggio, difficile sbaragliare con un solo film i vari Decoteau, Uwe Boll o Albert Pyun nel ruolo tragico ed elisabettiano di “peggior regista vivente”. Si perchè le chiappe di giovani maschi al sole del caro David frocetton o i deliri al Bullet time del regista di “Postal” sono nulla al confronto di questa sciagurata vicenda di pirati e vendette secolari. Produce l'Asylum, casa sì specializzata in pessimi ripoff di film famosi, ma anche di un capolavoro come “King of the ants” di Stuart Gordon, quindi un minimo di barlume di speranza che stavolta “Jolly Roger” potesse essere un horror decente ci poteva stare. Ad avvalorare la tesi anche stupende scene di decapitazioni e morti sanguinanti apparse su “Fangoria”che hanno fatto godere sciagurati fan del genere come me. Ma purtroppo gli effetti speciali sono l'unica cosa salvabile di un film mal girato, peggio scritto e interpretato da attori così cagneschi da far sembrare Valeria Golino Ava Gardner. La storia defrauda impunemente “Fog” di Carpenter, ma anche “Pirati dei Caraibi” di Verbinsky, ma senza avere né la palpabile tensione del primo né la spudorata simpatia del secondo. “Jolly Roger” è uno slasher pedestre pieno zeppo di errori tecnici che potrebbero nascondere massonicamente l'odio più assoluto verso il cinema. Che dire di una telecamera di sorveglianza che trasmette immagini montate cinematograficamente? O di una ragazza picchiata e lasciata esanime un secondo prima che appare magicamente intonsa davanti al nostro pirata come se nulla fosse? O di una stazione di polizia che è in realtà un appartamento di un Motel? O di uno scrigno un'immagine prima colmo di teste umane di plastica e l'altra vuoto? Sono cose un po' alla Ed Wood solo che i film di Wood erano per lo meno divertenti nella loro cialtroneria. Questo “Jolly roger” invece è noioso fino al parossismo, sciatto come una telenovelas trasmessa su “Mai dire tv”, girato televisivamente senza un minimo di guizzo. Non fatevi ingannare da due belle tette ballonzolanti e un po' di discreto splatter: “Jolly roger” è il corrispettivo con due lire in più di una recita scolastica. Solo per masochisti.
di Andrea Lanza

Thursday, August 14, 2008

House of Blood (2007) di Olaf Ittenbach

Vedere “House of blood” è un po' tornare bambini con videocassette spuzze, logore che sanno di un tempo purtroppo ormai passato. Ricordo le nottate a sedici anni da solo o con amici a vedere robe immonde come “I ragazzi del cimitero” o “Spookies” o ancora la spazzatura della spazzatura, filmacci sotto label come “Eureka”, “Antoniana”, cose che mai sotto tortura oggi guarderesti. Eppure allora ci si esaltava con poco, i parametri di bello e brutto erano azzerati, te ne fregavi se un regista girava un horror nel giardino di casa e lo chiamava Amazzonia, non ti sentivi preso per scemo, semplicemente accettavi anche l'inaccettabile. Erano gli anni che magari rubavi la videocamera di tuo padre o di tuo zio e ti cimentavi tra zoom selvaggi e succo d'amarena a credere di essere Fulci o Romero, poi magari la tua pseudo troupe non si presentava e grazie a Dio non finivi il tuo insulto al Dio del cinema. “House of blood” è quel film che da ragazzino non hai terminato, è la videocassetta che avresti potuto vedere da adolescente assetato di film, è l'incubo più nero di ogni critico che si autodefinisce esteta. E proprio per questo suo essere oltre, oltre il buon gusto, oltre la più giusta delle logiche, posizionandosi fuori dal mondo, “House of blood” è un capolavoro come non se ne vedono da anni. Cioè tutto è sbagliato, dalla scelta della videocamera, una pessima dvd cam forse, agli attori ridicoli che sono comici quando fanno i duri, ai dialoghi tremendi che vogliono unire frasi cazzute ad altre di più aulico pensiero. Poi si dirà, ma il livello di figame sarà almeno alto, cioè deve esserlo per forza per rifarsi gli occhi davanti a qualche sciagurata starlette dalle tette grosse e la passera sbarazzina attratta dalle vane promesse di gloria del regista. Invece no, poche ragazze, vestitissime, anzi una mi sembra di aver letto si sia persino fatta cucire la maglietta sulla pelle per non destare alcuno scandalo, e quella che interagisce col resto del cast è pure un cesso mica male che si scopre essere nientepocodimeno che la moglie di Ittenbach, il genio autore di “House of blood”. Allora, mi direte voi dove, diavolo è il capolavoro? Ci arrivo, ci arrivo, miei cari. Per cominciare tecnicamente il film è incredibile, girato con un budget tipo le mille lire delle Elementari per un succo di frutta e la focaccina, ha però la dignità di una grossa produzione. Ittenbach fa cose folli con quei tre soldi, muove la telecamera sopra tetti, osa persino carrellate, nobilita combattimenti tra uomini e demoni con rallenti o soggettive di proiettili perforanti. Mica male dico io ora. Poi cazzarola lo splatter è estremo e ben fatto, gli attori mutano in un batter d'occhio in demoni e, come “Dal tramonto all'alba”, il poliziesco diventa horror e giù di facce ridotte in poltiglie, di teste aperte come un melone, di operazioni ai testicoli con dovizia di particolari, di arti amputati. Chi più ne ha più ne metta. Poi fattore di cazzata non indifferentemente divertente è che questi mostri saltano come acrobati da circo e picchiano come karatechi. Applauso a scena aperta senza dubbio. “House of blood” è una giostra malferma, un luna park scalcinato che risulta alla fine più divertente di Gardaland. Qui urge un appello: scriviamo a qualche produttore di Hollywood, la smettessero di assoldare dei cagariso per scadenti remake di film orientali, diamo qualche soldo a Ittenbach, veterano della scuola horror fai da te anni 90, per girare un film degno delle sue potenzialità. Altro che Rodriguez verrebbe fuori, sarebbe una bomba pronta ad esplodere. Ma per l'amor di Dio non facciamogli scrivere una sceneggiatura!
di Andrea Lanza

Thursday, August 07, 2008

Lake dead di George Bessudo (2007)


Gli “8 films to die” quest’anno, rispetto all’anno scorso, sono stati sicuramente migliori: abbiamo avuto, tra i più meritevoli, un film ad un passo dal capolavoro, “Le morti di Ian Stone”, una bella e cupa ghost story, “Crazy eight”, un torture movie da leccarsi i baffi e muovere invidia a Eli Roth, “Borderland”. Purtroppo non è il caso di questo “Lake dead”, operina esile esile girata dall’inesperto, George Bessudo con un cast di attorucoli dall’aria frastornata e la recitazione zoppicante. Per non parlare poi della sceneggiatura che ricicla come un pessimo minestrone tutti i clichè del genere slasher senza avere né la capacità né la voglia di provare strade nuove. Di perle di demenza il film né è costellato a cominciare dalla scena che mostra la scaltra protagonista, inseguita da una famiglia di pazzi assassini, cadere per via di una storta e riposarsi ben trenta minuti. E’ bene dire che la stessa protagonista intervallerà corse pedestri degne di un atleta ad altri momenti dove lamenterà un dolore incredibile alla gamba ferita (che non ho controllato, ma non mi stupirei se cambiasse da una sequenza all’altra). Sul piano della violenza il film conta qualche scena forte (una picconata in faccia o la trapanazione delle caviglie), ma senza riuscire a conferire all’opera un’aria malata che il genere da “Venerdì 13” richiede sempre. Qualche timido innesto di erotismo e morbosità (il sesso campestre o il bacio appassionato di un figlio alla madre) non bastano a salvare un film che definire disastroso è un complimento.
di Andrea Lanza

