Wednesday, June 25, 2008

Betrayed di Valerie Landsburg (2005)






Ma chissà chi è quel demente che ha avuto l’idea di produrre questo “Betrayed”? Già dalla copertina plagiata senza nessuna remora da “Basic Istinct” la puzza di bruciato è forte, ma poi, man mano che il film va avanti, i nostri dubbi sia un clone del film di Verhoeven con la Stone e Douglas vengono confermati con potenza sovrumana. Ma non solo non è un banale plagio, è un brutto plagio, qualcosa di tanto deprimente da farti sentire scemo. Star dell’opera non per niente il Baldwin non famoso Stephen e l’ex Buffy l’amazzavampiri che nessuno si ricorda, Kristy Swanson. La serie B della serie B. La storia poi non aiuta a tenere viva l’attenzione con situazioni viste e riviste meglio cento volte prima: c’è il solito assassino che potrebbe essere chiunque e la bella in pericolo che viene aiutata da un poliziotto in crisi matrimoniale che con lei inizia un torbido rapporto di sesso. Oddio torbido… I nudi sono pochi, ma la cosa bizzarra è che Baldwin scelga quella mummia della Swanson e non pensi minimamente ad intortarsi una molto più succosa e piacente moglie. Mah, misteri della fede! Poi tanto per fare un po’ di casino nella storia vengono infilati due personaggi gay delineati con la delicatezza di “Pierino medico della Saub”, vero tocco di sensibilità registica. La regia ecco… Una telecamera messa fissa nei posti più disparati che ogni tanto si anima o fa sfumare le scene in rallenti improvvisi e senza senso. Il finale è qualcosa di indefinibile poi: da vederlo senza poterci credere. Pozzetto urlerebbe “L’autore! Vogliamo l’autore!”, ma è meglio questa donna regista stia bene nascosta per evitare facili linciaggi. Brutto? Di più di più. Io vi ho avvertito: rinoleggiatevi “Basic Istinct” piuttosto se volete vedervi un bel thriller erotico, non questa cosa immonda e insulsa da miserrimo cinema del terzo mondo.

di Andrea Lanza






NB Confrontate la copertina di questo film con questa di Basic Instict. Allucinante plagio!
















Sunday, June 22, 2008

GATOR BAIT di Beverly & Ferd Sebastian (1974)

Si potrebbe liberamente considerare una versione al femminile di Chato questo Gator Bait, aggiornato e spostato dal west alle paludi della Louisiana. Il concetto di "non svegliare il can che dorme" soprattutto se è nel suo territorio è più o meno lo stesso, anche se in chiave più scansonata. Desiree è la caldissima Claudia Jennings,copertina dell'anno su Playboy, una skinner che vive in una palude delle pelli degli alligatori che pesca. E' selvaggia ma questo le conferisce ancora più fascino e sensualità. Due balordi in cerca di grane cercano di acciuffarla per appagare i propri istinti sessuali ma Desiree è molto più dura di quanto possa sembrare. Uno dei due balordi spara per errore all'amico e incolpa Desiree. La comunità si muove contro la donna che dà scacco a tutti. Divertente la rappresentazione della gente che vive in prossimità della palude. Dei redneck senza speranza. Uno di loro cerca di violentare la sorella ed il padre di famiglia lo punisce con la frusta manco fosse un asino. Grazie a questi simpatici personaggi il film può essere annoverato nel sottogenere hicksploitation, ovvero i film con gli zoticoni campagnoli ingoranti come capre. Il film è una specie di rape & revenge in cui la violenza non viene mai consumata ma sfocia in un omicidio gratuito ai danni della sorella. Il film è diretto in economia da Ferd e Beverly Sebastian ma bisogna ammettere che, saranno le suggestive paludi, ma il film ha un bel panorama e anche delle riprese niente male. Tutto si gioca sulle stupide idee dei villici e la scaltrezza della protagonista. Il film punta molto sula componente sessuale con una serie di bellezze in vestito "alla Daisy Duke" che spesso non lesinano nel farsi vedere nude. A volte ci sono dei tempi morti o lungaggini ma se preso per quello che è Gator Bait è un prodotto veramente divertente. Forse poco propenso alla violenza ma comunque funzionante. Il film ha anche un seguito,Gator Bait 2 - Cajun Justice, arrivato anni dopo quando il film forse era vagamente diventato un cult da cassetta e Betty Flammng al posto di Claudia Jennings, morta di incidente stradale nel '79 dopo aver partecipato a Fast Company di Cronenberg.

