Tuesday, November 27, 2007

MARITI (HUSBANDS) di John Cassavetes (1970)

Stupendo film del clan di Cassavetes con gli amici Ben Gazzara e Peter Falk che interpretano sé stessi e probabilmente il rapporto che avevano con l'attore/autore. L'assunto è veramente stupendo. Tre amici (Gazzara,Falk e lo stesso Cassavetes) decidono di celebrare la morte prematura del loro quarto compagno di avventure scappando dalla vita. Senza dormire, cantano, bevono,delirano,litigano,piangono letteralmente vivono per tributo alla vita di uno di loro. Questa bravata li mette a confronto con le proprie vite, con le proprie famiglie e le restrizioni che ne derivano. Il matrimonio, nel cinema di Cassavetes, è sempre stato visto come la morte dell'amore, se non come una situazione burrascosa in divenire che sembre necessaria per la fruizione dell'amore e della passione ,fatta di grida, disperazione, risate a squarciagola e anche botte, nella ricerca di esprimere l'assoluta dedizione all'altro. Qui è il punto di vista dell'uomo, soprattutto di Gazzara, stufo di dover comportarsi da buon padre di famiglia che decide di mandare completamente la vita all'aria. Il film schiaccia lo spettatore grazie alla personalità dei tre interpreti, giganteschi, delle personalità incredibili, libere, smarty, attori che al giorno d'oggi non esistono più e che si muovono dominatori davanti alla macchina da presa che strettissima ruba ogni minimo singulto o movimento. Quando i tre decidono di andare a Londra senza un apparente motivo e qui cominciano dei siparietti divertentissimi in cui cacciano donne giusto per auto riflesso di sè.

di Gianluigi Perrone

MINNIE & MOSKOWITZ di John Cassavetes (1971)

Forse il Cassavetes per eccellenza, nato per divertimento insieme a Seymour Cassell e Gena Rowlands e diventato un classico assoluto. La storia d'amore delirante tra Minnie, esaurita ,pretestuosa e incapace di crearsi una relazione, e Seymour, uno sfaccendato hippie( che ha influenzato il personaggio de Il Grande Lebowski) che si innamora disperatamente della donna. Tutti i canoni del cinema di Cassavetes sono rappresentati da questi personaggi, pazzi ed incoscienti, dei bambini che giocano con i sentimenti senza preoccuparsi delle conseguenze a cui vanno incontro, una generazione folle e assolutamente libera che si confronta con il mondo con menefreghismo, senziente di sè stessa, egoista e debole, mai replicata. Capolavoro.

di Gianluigi Perrone

LA SERA DELLA PRIMA (OPENING NIGHT) di John Cassavetes (1977)

Atto d'amore di John Cassavetes al lavoro di attore e alla follia insita dei più grandi talenti di cinema e teatro, Opening Night è la riflessione del regista/attore sulla sfida di un individuo (in questo caso l'onnipresente Gena Rowlands) a confrontarsi con l'età matura. Dominata dall'attrice, la scena vede un personaggio tipicamente cassavetesiano, telluco, alcolizzato e viziato , l'attrice in là con gli anni Myrtle Gordon,che non riesce a raccapezzarsi con la sua esistenza ma dedica tutto a quello che vive sul palco. Contemporaneamente alla sua esistenza, perseguitata da una giovane fan morta nel tentativo di inseguirla, viviamo le scene della commedia che sta interpretando a teatro e la maniera con cui osa stravolgerla secondo i suoi capricci. Al di là del rimorso per la morte della ragazza Myrte ne invidia la giovane età ed il fatto che lei, ormai in avanti con gli anni, ha in qualche modo rubato il bene preziosissimo della giovane.

di Gianluigi Perrone

Thursday, November 22, 2007

LA ANTENA di Esteban Sapir (2007)