Tuesday, July 22, 2008

Scherzo letale (April's fool day) di The Butcher Brothers


Mesi fa avevamo recensito con un certo gusto l’interessante film dei Butcher Brothers (che tra l’altro non sono fratelli), “The Hamiltons”, pauperistica, ma non disprezzabile opera horror sulla disgregazione familiare. Quindi nell’accingerci a questo ennesimo remake di un classico del cinema slasher, “Pesce d’aprile” di Walton, lo abbiamo fatto con le più belle premesse avvalorate dall’idea dei due finti fratelli registi alle prese con un budget questa volta decente. “Scherzo letale” (questo il nuovo titolo italiano) inizia davvero bene, forse troppo, con queste carrellate da grande opera hollywoodiana, ma subito si esaurisce con una messa in scena degli omicidi esangue, imbelle, banale, e con uno sviluppo della storia originale francamente patetica. Se il vecchio film di Walton risultava riuscito per la sua aria stralunata da proto “scream” che analizzava, parodizzava, metteva alla berlina i limiti e le regole sotterranee del genere slasher, “Scherzo letale” non fa questo, ma arranca come un condannato a morte verso il colpo di scena finale che si vorrebbe travolgente e imprevedibile, ma invece risulta eccitante come lo è per una moglie un marito addormentato davanti alla tv. Il reparto attori è imbarazzante, con queste facce da culo d’interpreti che non sanno se stanno recitando Shakespeare o la pubblicità del panettone Melegatti, che possiedono la profondità di immedesimazione del personaggio pari a quella che avrebbe una mangusta del Nicaragua se per mestiere dovesse interpretare un horror. Dispiace per la bellezza mal utilizzata di Taylor Cole, improponibile come attrice, ma meritevole di ben altri film capaci di sfruttare in maniera più costruttiva i doni che madre natura ha dato a questa ragazza. Suggerirei un bel film hard di Michael Ninn. Meno male che Dio ha voluto che questo abominio uscisse solo in Italia per il mercato dvd. Da dimenticare in fretta senza tanti problemi.
di Andrea Lanza

Wednesday, June 25, 2008

Betrayed di Valerie Landsburg (2005)






Ma chissà chi è quel demente che ha avuto l’idea di produrre questo “Betrayed”? Già dalla copertina plagiata senza nessuna remora da “Basic Istinct” la puzza di bruciato è forte, ma poi, man mano che il film va avanti, i nostri dubbi sia un clone del film di Verhoeven con la Stone e Douglas vengono confermati con potenza sovrumana. Ma non solo non è un banale plagio, è un brutto plagio, qualcosa di tanto deprimente da farti sentire scemo. Star dell’opera non per niente il Baldwin non famoso Stephen e l’ex Buffy l’amazzavampiri che nessuno si ricorda, Kristy Swanson. La serie B della serie B. La storia poi non aiuta a tenere viva l’attenzione con situazioni viste e riviste meglio cento volte prima: c’è il solito assassino che potrebbe essere chiunque e la bella in pericolo che viene aiutata da un poliziotto in crisi matrimoniale che con lei inizia un torbido rapporto di sesso. Oddio torbido… I nudi sono pochi, ma la cosa bizzarra è che Baldwin scelga quella mummia della Swanson e non pensi minimamente ad intortarsi una molto più succosa e piacente moglie. Mah, misteri della fede! Poi tanto per fare un po’ di casino nella storia vengono infilati due personaggi gay delineati con la delicatezza di “Pierino medico della Saub”, vero tocco di sensibilità registica. La regia ecco… Una telecamera messa fissa nei posti più disparati che ogni tanto si anima o fa sfumare le scene in rallenti improvvisi e senza senso. Il finale è qualcosa di indefinibile poi: da vederlo senza poterci credere. Pozzetto urlerebbe “L’autore! Vogliamo l’autore!”, ma è meglio questa donna regista stia bene nascosta per evitare facili linciaggi. Brutto? Di più di più. Io vi ho avvertito: rinoleggiatevi “Basic Istinct” piuttosto se volete vedervi un bel thriller erotico, non questa cosa immonda e insulsa da miserrimo cinema del terzo mondo.

di Andrea Lanza






NB Confrontate la copertina di questo film con questa di Basic Instict. Allucinante plagio!
















Sunday, June 22, 2008

GATOR BAIT di Beverly & Ferd Sebastian (1974)

Si potrebbe liberamente considerare una versione al femminile di Chato questo Gator Bait, aggiornato e spostato dal west alle paludi della Louisiana. Il concetto di "non svegliare il can che dorme" soprattutto se è nel suo territorio è più o meno lo stesso, anche se in chiave più scansonata. Desiree è la caldissima Claudia Jennings,copertina dell'anno su Playboy, una skinner che vive in una palude delle pelli degli alligatori che pesca. E' selvaggia ma questo le conferisce ancora più fascino e sensualità. Due balordi in cerca di grane cercano di acciuffarla per appagare i propri istinti sessuali ma Desiree è molto più dura di quanto possa sembrare. Uno dei due balordi spara per errore all'amico e incolpa Desiree. La comunità si muove contro la donna che dà scacco a tutti. Divertente la rappresentazione della gente che vive in prossimità della palude. Dei redneck senza speranza. Uno di loro cerca di violentare la sorella ed il padre di famiglia lo punisce con la frusta manco fosse un asino. Grazie a questi simpatici personaggi il film può essere annoverato nel sottogenere hicksploitation, ovvero i film con gli zoticoni campagnoli ingoranti come capre. Il film è una specie di rape & revenge in cui la violenza non viene mai consumata ma sfocia in un omicidio gratuito ai danni della sorella. Il film è diretto in economia da Ferd e Beverly Sebastian ma bisogna ammettere che, saranno le suggestive paludi, ma il film ha un bel panorama e anche delle riprese niente male. Tutto si gioca sulle stupide idee dei villici e la scaltrezza della protagonista. Il film punta molto sula componente sessuale con una serie di bellezze in vestito "alla Daisy Duke" che spesso non lesinano nel farsi vedere nude. A volte ci sono dei tempi morti o lungaggini ma se preso per quello che è Gator Bait è un prodotto veramente divertente. Forse poco propenso alla violenza ma comunque funzionante. Il film ha anche un seguito,Gator Bait 2 - Cajun Justice, arrivato anni dopo quando il film forse era vagamente diventato un cult da cassetta e Betty Flammng al posto di Claudia Jennings, morta di incidente stradale nel '79 dopo aver partecipato a Fast Company di Cronenberg.

di Gianluigi Perrone

AD OCCHI APERTI Wide Awake di M Night Shyamalan(1998)


E' quasi fondamentale vedere questo primo film ufficiale di M Night Shyamalan per codificare la sua poetica ed il suo stile. Infatti il film contiene già in sè tutti i temi cari all'autore, visti in chiave più giovanilistica. Il film, è fortamente autobiografico ed è chiaro che il piccolo Joshua, seppur non di origine indiana, ha avuto lo stesso iter del piccolo Manoj. Così ha dei genitori medici, fa la scuoal cattolica e si pone un sacco di domande spirituali. Alla morte dell'amato nonno si interroga sull'esistenza di Dio e cerca tutto l'anno le risposte a questo dilemma. E' evidente come il film ,anche se appartenente ad un innocuo genere per famiglie, mostri come il tema della perdita della fede e del riconoscimento della realtà, fossero presenti da sempre nella poetica di Shyamalan. Anche il rapporto con i genitori, limpido ma spesso distaccato, mostra un certo problema di comunicazione che qui non viene risolto ma che pone le radici per temi affrontati in futuro. Tecnicamente, nonostante una fotografia evidentemente povera e televisiva, il linguaggio è simile a quello che verrà usato in futuro, anche se più è più castigato. In particolare con il successivo Il Sesto Senso si possono riconoscere numerose idee che qui sono in embrione. L'uso (forse anche invasivo) delle musiche, i numerosi carrelli e zoom sono idee che verrano trasposte nei prossimi film. Qui non vi è affatto la tensione, nonostante Shyamalan non manchi di inserire un momento drammatico dai connotati pur forti se si tiene conto del tipo di film di cui si tratta. Incredibile ma vero, già qui c'è il finale a sorpresa che poi diventerà quasi un marchio di fabbrica del regista per la prima parte della sua carriera. Una maniera semplice per realizzare dei finali forti. Un film sciocco e senza pretese ma molto interessante per lo studio del cinema di Shyamalan e nel suo genere diverse spanne sopra la media.

di Gianluigi Perrone

THE VILLAGE di M Night Shyamalan (2004)