di Gianluigi Perrone

AD OCCHI APERTI Wide Awake di M Night Shyamalan(1998)


E' quasi fondamentale vedere questo primo film ufficiale di M Night Shyamalan per codificare la sua poetica ed il suo stile. Infatti il film contiene già in sè tutti i temi cari all'autore, visti in chiave più giovanilistica. Il film, è fortamente autobiografico ed è chiaro che il piccolo Joshua, seppur non di origine indiana, ha avuto lo stesso iter del piccolo Manoj. Così ha dei genitori medici, fa la scuoal cattolica e si pone un sacco di domande spirituali. Alla morte dell'amato nonno si interroga sull'esistenza di Dio e cerca tutto l'anno le risposte a questo dilemma. E' evidente come il film ,anche se appartenente ad un innocuo genere per famiglie, mostri come il tema della perdita della fede e del riconoscimento della realtà, fossero presenti da sempre nella poetica di Shyamalan. Anche il rapporto con i genitori, limpido ma spesso distaccato, mostra un certo problema di comunicazione che qui non viene risolto ma che pone le radici per temi affrontati in futuro. Tecnicamente, nonostante una fotografia evidentemente povera e televisiva, il linguaggio è simile a quello che verrà usato in futuro, anche se più è più castigato. In particolare con il successivo Il Sesto Senso si possono riconoscere numerose idee che qui sono in embrione. L'uso (forse anche invasivo) delle musiche, i numerosi carrelli e zoom sono idee che verrano trasposte nei prossimi film. Qui non vi è affatto la tensione, nonostante Shyamalan non manchi di inserire un momento drammatico dai connotati pur forti se si tiene conto del tipo di film di cui si tratta. Incredibile ma vero, già qui c'è il finale a sorpresa che poi diventerà quasi un marchio di fabbrica del regista per la prima parte della sua carriera. Una maniera semplice per realizzare dei finali forti. Un film sciocco e senza pretese ma molto interessante per lo studio del cinema di Shyamalan e nel suo genere diverse spanne sopra la media.

di Gianluigi Perrone

THE VILLAGE di M Night Shyamalan (2004)

Se guardiamo i trailer promozionali di The Village (inizialmente The Woods, poi cambiato per omonimia con il film di Lucky McKee) ci rendiamo conto del fatto che si volesse vendere il film allo spettatore come un horror oscuro. Da qui forse il disappunto di alcuni nei confronti di un film che ancora una volta è una svolta nella carriera di Manoj Shyamalan. In The Village Shyamalan prende ulteriore coscienza delle sue capacità e soista il suo lavoro certosino verso una poetica chiara ed umanistica, che trascende notevolmente dalla trilogia sovrannaturale prodotta in passato. Il villaggio in mezzo ai boschi assediato dalle creature innominabili è chiara metafora dello stato di terrore in cui vive l'America e l'Occidente intero, prostrato nell'immobilità da una paura indotta e menzognera, come quella degli anziani del Villaggio. Che vi sia buona fede nelle loro azioni non giustifica il mezzo usato, da Don Abbondio, da deboli e in un certo qual senso inutile perchè il dolore è ovunque e la natura umana maligna è ovunque. Non a caso il fautore di tale presa di coscienza è Noah (Adrien Brody), lo scemo del villaggio, che è una grottesca metafora del ridicolo proposito degli anziani. Con innumerevoli finezze registiche e prove di stile, Shyamalan racconta della cecità di chi ha perso le speranze verso il mondo contro la paradossale capacità di vedere e capire di Ivy ( Bryce Dallas Howard), cieca sul serio ma consapevole per amore di ciò che è giusto fare. Ancora l'incomunicabilità è uno dei temi amati dal regista. L'incapacità di esprimere il proprio sentimento, le proprie passioni sopite come il rosso che diventa il colore proibito che attira i mostri. E' l'amore che vince contro la rassegnazione, contro la perdita della speranza. Il Villaggio va verso la consapevolezza di aver sbagliato ,il mondo fuori è ancora immerso nel male.