In una città un cinico e potente uomo d’affari tiene in scacco la popolazione avendo rubato loro le voci. Riescono ad esprimersi col labiale e formando nell’aria le parole, quelle si, ci sono ancora. Un uomo e la sua famiglia, dopo aver conosciuto un bambino senza occhi ma che ha ancora la voce, decidono di combattere il tiranno attraverso un’antenna posizionata appena fuori città. La voce del bambino senza occhi è la chiave e devono trasmetterla a tutti gli abitanti affinché possano recuperare la loro. Per osteggiare il piano dei protagonisti il ladro delle voci mette loro ai calcagni un uomo ratto e un manipolo di sicari. Il film è girato come un’opera dei primi del 900’ di stampo surrealista, molti scenari sono costruiti in carta pesta e i monti attorno all’antenna che da il titolo all’opera sono realizzati con semplici fogli di giornale (con tanto di foto e articoli che si intravedono). Abbiamo degli echi anche nei confronti dell’opera di Odilon Redon, in particolare nella sequenza in cui si vede la luna che sta fumando il sigaro. Gli abitanti senza voce fanno in modo che la recitazione sia in linea con quella dei film muti dando un contrasto tra alcuni aspetti futuristici e altri che si rifanno al passato, un po’ quello che si vede in Brazil, ma qui siamo su canoni totalmente differenti. La Antena di Esteban Sapir, regista Argentino il quale aveva un altro film all’attivo e un videoclip di Shakira, è una metafora in stile fabula del totalitarismo, la città in cui si svolge la vicenda è una qualsiasi città, o uno stato, è lo stesso, l’importante è la frase che ripete l’anziano tra i protagonisti “ci hanno rubato la voce ma non le parole”. Un metafora perfetta del popolo a cui viene impedito di esprimersi, di avere una voce, ma che deve sottomettersi in silenzio alla brutalità di un regime. In Argentina durante la dittatura di Peron la situazione non era certo floreale, moltissimi dissidenti rifugiarono infatti all’estero… Un film interessante e brioso con degli attori molto bravi nel dare l’idea del film muto, interessante il lavoro di scenografia, le musiche e la perfetta fotografia in un bianco e nero d’altri tempi. Un’ opera che vuole essere istruttiva e ci riesce con uno stile del tutto peculiare.

di Davide Casale

Wednesday, November 21, 2007

MECHENOSETS di Filipp Yankovsky (2006)


Terzo film del regista Yankovsky, questa sua opera è degna di attenzione, vanta una storia particolare girata con estrema eleganza e una poetica visiva strabiliante.Il protagonista è una sorta di supereroe nell’accezione negativa, ossia un essere dotato di un misterioso potere: una lama che gli spunta dal polso quando si infuria. Il “dono” gli ha portato solo disgrazie, fin da quando bambino ha ammazzato senza volere il padre mentre assisteva impaurito e furente al pestaggio della madre. Ogni persona di cui si innamora e ognuno che gli sta vicino finisce per scoprire il suo dono e l’orrore che Sasha (così si chiama il protagonista interpretato da Artyom Tkachenko) deve sopportare. Il film si focalizza sull’amore che prova il nostro Sasha per la bella Katya (Chulpan Khamatova), sentimento corrisposto che amplificherà la sua sofferenza quando, dopo aver assassinato sempre senza controllo l’ex amante di lei, si troverà braccato dalla polizia e in fuga col suo amore. Quello che si nota nel film fin da subito è una fotografia estremamente curata, un uso di colori caldi e avvolgenti e un montaggio che segue dei canoni musicali, che danno un ritmo alle sequenze, ci si accorge presto di ciò e ogni immagine diventa incantevole. Fotografia e musiche, e questo è importante, sono ben lontane da dare un effetto cosiddetto videoclipparo al tutto. La storia di per se non è affatto complicata e lascia spazio ad una recitazione fatta soprattutto di gesti e di sguardi che rendono Mechenosets a tratti teatrale. Vi sono momenti indimenticabili, come lo sfogo sugli scogli sul finale del film, i momenti di smarrimento che prova il protagonista di fronte alla sorte ingrata che il suo dono-maledizione gli procura in ogni istante della sua esistenza. Ma quella lama da dove proviene? Che spiegazione ha? Anche questo concetto surreale di una lama che spunta dal braccio contribuisce a rendere il film affascinante, partendo da un presupposto che ha dell’incredibile. Personalmente se avessi saputo in precedenza di un tale soggetto non avrei scommesso sull’esito del film, invece mi sarei sbagliato. Questo Mechenosets è davvero un film mirabile.

di Davide Casale

JADESOTURI di Antti-Jussi Annila (2006)