Se guardiamo i trailer promozionali di The Village (inizialmente The Woods, poi cambiato per omonimia con il film di Lucky McKee) ci rendiamo conto del fatto che si volesse vendere il film allo spettatore come un horror oscuro. Da qui forse il disappunto di alcuni nei confronti di un film che ancora una volta è una svolta nella carriera di Manoj Shyamalan. In The Village Shyamalan prende ulteriore coscienza delle sue capacità e soista il suo lavoro certosino verso una poetica chiara ed umanistica, che trascende notevolmente dalla trilogia sovrannaturale prodotta in passato. Il villaggio in mezzo ai boschi assediato dalle creature innominabili è chiara metafora dello stato di terrore in cui vive l'America e l'Occidente intero, prostrato nell'immobilità da una paura indotta e menzognera, come quella degli anziani del Villaggio. Che vi sia buona fede nelle loro azioni non giustifica il mezzo usato, da Don Abbondio, da deboli e in un certo qual senso inutile perchè il dolore è ovunque e la natura umana maligna è ovunque. Non a caso il fautore di tale presa di coscienza è Noah (Adrien Brody), lo scemo del villaggio, che è una grottesca metafora del ridicolo proposito degli anziani. Con innumerevoli finezze registiche e prove di stile, Shyamalan racconta della cecità di chi ha perso le speranze verso il mondo contro la paradossale capacità di vedere e capire di Ivy ( Bryce Dallas Howard), cieca sul serio ma consapevole per amore di ciò che è giusto fare. Ancora l'incomunicabilità è uno dei temi amati dal regista. L'incapacità di esprimere il proprio sentimento, le proprie passioni sopite come il rosso che diventa il colore proibito che attira i mostri. E' l'amore che vince contro la rassegnazione, contro la perdita della speranza. Il Villaggio va verso la consapevolezza di aver sbagliato ,il mondo fuori è ancora immerso nel male.

di Gianluigi Perrone

UNBREAKABLE di M Night Shyamalan (2000)

Non il manifesto ma forse il più bel film di Shyamalan. Il passo da gigante fatto rispetto al bello seppur manieristico Il Sesto Senso è evidente. Shyamalan interpreta il mito ed i topoi dei fumetti supereroistici in maniera umana e naturale. La storia di David Dunn (Bruce Willis) che a poco a poco comincia a scoprire di avere dei superpoteri dopo essere sopravvissuto ad una catastrofe ferroviaria ha del tangibile e trascende dalla pomposità clamorosa usata normalmente nei cinecomics. E' tutto riferito alla emotività umana e alla situazione familiare di Dunn. Il dramma dell'allontanamento dalla moglie, il rimorso per decisioni prese per amore, ancora l'incomunicabilità è vista con gli occhi pieni di speranza del figlio, la cui capacità di credere e vedere è uno dei punti cardine della poetica del regista. Sicuramente il vero protagonista del film è Elijah Price (Samuel Jackson in una delle sue migliori interpretazioni),l'uomo di vetro, il cui dolore continuo e perenne lo ha reso amaro verso la vita che solo i fumetti hanno salvato ma lo hanno portato ad astrarsi dalla realtà. Price è la superevoluzione del nerd con delle ragioni umane, un villain il cui decadimento emotivo ha delle ragioni superiori, la cui esistenza è un riflesso di se stessa, come viene continuamente sottolineato stilisticamente. Mai come in questo film il dualismo tra i protagonisti è alla base degli eventi. Le qualità che danno senso all'esistenza sono speculari e per entrambi c'è un senso a tutto ciò che avviene.
di Gianluigi Perrone

SIGNS di M Night Shyamalan (2002)

Il progetto di Signs sembra nascere subito come produttivamente ambizioso, con Shyamalan riportato nei territori della suspance tout court con il Sesto Senso ancora alle spalle. Shyamalan scrive la sceneggiatura pensando ai classici che amava sin da piccolo, ovvero Uccelli di Hitchcock, L'Invasione Degli Ultracorpi di Don Siegel e La Notte dei Morti Viventi di George Romero. Nonostante sia quest'ultimo il film esplicitamente citato in una scena in cantina, gli altri due film hanno uguale peso, visto che in Signs si ricrea una situazione di panico circoscritta ad una famiglia mentre il mondo è invaso dagli alieni. L'esperiente per catturare l'audience è quello dei cerchi nel grano ma in realtà è solo un elemento marginale visto che Shyamalan incentra la storia su un pastore che ricerca la fede e la comunicazione con la propria famiglia. Come spesso avviene nei film di Shyamalan, un fatto traumatico, un lutto, trasforma l'universo di un individuo come un evento sovrannaturale potrebbe fare con il mondo reale. Mel Gibson viene scelto come protagonista e non a caso visto che l'attore è notoriamente un uomo di fede ed ha la possibilità di immedesimarsi con il personaggio. In questo film più che mai Shyamalan si prodiga a mettere in scena immagini cristologiche, come la toccante scena dell'ultima cena o la Pietà rappresentata dal piccolo Kieran Kulkin nella parte finale del film. Come nei precedenti film ritorna la predestinazione dei personaggi, le cui caratteristiche,anche se insignificanti, sono il mezzo per accedere ad un disegno più ampio. Un messaggio che ancora una volta sottolinea l'aspetto spirituale del cinema del regista.

di Gianluigi Perrone

LADY IN THE WATER di M Night Shyamalan (2006)

Per comprendere perchè Lady In The Water sia il prodotto migliore e in certi casi definitivo di Shyamalan è il caso di partire dalla sua produzione. Per alcuni il limite dell'autore era di essere costretto sempre tra le i dettami del genere che ne imbrigliavano la capacità espressive. Dopo The Village, che già mostrava notevoli intenzioni autoriali che si discostassero dal passato, Shyamalan decide di compiere una operazione metacinematografica che ponga se stesso come narratore al centro di una vicenda in cui è la narrazione il fine ultimo della stessa e che renda il messaggio esplicito nella stessa storia del film. Shyamalan parte da una favola che racconta ai propri bambini e la mabienta in un condominio dove una serie di vite si intrecciano e vengono catturate dall'avvento di una donna che compare dalla piscina, un narf come la definisce una leggenda koreana, con il nome di Story. E' proprio La Storia a fa muovere i personaggi i cui ruoli non sono immediatamente chiari ma prendono il loro senso una volta che chi è capace di vedere (non a caso un bambino) da la giusta interpretazione della realtà. Il fatto che i personaggi credano ciecamente ad un evento inverosimile non è una forzatura ma contiene lo stesso significato nel film. Quando l'uomo non è più capace di ascoltare delle storie ecco che la storia si mette in moto per esistere. Ancora ritorna il tema della predestinazione e come si vede ogni personaggio ha un suo ruolo e quello che Shyamalan si affida, lo scrittore che cambierà le cose, è emblematico, non fosse altro perchè ben più consistente che negli altri film. L'autore esprime al massimo le sue capacità stilistico-simboliche, parla apertamente con il linguaggio della camera da presa e riempie di emotività i personaggi. Paul Giamatti in questo caso è gigantesco, nonostante sia un sostitutto di Phillip Seymour Hoffman, e conferisce un che di ironico nel suo personaggio comunque intensissimo. Ironicamente Shyamalan se la prende con una certa critica bacchettona che analizza i film senza comprendere che dietro di essi c'è un'anima e dei sentimenti. Forse banale ma assolutamente pertinente nell'economia di una storia come Lady in the Water. La Disney aveva cestinato la sceneggiatura e questa rottura aveva portato indipendenza a Shyamalan ma anche dide ragione a causa dello scarso successo del film. In realtà poi Shyamalan l'ha avuta vinta perchè è riuscito a realizzare una storia unica nel suo genere che tratta il tema del raccontare storie, oltre il cinema e la letteratura, ma proprio nel senso della comunciazione umana e della fantasia che chiede semplicemente di essere ascoltata e di abbandonarsi ad essa.

di Gianluigi Perrone

IL SESTO SENSO di M Night Shyamalan (The Sixth Sense) 1999

Vero e proprio miracolo cinematografico, Il Sesto Senso è il film che ha fatto riconoscere M Night Shyamalan come nuovo guru dell'horror moderno. In realtà quasi subito il regista si preoccuperà di puntare l'accento su altri aspetti della sua cinematografia, in modo tale da valorizzare maggiormente quest'opera che apparentemente era solamente un grande film horror. Al di là della costruzione sfociata nel twist finale, delle raccapriccianti immagini di morte che si presentano davanti al piccolo Joel Osment e di tutti gli espedienti che Shyamalan rubacchiava dal cinema asiatico di paura quando ancora non era esploso in occidente, l'elemento sorprendente de Il Sesto Senso è la incredibile armonia tra stile e contenuto che il regista riesce ad esprimere sottovoce, senza alcun sensazionalistico se non con virtuosismi cinematografici. Il giovane protagonista è sicuramente dotato ma è la maniera in cui viene diretto che ne amplifica le qualità, così come avviene per Bruce Willis, la cui scelta è un colpo di genio azzeccatissimo. Un classica storia di fantasmi viene trasformata nella più complessa parabola di incomunicabilità e disagio familiare. Il rapporto con il bambino e la madre, così come quello di WIllis e la moglie, sono due facce della medesima medaglia con la differenza che solo quello che non è completamente infranto si può ricostruire. Incredibile a dirsi ma con un budget decisamente basso per quello che sono i suoi standard, Shyamalan tira fuori un prodotto fortissimo, forse invecchiato prematuramente nell'economia spicciola della storia ma ancora validissimo per quanto riguarda il suo contenuto semantico.