di Gianluigi Perrone

UNBREAKABLE di M Night Shyamalan (2000)

Non il manifesto ma forse il più bel film di Shyamalan. Il passo da gigante fatto rispetto al bello seppur manieristico Il Sesto Senso è evidente. Shyamalan interpreta il mito ed i topoi dei fumetti supereroistici in maniera umana e naturale. La storia di David Dunn (Bruce Willis) che a poco a poco comincia a scoprire di avere dei superpoteri dopo essere sopravvissuto ad una catastrofe ferroviaria ha del tangibile e trascende dalla pomposità clamorosa usata normalmente nei cinecomics. E' tutto riferito alla emotività umana e alla situazione familiare di Dunn. Il dramma dell'allontanamento dalla moglie, il rimorso per decisioni prese per amore, ancora l'incomunicabilità è vista con gli occhi pieni di speranza del figlio, la cui capacità di credere e vedere è uno dei punti cardine della poetica del regista. Sicuramente il vero protagonista del film è Elijah Price (Samuel Jackson in una delle sue migliori interpretazioni),l'uomo di vetro, il cui dolore continuo e perenne lo ha reso amaro verso la vita che solo i fumetti hanno salvato ma lo hanno portato ad astrarsi dalla realtà. Price è la superevoluzione del nerd con delle ragioni umane, un villain il cui decadimento emotivo ha delle ragioni superiori, la cui esistenza è un riflesso di se stessa, come viene continuamente sottolineato stilisticamente. Mai come in questo film il dualismo tra i protagonisti è alla base degli eventi. Le qualità che danno senso all'esistenza sono speculari e per entrambi c'è un senso a tutto ciò che avviene.
di Gianluigi Perrone

SIGNS di M Night Shyamalan (2002)

Il progetto di Signs sembra nascere subito come produttivamente ambizioso, con Shyamalan riportato nei territori della suspance tout court con il Sesto Senso ancora alle spalle. Shyamalan scrive la sceneggiatura pensando ai classici che amava sin da piccolo, ovvero Uccelli di Hitchcock, L'Invasione Degli Ultracorpi di Don Siegel e La Notte dei Morti Viventi di George Romero. Nonostante sia quest'ultimo il film esplicitamente citato in una scena in cantina, gli altri due film hanno uguale peso, visto che in Signs si ricrea una situazione di panico circoscritta ad una famiglia mentre il mondo è invaso dagli alieni. L'esperiente per catturare l'audience è quello dei cerchi nel grano ma in realtà è solo un elemento marginale visto che Shyamalan incentra la storia su un pastore che ricerca la fede e la comunicazione con la propria famiglia. Come spesso avviene nei film di Shyamalan, un fatto traumatico, un lutto, trasforma l'universo di un individuo come un evento sovrannaturale potrebbe fare con il mondo reale. Mel Gibson viene scelto come protagonista e non a caso visto che l'attore è notoriamente un uomo di fede ed ha la possibilità di immedesimarsi con il personaggio. In questo film più che mai Shyamalan si prodiga a mettere in scena immagini cristologiche, come la toccante scena dell'ultima cena o la Pietà rappresentata dal piccolo Kieran Kulkin nella parte finale del film. Come nei precedenti film ritorna la predestinazione dei personaggi, le cui caratteristiche,anche se insignificanti, sono il mezzo per accedere ad un disegno più ampio. Un messaggio che ancora una volta sottolinea l'aspetto spirituale del cinema del regista.

di Gianluigi Perrone

LADY IN THE WATER di M Night Shyamalan (2006)