Jadesoturi è il primo film in cui la Cina incontra la Finlandia: gli sforzi produttivi sono congiunti (vi partecipa in parte anche Hong Kong) e si alternano attori Finlandesi e Cinesi. Si mescolano vicende tratte dalla mitologia Finlandese ambientate attualmente nel Paese nordico e vicende ambientate nella Cina antica. Vi sono quindi scene di arti marziali, per la precisione di kung-fu e molti effetti speciali che hanno il compito di esaltare la parte mitologica tratta dall’opera di leggende folcloristiche Finniche denominata “Kalevala”.Il regista, alla sua prima opera, mette in campo una storia che ha come protagonista un fabbro e un vaso da aprire solo in caso di estremo pericolo.. Per quanto l’operazione non abbia precendenti e sia pionieristica, manca di una struttura efficace, i cambi di ambientazione tra presente e passato e quindi tra Finlandia e Cina antica sono fin troppo repentini e contornati da effetti speciali purtroppo fine a se stessi. Una semi delusione anche per quanto riguarda le scene di lotta, coreografate in maniera approssimativa, si è visto di meglio in numerosissime altre opere più o meno recenti e di varia entità. Le carte in regola, per essere per lo meno un prodotto interessante, le aveva tutte, ma il regista non riesce a confezionare una storia interessante e più volte ci si annoia sebbene capiti di tutto durante i 110 minuti della durata. Il film per lo meno non è costato molto, anzi direi molto poco per un’operazione del genere, si parla di 2.700.000 euro circa.

di Davide Casale

CHRONOPOLIS di Piotr Kamler (1982)

Con questo panflet è stato presentata l’opera in questione al SciencePlusFiction Festival edizione 2007 di Trieste: “Non esistono prove sufficienti della non esistenza di Chronopolis. Anzi, i sogni e i manoscritti concorrono nell’affermare che la storia della città è una storia eterna e di desiderio. I suoi abitanti, ieratici e impassibili hanno come una occupazione e piacere quella di comporre il tempo. Nonostante la monotonia dell’immortalità, vivono nell’attesa; un evento importante deve prodursi nell’incontro tra un istante particolare e un essere umano. Ora, quest’atteso momento si sta preparando.”
Piotr Kamler è un regista polacco classe 1936; era in stretto rapporto con le avanguardie, soprattutto musicali, durante gli anni ’60. Di lui si dice essere più un artigiano che un artista, questo perché creava lui stesso in laboratorio scenari e oggetti che poi animava nei suoi lavori. I mondi particolari che metteva in mostra Kamler sosteneva esistessero veramente, erano solo in attesa di essere rappresentati. Questo lungometraggio di 82 minuti fu presentato fuori concorso a Cannes nel 1982 nella versione estesa di due ore circa. L’approccio a un’ opera di questo genere è particolare, va ovviamente introdotto e reso consapevole il pubblico di quello che sta per vedere. Il “comporre il tempo” di cui si parla nel panflet sono delle immagini in cui particolari figure architettate ad hoc per dare una continuità individuabile nell'infinito. I bizzarri abitanti di Chronopolis compongono il tempo liberando oggetti che vanno a incontrarsi e scontrarsi, che generano altri oggetti e che hanno come comune denominatore quello di mantenere una sorta di scansione della realtà, di cui nella città sono privi dato che il tempo non è ravvisabile in nulla. Con un approccio disinformato Chronopolis potrebbe essere tranquillamente usato come strumento di tortura, data la monotonia delle sequenze. L’immagine qui presente è tratta dalla copertina di un dvd che oltre a raccogliere questo lungometraggio contiene altre 9 opere, cortometraggi, firmati sempre dallo stesso artista.

di Davide Casale

ALMAZ BLACK BOX di Christian Johnston (2007)


“In 1998 a Russian Military Space Station received a powerful signal of unknown origin. Sixty-seven hours later the Station broke up in the Earth's atmosphere. The Russian Government initiated an extensive cover-up. They were unable to find the Station's Black Box and assumed it was destroyed on reentry. They were wrong. This year, the disturbing contents of the Black Box will be revealed.”