di Gianluigi Perrone

Sunday, June 15, 2008

The call 3 di Manabu Asou (2007)

E con “The Call the final” siamo all’ultimo tassello della saga iniziata da Takashi Miike sui cellulari indemoniati, derivazione diretta del più famoso “Ringu” di Hideo Nakata. Diciamo subito che non ci siamo: questo terzo capitolo è il peggiore. Peccato perché l’idea di fondo non era male: usare la moda giovanile per gli sms come una sorta di virus che conduce alla morte. Chiudere un gruppo di studenti in un albergo come fossero polli in una gabbia e farli scannare l’un l’altro era tutt’altro che una brutta idea, quasi una sorta di Battle royal horror, ma ben presto la storia si perde nella solita vendetta di una ragazza sbeffeggiata. Come se già i vari Whispering corridors o gli horror perdenti di Ahn Byeong-ki (“Gawi”. “Bushinsaba”, “The phone”) non avessero esaurito a sufficienza l’argomento. Che noia! La regia è anonima come poche cose, la psicologia dei personaggi è calma piatta, la sceneggiatura arranca come un malato di asma in quell’unica idea cercando di trovare uno sbocco in scopiazzature di altre opere. Se il primo “The call” era sicuramente il migliore pur trattandosi di un Miike più commerciale (però scene come l’esorcismo in tv sono pugni allo stomaco per la violenza), il secondo dell’anonimo Renpei Tsukamoto evitava il disastro solo in virtù di un’ottima atmosfera e di alcuni colpi di scena, questo terzo è l’impatto finale verso il mediocre più assoluto. Per carità meglio di cose immonde come il pessimo remake “Chiamata senza risposta” di Eric Valette, qui almeno siamo ancora nel campo delle buone idee sfruttate male. Ma tantè…

di Andrea Lanza

Matamorphosis di Tim Cox (2005)

Ma che bella sorpresina: un b movie coi controfiocchi. Questo “Metamorphosis” sarà pure uno dei tanti film prodotti con lo stampino dalla famigerata Nu Image (“Crocodille” di Hooper ed eco vengeance vari), ma qui piuttosto che altrove la ricetta è meglio condita. Partiamo subito dal gustoso assunto: una ditta regala agli allevatori locali un nuovo tipo foraggio ottenendo una percentuale sulle bestie da macellare e venendo proclamati dal volgo come benefattori; peccato che questo prodotto generi anche delle larve parassite affamate di sangue. Originale no? Se poi aggiungiamo che le terribili bestiole dopo essersi rifugiate nello stomaco dei malcapitati ospiti ne escono in un tripudio splatter di petti e stomaci perforati come dei simil pipistrelli possiamo dire con tutta sicurezza che non è la solita minestra riscaldata. Effetti speciali in una computer grafica che non stona, attori sconosciuti, ma in forma, una sceneggiatura che arriva a non banalizzare il facilmente banalizzabile (l’umanità dello spietato villain è tocco aureo) e una regia forse non eccelsa, ma adatta ad un grande spettacolo casalingo. Che altro chiedere di più? E pensiamo che il suddetto film è nei cestoni dei supermercati a meno di sette euro tra i vari Decoteau e compagnia brutta: che ingiustizia! Certo non si può gridare al grande miracolo eppure nel suo piccolo “Metamorphosis” funziona da Dio come mero intrattenimento, molto di più di fratelli maggiori miracolati da un grande budget. Belle idee di un cinema che forse sempre più raramente viene prodotto, film fatti per le platee di massa, non elitari, eppure capaci di grandi picchi d’ala e di un’ottima confezione. Anche se dalla copertina con questo simil mostro dai denti a sciabola che mostra un occhio dalle fattezze di uno scheletro non ci saremmo aspettati nulla, ben lieti di essere stati smentiti. D’altronde un film diretto al mercato dvd che non ti fa sbadigliare né costringerti ad una visione accelerata con il fast foward è già di per se stesso un miracolo. Promosso.

di Andrea Lanza

Sunday, June 08, 2008

Prigione di vetro 2 di Steve Antin (2006)


In pochi si ricorderanno forse un thriller di qualche anno fa con protagonista la bella Diane Lane (ex signora Lambert) dal titolo “Prigione di vetro”. Niente di che a dire il vero: storia abbastanza trita con suspense ai livelli minimi. Questo secondo capitolo pur nascendo quindi con le premesse più disastrose, riesce comunque ad essere invece una bella sorpresa. La trama del precedente (ragazzi orfani nelle mani di spietati genitori adottivi) viene insaporita da un una buona regia, da un ritmo concitato e da trovate degne di note. Non ultima quella di mettere in primo piano una patologia medica che è causa sotterranea di alcuni casi di morte infantili: la sindrome di Munchausen con procura. Se non sapete cos’è preparatevi a tenere saldi i nervi: è quella malattia che spinge una madre a ferire, torturare e (a volte) uccidere il proprio figlio solo per sentirsi utili e apprezzate. Un crudele modo per essere elette di forza “amorevoli mamme dell’anno”. Di certo l’argomento non è nuovo, se ne è parlato al cinema in ottimi film come “Il sesto senso”, “Fragile” o “The Call”, ma “Prigione di vetro 2” riesce comunque a rendere originale il tema in una cornice da thriller claustrofobico al cardiopalma. Gli attori sono tutti bravi, solo Jason London nei panni di un poliziotto è francamente imbarazzante nel suo look stereotipato con occhiali neri perenni tanto anni 80. Un plauso all’ottima fotografia e ad una regia sapientemente brava ad orchestrare i tempi della paura. Il regista Steve Antin ha fatto poco o niente per il cinema, ma da questa prova lascia ben sperare in un roseo futuro. Per essere un film diretto al mercato dvd è opera davvero ben riuscita.


di Andrea Lanza

Monday, June 02, 2008

TEETH di Mitchell Lichtenstein (2007)

"Dentata!", grida il ginecologo quando scopre la peculiarità anatomica di Dawn, Jess Weixler, a discapito delle sue dita. La vagina con i denti è stata una fantasia tra le più gettonate tra gli uomini, forse per quell'ansia di castrazione di cui parlava Freud, forse perchè anche una mente poco fantasiosa associa una bocca, seppur verticale, ai rispettivi denti ed alle conseguenze del caso. Innumerevoli le rappresentazioni storiche e artistiche di questa caratteristica ed era prevedibile che prima o poi arrivasse anche al cinema popolare. Questo è infatti Teeth di Mitchell Lichtenstein che ha la leggerezza di una commedia con sottotesti sessuali neanche ormai troppo scabrosi visto quello a cui ci ha abituato la tv con serie come Nip/Tuck, che non a caso presta John Hensley al film. Per creare un po' di trama si immagina Dawn come una ragazza che crede fermamente nel valore della verginità, quindi non immediatamente capace di riconoscere la sua deformità (che si intuisce dovuta ad una fabbrica nucleare nella sua città). Insieme al sesso, Dawn scopre i dolori dello stesso. Troppo facile la metafora psuedo-femminista per cui l'emancipazione sessuale di Dawn va a pari passo con la scoperta della meschinità del maschio. Il film poggia un po' troppo sulla trovata iniziale e si sviluppa un po' disconnesso, soprattutto nell'ultima parte, quando la tagliola di Dawn si vendica un po' di tutti i maschi che trova davanti. Girato in maniera fresca e sicuramente conscio del suo potenziale, il film presentato al Sundance fa ben sperare per un autore che qui voleva forse dare il proprio caratteristico biglietto da visita.

di Gianluigi Perrone

SANGRE di Amat Escalante (2005)

Amat Escalante nasce spagnolo ma, naturalizzato cittadino di Città del Messico, qui giovanissimo realizza il suo esordio cinematografico. In Sangre Esclante delinea le caratteristiche del suo cinema, ovvero : l'essenzialità, la monotonia del quotidiano, la miseria dei corpi e l'apatia. Girato in economia con
attori non professionisti, Sangre segue la vita di un portiere che vive con la moglie un rapporto non brutto, perchè correlato da tutti i doveri matrimoniali compresa una visione del sesso molto impostata, quanto piuttosto macchinoso e ripetitivo. Il corpo sgonfio ed il suo sguardo perso nel vuoto sono lo specchio della sua esistenza, fatta di lunghi silenzi compiaciuti e alimentazione (anche mentale) pessima e popolare. Quando arriva la figlia con pretese di riordinamento degli equilibri qualcosa succede ma è la messa in scena minimale di Esclante che colpisce particolarmente. Infinitamente lunghi piani sequenza e tempi dilatati in una maniera asfissiante, con un effetto semplice e complesso alla stessa maniera. Un esordio interessante che dimostrerà la possibilità di crescere dell'autore nell'immediato futuro. Coccolato a Cannes nel 2005.