Per comprendere perchè Lady In The Water sia il prodotto migliore e in certi casi definitivo di Shyamalan è il caso di partire dalla sua produzione. Per alcuni il limite dell'autore era di essere costretto sempre tra le i dettami del genere che ne imbrigliavano la capacità espressive. Dopo The Village, che già mostrava notevoli intenzioni autoriali che si discostassero dal passato, Shyamalan decide di compiere una operazione metacinematografica che ponga se stesso come narratore al centro di una vicenda in cui è la narrazione il fine ultimo della stessa e che renda il messaggio esplicito nella stessa storia del film. Shyamalan parte da una favola che racconta ai propri bambini e la mabienta in un condominio dove una serie di vite si intrecciano e vengono catturate dall'avvento di una donna che compare dalla piscina, un narf come la definisce una leggenda koreana, con il nome di Story. E' proprio La Storia a fa muovere i personaggi i cui ruoli non sono immediatamente chiari ma prendono il loro senso una volta che chi è capace di vedere (non a caso un bambino) da la giusta interpretazione della realtà. Il fatto che i personaggi credano ciecamente ad un evento inverosimile non è una forzatura ma contiene lo stesso significato nel film. Quando l'uomo non è più capace di ascoltare delle storie ecco che la storia si mette in moto per esistere. Ancora ritorna il tema della predestinazione e come si vede ogni personaggio ha un suo ruolo e quello che Shyamalan si affida, lo scrittore che cambierà le cose, è emblematico, non fosse altro perchè ben più consistente che negli altri film. L'autore esprime al massimo le sue capacità stilistico-simboliche, parla apertamente con il linguaggio della camera da presa e riempie di emotività i personaggi. Paul Giamatti in questo caso è gigantesco, nonostante sia un sostitutto di Phillip Seymour Hoffman, e conferisce un che di ironico nel suo personaggio comunque intensissimo. Ironicamente Shyamalan se la prende con una certa critica bacchettona che analizza i film senza comprendere che dietro di essi c'è un'anima e dei sentimenti. Forse banale ma assolutamente pertinente nell'economia di una storia come Lady in the Water. La Disney aveva cestinato la sceneggiatura e questa rottura aveva portato indipendenza a Shyamalan ma anche dide ragione a causa dello scarso successo del film. In realtà poi Shyamalan l'ha avuta vinta perchè è riuscito a realizzare una storia unica nel suo genere che tratta il tema del raccontare storie, oltre il cinema e la letteratura, ma proprio nel senso della comunciazione umana e della fantasia che chiede semplicemente di essere ascoltata e di abbandonarsi ad essa.

di Gianluigi Perrone

IL SESTO SENSO di M Night Shyamalan (The Sixth Sense) 1999

Vero e proprio miracolo cinematografico, Il Sesto Senso è il film che ha fatto riconoscere M Night Shyamalan come nuovo guru dell'horror moderno. In realtà quasi subito il regista si preoccuperà di puntare l'accento su altri aspetti della sua cinematografia, in modo tale da valorizzare maggiormente quest'opera che apparentemente era solamente un grande film horror. Al di là della costruzione sfociata nel twist finale, delle raccapriccianti immagini di morte che si presentano davanti al piccolo Joel Osment e di tutti gli espedienti che Shyamalan rubacchiava dal cinema asiatico di paura quando ancora non era esploso in occidente, l'elemento sorprendente de Il Sesto Senso è la incredibile armonia tra stile e contenuto che il regista riesce ad esprimere sottovoce, senza alcun sensazionalistico se non con virtuosismi cinematografici. Il giovane protagonista è sicuramente dotato ma è la maniera in cui viene diretto che ne amplifica le qualità, così come avviene per Bruce Willis, la cui scelta è un colpo di genio azzeccatissimo. Un classica storia di fantasmi viene trasformata nella più complessa parabola di incomunicabilità e disagio familiare. Il rapporto con il bambino e la madre, così come quello di WIllis e la moglie, sono due facce della medesima medaglia con la differenza che solo quello che non è completamente infranto si può ricostruire. Incredibile a dirsi ma con un budget decisamente basso per quello che sono i suoi standard, Shyamalan tira fuori un prodotto fortissimo, forse invecchiato prematuramente nell'economia spicciola della storia ma ancora validissimo per quanto riguarda il suo contenuto semantico.

di Gianluigi Perrone

Sunday, June 15, 2008

The call 3 di Manabu Asou (2007)