Presentato come film a sorpresa all’edizione 2007 del SciencePlusFiction festival di Trieste, in una sala mezza vuota con tanto di regista presente alla proiezione. L’opera è stata inserita tra i film a sorpresa, così ci han detto, quindi senza titolo, per i temi delicati di cui tratta, sarebbe del materiale sottratto per chissà quali vie all’intelligence Russa.. L’aura di mistero si è impadronita subito degli spettatori e il film viene spacciato come documento segreto. Nessuno dei presenti, immagino, si aspettasse da un momento all’altro un' irruzione di corpi speciali Russi con Putin in persona armato di sciabola, tanto meno il sottoscritto, il quale ancora col sapore del pranzo in bocca si apprestava divertito alla visione, anche se devo ammetterlo, piuttosto incuriosito. Il film è girato molto bene, chiaramente per la maggior parte in camera a mano, intervallato da riprese delle videocamere fisse posizionate nella navetta che registrano ogni cosa. Bisogna dire che il tutto è fatto egregiamente, la tensione sale ogni minuto che passa e il film scivola via che è un piacere, ci troviamo anche noi all’interno della navetta e la claustrofobia è palpabile. Non a caso vi è un approccio molto big brother, con gli astronauti che spesso confidano le loro paure e i loro timori alla camera fissa, collegata ovviamente alla scatola nera. Una miscela vincente presentata in maniera speculativa, anche perché il giovane regista, quando fu il momento di intavolare un dibattito post visione, se ne è scappato (proprio di corsa) con una scusa incomprensibile sul fatto che l’attore del film non doveva essere presente in sala o chissà cosa.. Non l'ha ben capito nemmeno la presentatrice, molto carina tra l'altro. La mossa commerciale mi è parsa più che evidente e quasi ingenua, forse il signor Johnston dovrebbe tenere presente che non tutti sono allocchi. Pseudo antipatie a parte, il film è ben realizzato, lo si inserisce, non occorre nemmeno dirlo, nel filone Blair Wich Project e lo consiglio vivamente (tanto in qualche modo tenteranno di venderlo).

di Davide Casale

Tuesday, November 20, 2007

THE 4th DIMENSION di Tom Mattera & David Mazzoni (2006)

Tom Mattera e David Mazzoni girano a due mani e con 75.000 $ circa questo lungometraggio che vanta una buona fotografia in uno sgranato bianco e nero per tre quarti circa del film. La vicenda vede il protagonista, dapprima bambino e poi adulto, alle prese con un concetto che lo ossessiona, ossia la rappresentazione di una quarta dimensione, la quale sfugge ai sensi ma non esistono prove sufficienti per decretarla inesistente. Per buona parte del film assistiamo il protagonista in strani esperimenti accompagnati da fobie e manie di persecuzione con continui deja vu nei confronti dell’opera di Darren Aronofsky Pi. Tra alti e bassi e una colonna sonora praticamente assente, oltre ad un’incisività di rumori di fondo piuttosto fastidiosa, arriviamo all’epilogo e il palco casca tutto, fino all’ultimo bullone della nostra impalcatura immaginaria si sfalda e prende pure fuoco. Tutta la pazienza che abbiamo avuto nell’ osservare, quasi affascinati (o annoiati?), i deliri del protagonista viene ripagata col divenire di The 4th Dimension una fotocopia di un film di successo di qualche anno prima. Gli ultimi minuti di questo lavoro sono un plagio del finale di quel gran film firmato Brad Anderson che è Session 9. Vi sono sequenze identiche, stesso intreccio e stesse identiche rivelazioni con tanto di scenari pressoché identici. C’è da rimanere davvero a bocca aperta. Inspiegabilmente pare abbia vinto anche dei premi quest’opera, mentre i due registi dovrebbero solo vergognarsi.Vedere per credere.


di Davide Casale

CHRYSALIS di Julien Leclercq (2007)