di Gianluigi Perrone

Thursday, May 29, 2008

CINQUE CORPI SENZA TESTA (strait-jacket) di William Castle (1964)

Uno dei film più violenti di William Castle e tra i più riusciti. Molto si deve a Joan Crawford che interpreta la schizofrenia della protagonista in maniera pionieristica. Ispirato ad un racconto di Robert Bloch, vede come protagonista una donna che per gelosia massacra marito ed amante a colpi di ascia sulla testa davanti la figlia. Dopo anni di manicomio ritorna dalla figlia ma le morti non sono finite. Tutto il plot gira sul mistero del misterioso assassino decapitatore ma il tutto è reso cruento dalle immagini di morte ed il ritorno dell'immagine senza testa che Castle infila subliminalmente ovunque. Il resto è fatto da ombre e tensione con il consueto stile del regista.
A suo modo un film seminale nel suo genere.

di Gianluigi Perrone

INCATENATO ALL’INFERNO (unchained A.K.A. The Man Who Broke 1,000 Chains) di Daniel Mann (1987)

Un filone molto sfruttato dal cinema americano è quello con tematiche carcerarie. “Incatenato all’inferno” ,tuttavia,pur potendosi far risalire a questo filone,risulta essere un film di più ampio respiro. La storia ,reale e biografica, del protagonista, finisce per essere una tortuosa rappresentazione di quel self made man che è l’incarnazione stessa del “sogno americano”. Il reduce Robert Elliot Burns , che, alla fine della prima Guerra Mondiale, si ritrova vittima della depressione che aveva investito gli Stati Uniti,finisce per divenire uno dei tanti diseredati che vagavano nascosti sui treni di città in città,sperando di trovare un lavoro o di racimolare qualche spicciolo. Nella propria ricerca di una opportunità,però, il giovane si ritroverà invischiato in una rapina,finendo per essere condannato a dieci anni di lavori forzati nello Stato della Georgia. Il film ci catapulta in un vero inferno sulla terra,quello delle colonie penali del profondo Sud, il lato oscuro della Dixie Land,dove la vita di un uomo vale meno di nulla. Qui Burns scoprirà il lato bestiale e malvagio dell’animo umano, incarnato dal direttore Hardy (un immenso e sudaticcio Charles Durning)e dai suoi scagnozzi. Da questo posto mefitico ed inumano,però,il giovane reduce riuscirà a fuggire per tentare di crearsi una nuova identità e di ricostruire la propria vita; da un suo romanzo si darà il via a quel processo civile che porterà alla riforma delle colonie penali. Un film che tocca molte tematiche,dunque: dalla ingenerosità dell’America nei confronti dei propri reduci, al tema dei delitti e delle pene,il tutto supportato da una colonna sonora folk blues e spiritual,cantata a squarciagola dai detenuti per scandire il ritmo delle picconate. Ultima menzione,doverosa, va al personaggio del vecchio Pappy Glue, Interpretato da Elisha Cook.

Di Andrea Scalise

BRACCATO A VITA (MAD DOG MORGAN) di Philippe Mora (1976)

Nello stato di Victoria in Australia,terra di pendagli da forca,colonia di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra,un giovane,Dan Morgan, passa la propria vita tra fumerie d’oppio e scazzottate. Il film narra l’ascesa di questo avventuriero dal carattere fiero,trascinato nell’inferno delle carceri,dove verrà brutalizzato e torturato,per poi passare alla sua nuova vita da fuorilegge. A far da sfondo a tutto ciò ,vi sono le distese dell’Australia ottocentesca,dove una stretta elite di anglosassoni governa su una masnada di delinquenti e sulle popolazioni aborigene locali. Morgan guadagnerà l’appellativo di “cane pazzo” per via delle proprie imprese banditesche, divenendo, quasi, un robin hood australiano. Dan Morgan, alias “mad dog Morgan” non è altro che il nome falso di un personaggio storicamente vissuto nella metà del 1800 in Australia. Un uomo che si pose in lotta contro una società spietata e classista,divenendo una belva selvaggia,braccata da una moltitudine di cacciatori di taglie. Nonostante la barba folta e posticcia,un ruolo disegnato su misura per Hopper,che sembra divertirsi un mondo ad impersonarlo. Uno scontro tra diversi tipi di inumanità,tra chi,pur costretto a vivere come un selvaggio,Morgan stesso e l’unico suo amico,l’aborigeno “Billy”,mantiene dei rudimentali principi morali e chi invece,come il governatore,in nome della propria superiorità,non esita a far fare a pezzi il cadavere di un bandito solo per conservarne lo scroto come portatabacco. “Braccato a vita” sembrerebbe a prima vista essere un western,ma si rimane allibiti dalla facilità con cui il registro varia dal film d’avventura a quello “picaresco”,con un retrogusto di cinema horror che lo pervade insistentemente. Durante le crude scene della violenza sul protagonista e della “M” ,barbaro simbolo della detenzione , che gli viene marchiata a fuoco sulla mano,si prova una sensazione di netto disagio che la accomuna più ad un horror gotico che ad un classico western.

Di Andrea Scalise

ROMAN POLANSKI : WANTED & DESIRED di Marina Zenovich (2008)

Per chi non lo sapesse a Polanski piacciono le ragazzine. Fosse l'unico. Il problema è che nella sua vita incredibile c'è stato anche uno scandalo relativo ad un rapporto con una tredicenne che lo ha costretto alla contumacia dagli Stati Uniti.Il documentario di Marina Zenovich, Roman Polanski Wanted & Desired, parte da questo spunto per sfruttare l'immagine di uno dei più grandi registi dela storia. Chiaro che Polanski ha sbagliato ed è un porco schifoso,però dietro a questo lavoro mal fatto ed ipocrita ci sono ben altre storie da raccontare. Evidentemente c'è dell'acredine tra i Weinstein ed il regista polacco, perchè distribuire in pompa magna un lavoro che, per quanto ruffiano, riporterà alla luce le ombre del regista. Banalmente si raccontano i fatti conosciuti della vita di Polanski, dal massacro della famiglia Manson alla carriera cinematografica, assolutamente in maniera verbosa ed inutile. Tutto quello che si racconta nel doc è su internet,non vi è un minimo di indagine se non gossippara che da una interpretazione grossolana dei personaggi neanche fossero macchiette forzatamente proposte come interessanti.La regista intervista gente al margine degli avvenimenti ovvero lo schiavo di Dino De Laurentis o un gornalista coinvolto marginalmente negli eventi e tutta gente che parla sul sentito dire.
I protagonisti sono mostrati tagliati con l'accetta e alcune affermazioni dell'accusa come che "i film di Polanski siano tutti basati sulla corruzione dell'innocenza sull'acqua" come immagine dell'atto sessuale sulla ragazzina in una vasca da bagno sono ridicole e a tratti scandalose se si pensino messe in bocca ai più grossi uomini di legge americani.
E' un colpo basso senza motivo di essere. Ennesima speculazione squallida al pari delle azioni di Polaski. Triste che la diretta interessata,la ragazza che ebbe il rapporto con il regista, si sia prestata a questa farsa senza una posizione precisa. Alla fine Polanski è un grande regista e tanto tutto è andato in prescrizione.

di Gianluigi Perrone

TOKYO SONATA di Kyioshi Kurosawa (2008)

Kurosawa Kyoshi che rasenta il sublime. Ormai l'autore giapponese ha raggiunto un livello tale da superare i limiti del genere horror che effettivamente non lo aevano mai imprigionato. La storia quotidina di un impiegato che perde il lavoro e lo tiene nascosto alla famiglia è abusata ma la costruzione verticale degli eventi del regista giapponese non lascia adito a facili interpetazioni. Tutto, nella vita dell'uomo diventa tragico, ed il suo stato con la famiglia si sgretola in piccole cose. In lunghi e plumbei piani sequenza disegnati su inquadrature perfette che mostrano Tokyo come un luogo sbilenco in cui sono imprigionati i cittadini, oppressi dalla società.La frustrazione si sfoga nella famiglia che involontariamente esalta la disperazione del padre di famiglia fino a spostare l'intolleranza per la madre che vuole ormai fuggire dalla bugia che è la famiglia. Come al solito il finale esplode in dubbie elucubrazioni ma ciò che stupisce è il ghiaccio dietro alla realtà apparentemente perfetta. Regia fantastica che merita il premio di Un Certain Regard a Cannes.

di Gianluigi Perrone

TUNNEL RATS di Uwe Boll (2008)