E con “The Call the final” siamo all’ultimo tassello della saga iniziata da Takashi Miike sui cellulari indemoniati, derivazione diretta del più famoso “Ringu” di Hideo Nakata. Diciamo subito che non ci siamo: questo terzo capitolo è il peggiore. Peccato perché l’idea di fondo non era male: usare la moda giovanile per gli sms come una sorta di virus che conduce alla morte. Chiudere un gruppo di studenti in un albergo come fossero polli in una gabbia e farli scannare l’un l’altro era tutt’altro che una brutta idea, quasi una sorta di Battle royal horror, ma ben presto la storia si perde nella solita vendetta di una ragazza sbeffeggiata. Come se già i vari Whispering corridors o gli horror perdenti di Ahn Byeong-ki (“Gawi”. “Bushinsaba”, “The phone”) non avessero esaurito a sufficienza l’argomento. Che noia! La regia è anonima come poche cose, la psicologia dei personaggi è calma piatta, la sceneggiatura arranca come un malato di asma in quell’unica idea cercando di trovare uno sbocco in scopiazzature di altre opere. Se il primo “The call” era sicuramente il migliore pur trattandosi di un Miike più commerciale (però scene come l’esorcismo in tv sono pugni allo stomaco per la violenza), il secondo dell’anonimo Renpei Tsukamoto evitava il disastro solo in virtù di un’ottima atmosfera e di alcuni colpi di scena, questo terzo è l’impatto finale verso il mediocre più assoluto. Per carità meglio di cose immonde come il pessimo remake “Chiamata senza risposta” di Eric Valette, qui almeno siamo ancora nel campo delle buone idee sfruttate male. Ma tantè…

di Andrea Lanza

Matamorphosis di Tim Cox (2005)

Ma che bella sorpresina: un b movie coi controfiocchi. Questo “Metamorphosis” sarà pure uno dei tanti film prodotti con lo stampino dalla famigerata Nu Image (“Crocodille” di Hooper ed eco vengeance vari), ma qui piuttosto che altrove la ricetta è meglio condita. Partiamo subito dal gustoso assunto: una ditta regala agli allevatori locali un nuovo tipo foraggio ottenendo una percentuale sulle bestie da macellare e venendo proclamati dal volgo come benefattori; peccato che questo prodotto generi anche delle larve parassite affamate di sangue. Originale no? Se poi aggiungiamo che le terribili bestiole dopo essersi rifugiate nello stomaco dei malcapitati ospiti ne escono in un tripudio splatter di petti e stomaci perforati come dei simil pipistrelli possiamo dire con tutta sicurezza che non è la solita minestra riscaldata. Effetti speciali in una computer grafica che non stona, attori sconosciuti, ma in forma, una sceneggiatura che arriva a non banalizzare il facilmente banalizzabile (l’umanità dello spietato villain è tocco aureo) e una regia forse non eccelsa, ma adatta ad un grande spettacolo casalingo. Che altro chiedere di più? E pensiamo che il suddetto film è nei cestoni dei supermercati a meno di sette euro tra i vari Decoteau e compagnia brutta: che ingiustizia! Certo non si può gridare al grande miracolo eppure nel suo piccolo “Metamorphosis” funziona da Dio come mero intrattenimento, molto di più di fratelli maggiori miracolati da un grande budget. Belle idee di un cinema che forse sempre più raramente viene prodotto, film fatti per le platee di massa, non elitari, eppure capaci di grandi picchi d’ala e di un’ottima confezione. Anche se dalla copertina con questo simil mostro dai denti a sciabola che mostra un occhio dalle fattezze di uno scheletro non ci saremmo aspettati nulla, ben lieti di essere stati smentiti. D’altronde un film diretto al mercato dvd che non ti fa sbadigliare né costringerti ad una visione accelerata con il fast foward è già di per se stesso un miracolo. Promosso.

di Andrea Lanza

Sunday, June 08, 2008

Prigione di vetro 2 di Steve Antin (2006)