Dalla Francia arriva questo interessante film di fantascienza, opera prima di un giovane regista classe 1979 che tenta, parole sue, di creare una sorta di fusione tra Gattaca e Minority Report. Presentato in questo modo sembra che l’originalità non sia di casa, ma nei confronti dei film sopraccitati, soprattutto di quello con Tom Cruise tratto dal romanzo di Philip K. Dick, vi sono solo similitudini di fondo.In Chrysalis salta subito all’occhio l’ottima e freddissima fotografia, diretta da Thomas Hardmeier, che sottolinea il contrasto tra gli eventi meccanici e spietati che avvolgono la storia, la quale però si fa sempre più umana man mano che si procede verso l’epilogo. La prova del protagonista, interpretato da Albert Dupontel, è estremamente efficace e rende alla perfezione un personaggio che rappresenta il classico poliziotto rude e deluso dalla vita, col peso di una moglie morta in una sparatoria tra le sue braccia. Ma Dupontel darà il meglio cambiando il registro di recitazione in seguito ad eventi dello script. L’attore è molto famoso in Francia, noi lo abbiamo visto piuttosto recentemente come partner di Vincent Cassel nel film Irréversible. Vi sono parecchie scene d’azione, e i combattimenti corpo a corpo sono quanto di meglio si sia visto dai tempi di Fight Club, diretti in maniera impeccabile con il risultato di essere davvero realistici. Non si tratta di arti marziali, ma di un ibrido di queste messo al servizio della lotta stradale più becera. Il regista Julien Leclercq, sebbene la giovane età, sembra avere le idee chiare, ha realizzato questo film con molti sforzi per riuscire a mettere insieme un budget di tutto rispetto, che si aggira attorno ai nove milioni di euro, pare si sia personalmente indebitato per riuscire nell’impresa. C’è chi lo accusa di presunzione per questa sua opera, di certo non chi scrive. Il film è un prodotto concepito per il pubblico di massa e gli effetti speciali di pregevole fattura non nascondono affatto l’intento, peraltro riuscito, di stupire. Una piccola curiosità: la giovane e bella protagonista del film è la moglie del regista.


di Davide Casale


VEXILLE di Fumihiko Sori (2007)


Fumihiko Sori era già noto nel 1997 come supervisore degli effetti speciali durante la lavorazione di TITANIC, il colossal firmato James Cameron. Nel 2002 gira il suo primo lungometraggio, che probabilmente molti di voi ricorderanno, un film bizzarro intitolato Ping Pong. Questo Vexille è il suo ultimo film, interamente girato in cgi che raggiunge i più alti traguardi nello sviluppo di questa tecnica. Il film è davvero sorprendente ed è a tutti gli effetti un prodotto ideato per un pubblico di massa, un blockbuster che è stato già venduto in oltre 120 paesi. Lo script è piuttosto classico, sebbene il film sia Giapponese è molto occidentale nella trama, con tanto di Americani come eroi di turno nel salvare il mondo. Siamo nel 2077 e il Giappone, uscendo dalle Nazioni Unite in seguito a pesanti sanzioni, si è isolato da anni tagliando ogni contatto con l’ambiente esterno. Sii sospetta che nel paese del sol levante si continui a sviluppare la tecnologia degli androidi, vietata in tutto il resto del mondo.. Gli Stati Uniti (e chi se no…) spediscono segretamente un’unita S.W.O.R.D all’interno del, i militari scopriranno un’agghiacciante verità.. Se la trama non brilla certo di luce propria, gli strabilianti effetti la mettono spesso in secondo piano, lasciando lo spettatore a bocca aperta con delle trovate create appositamente per la resa visiva. La morale, come in molti film di fantascienza di ultima generazione, è rivolta ai giovani, all’amore per la vita, un bene prezioso da non sprecare e soprattutto sottovalutare. Curioso il fatto che ci vengano propinate moltissime morti, addirittura delle stragi, il tutto comunque in funzione del sottolineare il significato di fondo del film: con la tecnologia non si scherza essendo una lama a doppio taglio. Certamente non siamo di fronte ad un capolavoro, ma vale la pena visionarlo in primis per il traguardo raggiunto con la cgi e per alcune trovate piuttosto interessanti, sebbene siano inserite in contesti molto derivativi rispetto ad altri classici scifi.

di Davide Casale

PUMPKINHEAD 4 di Michael Hurst (2007)