Boll ci riprova con un film di guerra sul Vietnam e parte da una idea niente male.I Tunnel rats erano i soldati che combattevano in stretti cuniculi sotto le giungle vietnamite scavati dai vietcong per colpire di sorpresa i marines. Boll cerca di unire Descent a Platoon (con anche un po' di Predator) ma come al solito ne viene fuori un pasticcio. Il problema è che Uwe non ha il senso del ridicolo e scrive (e quindi dirige) scene ridicolissime. Sarà il budget che non permette di spingere sull'azione ma Uwe non riesce ad esimersi dai tempi morti. Il film spesso scade nella noia e, purtroppo, negli sterotipi. E' sicuramente una delle cose migliori fatte dal regista tedesco tecnicamente ma pecca sempre in sceneggiatura dove, alcune forzature sono poco sopportabili. E' ovvio che nessuno si fumerebbe mai una sigaretta in un tunnel di 30 cm come è pazzesco che, nel giro di pochi secondi, il riconcigliamento tra Viet e Marines possa essere così repentino. Possiamo tranquillamente dire che tecnicamente Boll è cresciuto ma deve avere l'umiltà di capire che le sceneggiature vanno scritte con criterio. Magari da qualcun'altro che capisco cosa e ridicolo e cosa no.

di Gianluigi Perrone

EL BUFALO DE LA NOCHE di Jorge Hernandez Aldana (2008)

Tratto da un bel romanzo di Guillermo Arriaga, sceneggiatore dei film di Innaritu oltre che de Le Tre Sepolture di Tommy Lee Jones qui anche in veste di produttore, The Night Buffalo tratta della morte per suicidio di Gregorio, un ragazzo schizofrenico ossessionato dall'immagine di un bisonte onirico, e delle vite di coloro che circuitano intorno alla sua esistenza, del rimorso e dell'ossessione che trasforma il suo migliore amico, Manuel, nel defunto amico. Ad interpretarlo Diego Luna, anch'egli tra i produttori, che sembra pretendere di essere il fulcro totale degli eventi per quanto la camera dell'esordiente Jorge Hernandez Aldana gli sta sempre addosso. Nonostante l'interpretazione di Luna sia ottima è decisamente opprimente, soprattutto a causa di un numero eccessivo di scene di sesso (saranno almeno 8) molto esplicite che sono sicuramente piacevoli ma fini a se stesse. La vita sessuale di Manuel è sì il centro dei problemi che lo perseguitano ma insistere sugli amplessi con diverse ragazze, Luna fa sesso con Irene Azuela, Camila Sodi e soprattutto con Liz Gallardo diverse volte, non aggiunge nulla all'economia del film. Attraverso il sesso si esplicano i rapporti tra i personaggi, il rifiuto, la paura e l'ossessione. Regia e fotografia comunque eleganti e piacevoli per un opera prima tutto sommato interessante.

di Gianluigi Perrone

Wednesday, May 28, 2008

SCARCE di John Geddes & Jesse Cook (2008)

Horror low budget dal Canada che si presenta come un atroce bagno di sangue sulla neve. Tre ragazzi vanno in vacanza per poi perdersi e trovare ospitalità dalla rozza gente locale che si rivela come mangiatrice di carne umana. Banale? E' proprio questo il problema di Scarce, di John Geddes e Jesse Cook, che combatte con un budget basso ed una fotografia misera in maniera arrendevole.Non si tenta di riproporre una soluzione visiva moderna,nè nella regia nè nelle idee. Al di là della povertà dei mezzi e delle promesse disilluse, è la sceneggiatura che lascia troppo spazio alla noia. Si cerca di creare un horror old school ma la prima ora di quasi stasi non permette di apprezzare il prodotto. C'è sicuramente cura per la regia delle scene ma senza stile,anche se classica è senza voli pindarici, ma quello che stufa è l'eccessiva quantità di luoghi comuni che non permette al film di superare la soglia dell'amatoriale.

di Gianluigi Perrone

SURVEILLANCE di Jennifer Lynch (2008)

Jennifer Lynch non può esimersi dal grosso fardello che la vede legata al padre ed infatti accetta di sottomettersi ad esso. Surveillance cita spesso (e a volte fuori luogo) il lavoro di David Lynch. Il film per fortuna prende una strada molto più pacata nella sua realizzazione. Il thriller on the road di Jennifer Lynch è assolutamente convenzionale nella regia, obbiettivamente ben fatta,e punta molto sull'ottima sceneggiatura. Una serie di interrogatori ci introducono ad un incidente ed una serie di omicidi ad opera di un serial killer che,per la malafede dei protagonisti, constrastano con i flashback che raccontano il vero scorrimento delle cose. Molta ironia ed ottimi dialoghi rendono piacevole un thriller che sulla carta poteva essere legato ad un finale abbastanza banale. La Lynch fa un lavoro mediamente distinguibile ma non osa troppo, forse memore del precedente Boxing Helena, e si affida ad un ottimo lavoro di attori. Bill Pullman ritorna inaspettatamente in una parte che gli fa onore fino quasi alla fine del film. La costruzione funziona ed il film ha tutte le carte in regola per essere un outsider se non fosse per l'evidente volontà di renderlo tale a tavolino. Sono solo puntigli che comunque pesano sul nome della regista che comunque crea un thriller atipico e godibile.

di Gianluigi Perrone

MY NAME IS BRUCE di Bruce Campbell (2008)

All'approssimarsi dell'autunno della sua carriera Bruce Campbell approda all'esordio cinematografico con una commedia horror auto-citazionista. Parlare di metacinema è quantomeno ridicolo ed esagerato ma di sicuro è lo stesso Campbell il fulcro del film. Nel film immagina se stesso come un attore disperato per le continue proposte di film a basso budget che puntualmente accetta. Una vita da attore allo scatafascio, attorniato dai fan maniaci,ma insoddisfatto professionalmente. Bruce finisce per un caso in un paesino di provincia dove un demone cinese ha infestato la città uccidendo gli abitanti. Un fan di Bruce lo crede un eroe e lo convince ad affrontare la minaccia. Comicità di grana grossa quella di My Name is Bruce. QUasi tutte le scene sono riprese da "classici" del regista, soprattutto dalla trilogia di Evil Dead, e la stessa trama del film è nient'altro che un remake de L'Armata delle Tenebre, con tanto di scenette scopiazzate bellamente al film di Raimi. L'operazione è a bassissimo budget quindi il risultato è prevedibilissimo. Bruce dirige imitando l'amico Raimi ma decisamente svogliato. Sicuramente per i fan di Campbell è una visione piacevole ed a tratti si ride di gusto, grazie alle innate capacità mimiche dell'attore. A silly movie.
di Gianluigi Perrone

KNIFE EDGE di Anthony Hickox (2008)

La carriera di Anthony Hickox è andata progressivamente sgretolandosi dopo un periodo in cui si credeva fosse una promessa dell'horror. Dopo essersi messo a fare filmacci action era deciso a tornare al suo vecchio amore ma in maniera più matura. Conferma ne è questo Knife Edge, brutto titolo di un film degno del suo nome. Hickox intende girarlo come un classico hitchcockiano,ispirandosi anche al classico di Cukor Angoscia. Ambienta il film in una villa, con la classica famiglia felice che comincia a sfaldarsi,aggiungendo all'intrigo a sopresa elementi lisergico-sovrannaturali.Sicurametne la regia di Hickox è visibile ed importante,riportando le caratteristiche che negli '80 lo resero famoso, ma quello che manca decisamente è una storia forte su cui poggiarsi. Assolutamente risibile, il plot fa continuamente acqua, con forzature al limite del clamoroso, non ultimo il finale più abusato mai visto. In più il budget basso limita fortemente l'immagine del film, che è assolutamente fuori tempo con un aspetto che rimanda a 20 anni fa. Se ci mettiamo anche un gruppo di attori pessimi, compreso una ragazzino completamente allo sbando, la frittata è fatta.

di Gianluigi Perrone

THE HUNGER di Steve McQueen (2008)

Film di denuncia sulle torture subite dai prigionieri dell'IRA. Negli Hunger Strikes della Maze Prison in Irlanda del Nord morirono 9 prigionieri per denutrizione nei giro di pochi mesi. Uno di questi era Bobby Sand. L'omonimo del grande attore Steve Mc Quen punta tutto sul dolore. Merda,sangue,tortura sono i punti di forza del film ma non si disdegna una regia raffinata. Come in Fuga di Mezzanotte la cattività è ai livelli di una tortura fisica e psicologica, dove la mente dei prigionieri veniva vessata dalla mortificazione più profonda. Il film colpisce soprattutto per il fatto di essere una storia vera perchè è difficile rimanere indifferenti a ciò che le forze dell'ordine inglesi fecero contro i terroristi. Questi ultimi protagonisti tutti allo stesso modo, uniti da un ideale, esprimono la propria convizione nell'unico dialogo del film che prova la loro implacabile dedizione alla causa, fino alla morte.