In pochi si ricorderanno forse un thriller di qualche anno fa con protagonista la bella Diane Lane (ex signora Lambert) dal titolo “Prigione di vetro”. Niente di che a dire il vero: storia abbastanza trita con suspense ai livelli minimi. Questo secondo capitolo pur nascendo quindi con le premesse più disastrose, riesce comunque ad essere invece una bella sorpresa. La trama del precedente (ragazzi orfani nelle mani di spietati genitori adottivi) viene insaporita da un una buona regia, da un ritmo concitato e da trovate degne di note. Non ultima quella di mettere in primo piano una patologia medica che è causa sotterranea di alcuni casi di morte infantili: la sindrome di Munchausen con procura. Se non sapete cos’è preparatevi a tenere saldi i nervi: è quella malattia che spinge una madre a ferire, torturare e (a volte) uccidere il proprio figlio solo per sentirsi utili e apprezzate. Un crudele modo per essere elette di forza “amorevoli mamme dell’anno”. Di certo l’argomento non è nuovo, se ne è parlato al cinema in ottimi film come “Il sesto senso”, “Fragile” o “The Call”, ma “Prigione di vetro 2” riesce comunque a rendere originale il tema in una cornice da thriller claustrofobico al cardiopalma. Gli attori sono tutti bravi, solo Jason London nei panni di un poliziotto è francamente imbarazzante nel suo look stereotipato con occhiali neri perenni tanto anni 80. Un plauso all’ottima fotografia e ad una regia sapientemente brava ad orchestrare i tempi della paura. Il regista Steve Antin ha fatto poco o niente per il cinema, ma da questa prova lascia ben sperare in un roseo futuro. Per essere un film diretto al mercato dvd è opera davvero ben riuscita.


di Andrea Lanza

Monday, June 02, 2008

TEETH di Mitchell Lichtenstein (2007)

"Dentata!", grida il ginecologo quando scopre la peculiarità anatomica di Dawn, Jess Weixler, a discapito delle sue dita. La vagina con i denti è stata una fantasia tra le più gettonate tra gli uomini, forse per quell'ansia di castrazione di cui parlava Freud, forse perchè anche una mente poco fantasiosa associa una bocca, seppur verticale, ai rispettivi denti ed alle conseguenze del caso. Innumerevoli le rappresentazioni storiche e artistiche di questa caratteristica ed era prevedibile che prima o poi arrivasse anche al cinema popolare. Questo è infatti Teeth di Mitchell Lichtenstein che ha la leggerezza di una commedia con sottotesti sessuali neanche ormai troppo scabrosi visto quello a cui ci ha abituato la tv con serie come Nip/Tuck, che non a caso presta John Hensley al film. Per creare un po' di trama si immagina Dawn come una ragazza che crede fermamente nel valore della verginità, quindi non immediatamente capace di riconoscere la sua deformità (che si intuisce dovuta ad una fabbrica nucleare nella sua città). Insieme al sesso, Dawn scopre i dolori dello stesso. Troppo facile la metafora psuedo-femminista per cui l'emancipazione sessuale di Dawn va a pari passo con la scoperta della meschinità del maschio. Il film poggia un po' troppo sulla trovata iniziale e si sviluppa un po' disconnesso, soprattutto nell'ultima parte, quando la tagliola di Dawn si vendica un po' di tutti i maschi che trova davanti. Girato in maniera fresca e sicuramente conscio del suo potenziale, il film presentato al Sundance fa ben sperare per un autore che qui voleva forse dare il proprio caratteristico biglietto da visita.

di Gianluigi Perrone

SANGRE di Amat Escalante (2005)

Amat Escalante nasce spagnolo ma, naturalizzato cittadino di Città del Messico, qui giovanissimo realizza il suo esordio cinematografico. In Sangre Esclante delinea le caratteristiche del suo cinema, ovvero : l'essenzialità, la monotonia del quotidiano, la miseria dei corpi e l'apatia. Girato in economia con
attori non professionisti, Sangre segue la vita di un portiere che vive con la moglie un rapporto non brutto, perchè correlato da tutti i doveri matrimoniali compresa una visione del sesso molto impostata, quanto piuttosto macchinoso e ripetitivo. Il corpo sgonfio ed il suo sguardo perso nel vuoto sono lo specchio della sua esistenza, fatta di lunghi silenzi compiaciuti e alimentazione (anche mentale) pessima e popolare. Quando arriva la figlia con pretese di riordinamento degli equilibri qualcosa succede ma è la messa in scena minimale di Esclante che colpisce particolarmente. Infinitamente lunghi piani sequenza e tempi dilatati in una maniera asfissiante, con un effetto semplice e complesso alla stessa maniera. Un esordio interessante che dimostrerà la possibilità di crescere dell'autore nell'immediato futuro. Coccolato a Cannes nel 2005.

di Gianluigi Perrone