In Italia, terra di poeti, l’horror il più delle volte è trattato come genere di serie B. Basti pensare al trattamento riservato ai tre Gingersnaps, dove si è spacciato l’ultimo capitolo come primo e l’effettivo primo come sequel. A Pumpkinhead, saga creata dallo specialista in effetti speciali Stan Wiston, non è andata meglio. I capitoli migliori (i primi due) sono ancora da noi inediti e abbiamo avuto la fortuna di vedere solo in dvd i due sequel fotocopia (il tre e il quattro). Questo quarto film, a dirla tutta, poi è il peggiore della serie: mal diretto, mal interpretato da attori cani e neanche tanto marcato sul piano della violenza come invece era il predecessore. La trama è sempre quella: una morte violenta e uno sconsiderato che rievoca lo spirito di Pumpkinhead, un bambino rettile dalla testa a forma di zucca, che per lui attuerà una sanguinosa vendetta. Se nel primo capitolo (diretto dallo stesso Wiston) la formula era ancora (relativamente) inedita, arrivati al quarto episodio tutto puzza di tremendamente vecchio. A nulla servono le (flebili) ambizioni del regista di voler girare una specie di Romeo e Giulietta horror con questi due innamorati divisi dall’odio di due famiglie: se solo Brian Yuzna con “Il ritorno dei morti viventi 3” è riuscito nel miracolo. Meglio tacere poi sulla marchetta di Lance Heriksen, intrappolato nell’irritante ruolo di un fantasma consigliere. In America questo “capolavoro” è uscito direttamente sulla tv via cavo saltando persino il mercato dei dvd. Noi restiamo intanto in attesa che qualcuno si decida a buttare fuori Pumpkinhead 1 e 2, due opere che hanno segnato l’immaginario horror anni 80 e che a noi, come molti capolavori (Basket case fra tutti), sono stati solo sogni ad occhi aperti. In qualsiasi caso se proprio dovete vedere un Pumpkinhead in italiano buttatevi sul capitolo tre “Cenere alla cenere”, almeno lì il sangue tiene alta la tensione.

di Andrea Lanza

Saturday, November 10, 2007

PARANOYD di Debora(h) Farina e Giuseppe Amodio (2007)

Al di là di tutto il chiacchiericcio nato intorno a Paranoyd, la presentazione al Tribeca (ma che sia quel Tribeca?),delle presentazioni a Los Angeles(ma che sia quella Los Angeles?) e degli attestati di stima di Quentin Tarantino (ma che sia quel Quentin Tarantino?) quello che incuriosisce riguardo a quella che è stata pubblicizzata come una visual sensorial experience, un sexy thriller psicologico, una via di mezzo tra Argento e David Lynch è di che tipo di film fosse e se fosse effettivamente un film. Più di qualcuno ha espresso dubbi sulla creazione di un progetto cinematografico totalmente a budget zero, girato con una troupe di 2 persone tutto incluso in un solo giorno di riprese(compreso sonno e pausa pranzo). Il film esiste ed ha più di una qualità assolutamente inedita alla storia(del cinema e non). Nonostante siano dichiarate come influenze del film i succitati Lynch e Angento, il lavoro di Giuseppe Amodio(regia,sceneggiatura,operatore di camera,montatore,compositore,special fx,best boy,driver,stunt...) e Debora(h) Farina(soggetto,regia,camera,montaggio,fotografia,musiche,distribuzione,produzione...) ricorda più da vicino alcune delle sperimentazioni recenti di Jess Franco per l'uso di effetti caleidoscopici da funghi allucinogeni, preponderanza di atmosfere di erotismo più vicine al gonzo amatoriale anche se non così spinto ed il mistero,che è una costante del lavoro. Non solo perchè durante il film,come recita una delle numerosissime didascalie all'inizio del film, sono avvenuti fatti misteriosi ma anche per l'incomprensibilità di alcune scene topiche su cui la camera si dilunga, come le armi da Cluedo che spuntano dagli alberi all'inizio dei titoli di testa o una lunga insistenza sul disegno delle mattonelle della cucina su cui la camera inducia fino ad impazzire soffermandosi sui fornelli e successivamente sugli utensili del bagno, come a volere trarre fuori una misteriosa essenza dal focolare domestico. Ancora il mistero si insinua nel sonoro in loop, le musiche psichedeliche insistenti e onnipresenti che continuano oltre l'immagine, tanto che nonostante il cambio di scena la musica rimane la stessa, effetti campionati slegati dalla realtà, quasi ipnotici e senseless. E ancora la H che compare e scompare dal nome di Debora(h) Farina e la Y peregrina di Paranoyd, due incognite che potrebbero anche celare altri misteri sconosciuti. "Ogni mente costruisce il suo proprio mondo" è una delle numerose didascalie dalla quale si dovrebbe intuire il mistero dietro Paranoyd, didascalie da retrogusto seventies che diventano quasi dei video o addirittura un karaoke che segue le musiche a tema. Farina e Amodio sono tutti i personaggi che passano per lo schermo, addirittura quest'ultimo nel triplo ruolo del postino,di Giorgio e dello zappatore, con una rivelazione finale naturalmente aspettata visto che in fin dei conti sullo schermo ci sono sempre le stesse due persone. Paranoyd è un prisma che non teme rischio di spoiler vista l'esilità del plot, potrebbe essere il sogno lisergico di un ferrotranviere pachistano, di un infante che si appresta a nascere o di una foce che sta per morire, qualsiasi cosa potrebbero esprimere le immagini dello schermo così a rischio di epilessia. Espedienti sperimentali aggiungono effetto alla narrazione:scenografie asettiche,screensaver di windows,uso massiccio dello split screen,simboli fallici, la frammentarietà cronologica,new york sono derive drammatiche per lo spettatore che affrontano una anti-narrazione in divenire. Difficile contenere l'applauso nella scena di sesso ctonia in cui sotto il movimento delle coperte risuona una versione pop di Happy Birthday to You e con voce atona la protagonista recita un brano da un manuale di entomologia. Come è possibile tutto ciò? In una ideale sintesi minimale le farfalle,l'(assenza di) acqua sono temi semantici ormai quasi abusati ma qui rappresentati con una valenza popolare, quella della donna sexy che fa entrare l'uomo maschio per controllare il proverbiale tubo che perde. Nonostante le presenze del film siano due, il terzo protagonista del film è il bosco, che si ripresenta ancora e ancora,nelle stesse immagini colorate da tonalità opprimenti. Alla fine del film i nomi dei due protagonisti di questa avventura ritornano ancora e ancora a sottolineare la dualità dell'operazione ma quasi di monito oscuro verso quel mistero mai svelato che va oltre la visione del film, che ti porti a casa e ancora nel sonno della mente.