di Gianluigi Perrone

THE ALPHABET KILLER di Rob Schmidt (2008)

Tutti al riparo! Eliza Dushku si è messa a produrre film! L'attrice nota per aver interpretato l'antagonista di Sarah Michelle Gellar, Faith, era talmente entusiasta del successo di Wrong Turn da assoldare il regista Rob Schmidt per un horror completamente diverso.Da brava produttrice megalomane ci si mette lei stessa nel film facendo lo sbaglio numero uno ovvero pretendendo di essere la protagonista assoluta. E' chiaro che The Alphabel killer si ispira a Zodiac, ispirandosi agli omidici ci un serial killer mai catturato che uccideva giovani ragazzine, ma si pecca troppo nella costruzione della sceneggiatura. Tra l'insicurezza se vare un serial killer thriller classico oppure un prodotto più autoriale, con il risultato finale non avvine letteralmente nulla di rilevante. Durante il film si presta attenzione solo alle indagini della protagonista, decisamente troppo sopra le righe e solo nel finale, seppur scontato, c'è un guizzo di personalità. La Dushku vuole stare davanti la macchina da presa il più possibile e rovina tutto con scene al limite del ridicolo,colpa Una intepretazione pessima e quasi fastidiosa. Peccato perchè il cast è notevole. Timothy Hutton,Michael Ironside, Bill Moseley,Cary Elwes sono tra le faccie che si prestano alla farsa che Schmidt non pare sapere prendere per le redini. Una occasione sprecata produttivamente, anche perchè con script del genere non si va da nessuna parte.

di Gianluigi Perrone

NIGHTMARE DETECTIVE 2 di Shin'ya Tsukamoto (2008)

Dopo il primo Nightmare Detective, Tsukamoto rimane sulla stessa linea concettuale per il sequel, senza per forza rimanere legato al tema del primo film. Mentre nel primo si trattava di una storia classica mistery che celava un sottotesto fortissimo e cinico sul contetto di suicidio, in questo caso il detective che vede nei sogni della gente si trova ad avere a che fare direttamente con il concetto di paura. La maniera con cui lo fa è beffarda, quasi volesse comunicare con il pubblico o con i produttori o in generale con il cinema e le sue forzature di genere. Affascinante la maledizione che rincorre un personaggio il quale è vessato da una strana panfobia. Infatti ha paura di qualsiasi cosa. Una situazione grottesca che Tsukamoto usa per mostrare come qualsiasi situazione ed immagine possa essere artificialmente resa spaventosa. In questo modo Tsukamoto fa un viaggio a ritroso nella psiche andando a rintracciare nell'infanzia del protagonista, in questo caso campione del pubblico, i segreti del senso della paura. In questo modo Tsukamoto crea l'horror per antonomasia, agghiacciante e universale ma anche riflessione metacinematografica di se stesso. Ormai Tsukamoto non ha limiti.

di Gianluigi Perrone

LOS BASTARDOS di Amat Escalante (2008)

Difficile parlare della trama di Los Bastardos senza rischiare di rivelare porzioni importanti della storia che rovinerebbero più di una sorpresa. Meglioanalizzare la cifra stilistica con cui il regista Amat Escalante sorprende il pubblico senza spettacolarizzazioni. Basti sapere che il film tratta di due lavoratori clandestini oppressi dalla miseria quotidiana e della decisione di avere una rivalsa sociale.
Escalante riempie gli ambienti con lunghi piani sequenza, a volte apparentemente inutili ma incredibilmente pregni di significato. Con poche immagini Escalante spiega un disagio sociale, l'incomunicabilità, la disperazione, attraverso gesti quotidiani. Nell'apparente normalità degli eventi si chiede allo spettatore di attendere pazientemente per entrare in un delirio che ricorda molto il primo Hanneke. E' proprio questa strategia della quiete, sincopata e statica che permette di shockare e traumatizzare lo spettatore improvvisamente, sconvolto dalla violenza che esplode repentina. Un piccolo film costruito sull'attesa e sulle sensazioni che non lascia speranze alcune, che si mostra fatalista e spietato, che tiene con il fiato sospeso.

di Gianluigi Perrone

MARTYRS di Pascal Laugier (2008)

Dopo Saint Ange, che comunque era stato venduto in tutto il mondo, Pascal Laugier pensa bene di allinearsi con le produzioni horror francesi come Alta Tensione, A L'Interieur e Frontiere(s), spingendo sul pedale della violenza senza taboo. La cosa che salta subito all'occhio dopo la visione di Martyrs è che si tratti di un film "macedonia" ovvero un miscuglio di diversi stereotipi di horror moderno. La storia brevemente riguarda due ragazze che hanno vissuto una prigionia sotto tortura per una qualche motivo che è poi il twist del film. In maniera un po' confusa una di esse, insieme all'amica, va a farsi giustizia da chi l'ha tenuta prigioniera. Se cerchiamo di capire di che film si tratta da questa descrizione rimarremo fuori strada. Perchè Martyrs non ha affatto una narrazione lineare ma si divide in tronchi ben divisi che vogliono catturare diversi tipi di pubblico. Allora dopo un attacco alla famiglia media del tipo Funny Games il film diventa una specie di j-horror con le visioni di questa ragazza scarificata che ricorda una versione occidentale delle varie Sadako. Sembra che il film si ponga come un horror sovrannaturale con elementi gore sul tema del rimorso, però c'è una ulteriore svolta narrativa. In film cerca di insediarsi nei territori di Hostel, con una organizzazione dedita per alcuni motivi alla tortura, ed un sentore quasi shyamalaniano del "tutto avviene per un motivo". Alla fine la tortura avviene e dura una buona mezz'ora di film, che diventa insostenibile non tanto per la natura delle torture nè per il loro fine che comunque è affascinante, ma per la sistematica durata delle stesse. Tra pugni e alimentazione forzata, una ragazza viene torturata fino all'estasi. Il film quindi diventa duro proprio per questa sua estenuante persistenza. Gutta cavat lapidem si potrebbe dire. E a lungo andare non si riesce ad essere indifferenti anche se, alla fine, è tutto un espediente. Metteteci anche che il film cita copiosamente Argento, a cui il film è dedicato, e vi trovate davanti ad uno strano ibrido, ben girato e di sicuro effetto ma indeciso su cosa vuole essere.

di Gianluigi Perrone

ROVDYR di Patrik Syversen (2008)

Horror dalla norvegia ben girato che soffre di qualche banalità di sceneggiatura. Rovdyr (o Backwoods o Manhunt) aveva incuriosito per un trailer che lasciava presagire efferatezze incredibili. In effetti gli effetti speciali sono copiosi e ben fatti, ed ad una prima occhiata il film è violento e girano in maniera moderna. Purtroppo i personaggi sono un po' tagliati con l'accetta (in senso metaforico) e la storia si sfilaccia facilmente. Il film dovrebbe svolgersi nel '74. Un gruppo di ragazzi va a fare la solita scampagnata nei boschi e trova gli zotici che giocano a dare la caccia alla gente. Tutto qui. Patrik Syversen si concentra sulla regia e sulla resa fotografica che, per una volta, è davvero notevole. Potenzialmente il film poteva essere un hit perfetto ed è un peccato che si rovini con dei tempi morti che non hanno senso di esistere. Sicuramente la presenza di una popputa protagonista rende piacevole la visione per uno slasher senza troppe pretese quale vuole essere Rovdyr.

di Gianluigi Perrone

Monday, May 26, 2008

Wrong turn 2: dead end di Joe Lynch (2007) (Recensione redux)

Un nuovo reality chiamato “Apocalisse” comincia le sue riprese all’interno dello stesso bosco del precedente film. Il campionario di umanità presente tra i concorrenti è variegato: c’è l’ex giocatore di football con un infortunio permanente, l’aspirante starlette in cerca di successo, la maniaca vegetariana, l’ immancabile idiota e persino la produttrice del programma improvvisatasi giocatrice. Tutti l’uni contro l’altro per vincere centomila dollari. Nessuno conta però l’arrivo di una famelica famiglia di cannibali mutanti.

Di "Wong turn 2" ne avevo parlato abbondantemente nel Cangaceiro quasi un anno fa, ma parallelamente all'uscita dvd ho deciso di riguardarlo e, come raramente accade, mi sono sentito in obbligo di riscrivere da capo una recensione: vuoi perchè il film a dirla tutta questa volta mi era piaciuto, vuoi perchè non avevo più pretese nel guardarlo come la prima volta. Perciò ecco la seconda recensione che chiamerò Redux come il capolavoro di Coppola. Molti punti sono rimasti gli stessi, altri cambiati nettamente. Ma come diceva Gaspar Noè "Il tempo distrugge tutto". O solo lo modifica?


“Wrong turn 2” possiamo dirlo senza problemi: non vale il primo tesissimo capitolo. Per inciso il film è una cazzata, ma di quelle cazzate che fanno bene al cuore, meno compatto narrativamente, più rozzo nel delineare i personaggi, ma anche zozzo nelle scene di sesso, violentissimo in quelle di sangue, praticamente un fumetto per ragazzacci. Il regista Joe Lynch è davvero molto bravo: virtuoso con la mdp, attento al ritmo forsennato e coraggioso nel proporre integralmente situazioni che il buon senso censorio avrebbe facilmente eliminato (prima fra tutte la scena dove due fidanzatini mutanti scopano violentemente contro un albero e la femmina indossa la faccia strappata di una vittima appena scuoiata).




Un posto d’onore nel nutrito cast alla splendida Erica Leerhsen e al pazzo Henry Rollins (un uomo un mito). Bisogna dire però che il tema dei reality è stra-abusato e molte idee di sceneggiatura ricordano non poco il film per eccellenza del genere: Blair witch project. Non è da escludere quindi che la presenza della Leerhsen sia di risosso alla sua presenza nel fallimentare “Blair witch 2”. Meno male che il film riesce comunque a sviluppare una propria dimensione abbastanza originale che esula dal modello al quale si ispira. Il film come già detto è una bomba di ritmo: dall’incipit con l’attricetta squartata in due alla divertente vendetta di Rollins in versione Rambo incazzato.



Il primo “Wrong turn” aveva dalla sua una certa autorialità che lo innalzava dai vari cloni di “Non aprite quella porta”: d’altronde il regista Rob Schmidt è una delle più importanti firme del cinema underground hollywoodiano con uno splendido “Delitto più castigo a Suburbia” a spiccare nella sua filmografia. Il secondo capitolo, più frivolo e spensierato, ma anche più crudele e violento, potrebbe piacere però anche più del prototipo al pubblico: questo perché in virtù della sua anima prettamente di intrattenimento senza pretese. Ad avercene però di seguiti così.

di Andrea Lanza

Out for blood di Richard Brandes (2004)


Un poliziotto alcolizzato è in crisi dopo il divorzio dalla moglie scrittrice di best seller horror: la segue, la pedina, scopre che ha nuovo amore. Il suo capo per distrarlo gli affida un nuovo caso: ritrovare una ragazza scomparsa. Niente di peggio perché lo sfortunato detective entrerà in un giro di vampiri assetati di sangue.

Finalmente un buon B movie: onesto, senza pretese, girato con la libertà che permette un low budget. Fanculo il cinema mainstream per una volta, fanculo le facce carine alla Orlando Bloom messe solo per prendere una o due spettatrici in più. Qui si fa sul serio: sangue a go gò, nudi frontali, combattimenti all’arma bianca tra umani e non morti. “Out for blood” non è un capolavoro, forse neanche un film che entrerà mai nella storia del cinema horror e non, ma è maledettamente divertente. Non tanto per quello che dice, ma per il brio con cui lo dice. La trama è in fondo sempre la solita del genere vampirico, anche se è interessante come contamini i generi (dal noir all’horror puro) e come citi autori più importanti (Carpenter e il suo “Il seme della follia” su tutti). Gli attori sono perfetti nel ruolo richiesto, da Lance Heriksen a Kevin Dillon. Spicca poi per curiosità la presenza di Jody Lin O’Keefe nei panni di una spietata vampira, soprattutto perché l’attrice è conosciuta per essere l’aguzzina spietata della terza serie di “Prison break”. Come dire che la parte le calza a pennello. Il regista è conosciuto per avere scritto e prodotto alcuni devastanti “cult” di arti marziali con Cynthia Rothrock, robaccia che qualche anno fa faceva la felicità del palinsesto di Italia 1. Meno male che qui se la cava decisamente meglio: il suo tocco è ispirato, non banale e gira due o tre scene di grande impatto visivo. Ottimo il make up del veterano John Bluechler che rinuncia completamente al digitale per il lattice. Wow e mega applauso aggiungerei: di horror in computer grafica ne avevamo fin sopra i capelli. Da dimenticare però le tantissime e stupidissime battute ad effetto e una chiusa abbastanza inconcludente. Però credo non ci sia da lamentarsi. Vi consiglio di cercare questa perla sotterranea.


di Andrea Lanza

Sunday, May 25, 2008

City of the dead di Duane Stinnett (2006)



La caduta di una meteora sulla terra coincide con la trasformazione di un gruppo di barboni, esaltati religiosi, in zombie divoratori di carne umana. Destino vuole che in quello stesso luogo si siano dati appuntamento due gang di spacciatori rivali. A complicare tutto l’arrivo di una pattuglia di poliziotti alle loro calcagna.


“City of the dead” è un film come tanti, senza infamia e senza lode, che non dice niente di nuovo nel genere dei morti viventi. Gli attori, banali quanto basta, sono pura tappezzeria, buoni soltanto come oggetto di sanguinosa macelleria. La regia non regala nessun momento d’emozione o di virtuosismo, segno indelebile di un film nato castratamente senz’anima. Unica nota interessante l’idea di unire il genere action con il classico “La notte dei morti viventi”. In un’ora e mezza non ci vengono risparmiati i soliti luoghi comuni del genere con persone rifugiate in un luogo chiuso o con i loro stessi cari contaminati dal morbo e stupidamente lasciati vivi. Il film ha un sottofondo alla John Carpenter che se fosse stato sviluppato meglio avrebbe giovato alla vicenda. Nel cast in una piccola parte Reggie Bannister, icona del cinema horror per avere interpretato la tetralogia di “Phantasm”. Gli effetti speciali sono davvero poca cosa e anche il make up degli zombi arriva appena alla sufficienza. Come si dice in questi casi: niente di nuovo sotto il sole. Se non avete niente di meglio da guardare una visione magari la merita, ma in caso contrario tenete pure i vostri soldi per altro, che so una pizza o una puttana.

NB In originale il titolo è “Last Rites” e come tale è chiamato anche nei credits della nostra edizione in dvd. “City of the dead”, dal titolo fulciano, è presente solo nella cover del dvd. Lo si conosce anche per il titolo alternativo: “Gangs of the dead”.





di Andrea Lanza

Saturday, May 24, 2008

Dark Corners di Ray Gower (2007)


Karen è una giovane donna, felicemente sposata, ma con il sogno purtroppo irrisolto di avere un figlio. Di notte la ragazza diventa nei suoi incubi Susan, infelice creatura di un mondo incolore, perseguitata vittima di un pericoloso psicopatico chiamato il “Cacciatore della notte”. Sogno e realtà si confonderanno…

Strano film questo “Dark Corners”: irrisolto, a tratti noioso, caotico quando cerca di essere lynchiano. Eppure non me la sentirei di bocciarlo in toto: il film possiede invero un fascino morboso, quasi viscerale, capace di creare un mondo di grande disagio e angoscia come raramente se ne sono visti. Tutto questo scendendo naturalmente a patti con una sceneggiatura non propriamente appagante.
Ray Gower però alla sua prima regia è il punto forte del film: dotato di un talento visivo notevole è lui l’ancora di salvezza di un film sicuramente disastroso nelle mani di autori ben più modesti. Per questo la prossima volta gli consigliamo di rivolgersi ad uno sceneggiatore ben più dotato di lui stesso: si eviterebbero sicuramente pasticciacci non solo buoni a livello visivo. Il reparto attori è comunque buono con in primis una fulgida e sensuale Thora Birch nei panni della protagonista dalla doppia personalità che non può non ricordare le donne di Hitchcock e De Palma. Il resto del cast è formato da facce abbastanza anonime ma efficaci per il proprio ruolo. Non guasta poi all’interesse della vicenda qualche dose di sano splatter e di bizzarrie all’apparenza senza senso (i morti che risorgono, le chiavi vomitate, gli aborti alla presenza di sette oscure). Ottima la fotografia che gioca molto con i contrasti tra reale (ambienti molto illuminati quasi da soap opera) e sogno (un buio quasi sempre presente in scenari alla “Seven”). In definitiva “Dark Corners” è un film che, pur con i suoi difetti, potrebbe diventare un cult del genere in virtù proprio della sua ermeticità.


di Andrea Lanza