di Gianluigi Perrone

Sunday, November 04, 2007

QUEL TRENO PER YUMA (3:10 to Yuma) di Delmer Daves (1957)

Difficile spiegare bene cosa sia 3:10 to Yuma adesso che è diventato uno dei simboli del cinema western. La percezione che si sarebbe avuta allora è quella di un film smaccatamente commerciale, che prendeva i presupposti da Mezzogiorno di Fuoco, ma che aveva la freschezza e l'intuizione di portare elementi inediti nel genere. Questo,più che a Delmer Daves, che in definitiva era un ottimo artigiano ma non molto di più, si deve alla produzione che seppe riunire diversi elementi fortunati ed in qualche modo geniali. Abbiamo una storia avvincente, merito di un ancora inespresso Elmore Leonard che fa dei personaggi la forza del plot, tenendo solo sui due protagonisti il succo del racconto. Un uomo mite che deve portane un altro estremamente pericoloso all'appuntamento per venire portato in prigione a Yuma, a prendere quel treno. Ci sono diversi elementi che sono chiaramente catalizzatori di suspance. Innanzitutto il fatto che si aspetti l'evento che succede in quel momento, a quell'ora precisa. A questo si aggiunge l'assedio che precede il finale, dove convergono tutte le forze del film in maniera centrifuga e centripeta,i due protagonisti, il bandito Ben Wade, furbo,feroce ma con un codice morale e il contadino Dan Evans,un uomo pacifico che per denaro ma soprattutto per una dimostrazione personale verso la sua famiglia, si avventa a rischiare la vita. Naturalmente l'idea è che ci sia un rispetto che accomuna i due,Wade in pratica racconta a Evans la sua vita e dimostra di conoscerlo ma di aver scelto una strada diverso. Nel luogo dove sono loro in attesa sembra esserci un fulcro atomico pronto ad esplodere, che alcuni rifuggono per timore e altri cercano di raggiungere per innescare. Entrambi i protagonisti hanno il potere o il volere di rifuggirlo ma si crea una ideale bomba che deve raggiungere la fine del suo conto alla rovescia per terminare. Quel 3:10 per Yuma. Se un plot del genere trionfa su tutta la linea, che dire del fatto di usare Glenn Ford come protagonista, una proposta che non ha il fine solo di richiamare il pubblico ma di dare una immagine diversa al bandito verso cui lo spettatore deve avere una chiara simpatia. Questo era un lavoro di produttori intelligenti. Se pensiamo che il regista sarebbe dovuto essere Robert Aldrich possiamo solo immaginare verso che livelli potesse aggirarsi il prodotto finale. Una curiosità su quale peso abbia avuto la popolarità del film a livello mondiale, il termine Yuma è diventato a Cuba di uso comune riferito ai turisti americani.
di Gianluigi Perrone