Thursday, May 29, 2008

CINQUE CORPI SENZA TESTA (strait-jacket) di William Castle (1964)

Uno dei film più violenti di William Castle e tra i più riusciti. Molto si deve a Joan Crawford che interpreta la schizofrenia della protagonista in maniera pionieristica. Ispirato ad un racconto di Robert Bloch, vede come protagonista una donna che per gelosia massacra marito ed amante a colpi di ascia sulla testa davanti la figlia. Dopo anni di manicomio ritorna dalla figlia ma le morti non sono finite. Tutto il plot gira sul mistero del misterioso assassino decapitatore ma il tutto è reso cruento dalle immagini di morte ed il ritorno dell'immagine senza testa che Castle infila subliminalmente ovunque. Il resto è fatto da ombre e tensione con il consueto stile del regista.
A suo modo un film seminale nel suo genere.

di Gianluigi Perrone

INCATENATO ALL’INFERNO (unchained A.K.A. The Man Who Broke 1,000 Chains) di Daniel Mann (1987)

Un filone molto sfruttato dal cinema americano è quello con tematiche carcerarie. “Incatenato all’inferno” ,tuttavia,pur potendosi far risalire a questo filone,risulta essere un film di più ampio respiro. La storia ,reale e biografica, del protagonista, finisce per essere una tortuosa rappresentazione di quel self made man che è l’incarnazione stessa del “sogno americano”. Il reduce Robert Elliot Burns , che, alla fine della prima Guerra Mondiale, si ritrova vittima della depressione che aveva investito gli Stati Uniti,finisce per divenire uno dei tanti diseredati che vagavano nascosti sui treni di città in città,sperando di trovare un lavoro o di racimolare qualche spicciolo. Nella propria ricerca di una opportunità,però, il giovane si ritroverà invischiato in una rapina,finendo per essere condannato a dieci anni di lavori forzati nello Stato della Georgia. Il film ci catapulta in un vero inferno sulla terra,quello delle colonie penali del profondo Sud, il lato oscuro della Dixie Land,dove la vita di un uomo vale meno di nulla. Qui Burns scoprirà il lato bestiale e malvagio dell’animo umano, incarnato dal direttore Hardy (un immenso e sudaticcio Charles Durning)e dai suoi scagnozzi. Da questo posto mefitico ed inumano,però,il giovane reduce riuscirà a fuggire per tentare di crearsi una nuova identità e di ricostruire la propria vita; da un suo romanzo si darà il via a quel processo civile che porterà alla riforma delle colonie penali. Un film che tocca molte tematiche,dunque: dalla ingenerosità dell’America nei confronti dei propri reduci, al tema dei delitti e delle pene,il tutto supportato da una colonna sonora folk blues e spiritual,cantata a squarciagola dai detenuti per scandire il ritmo delle picconate. Ultima menzione,doverosa, va al personaggio del vecchio Pappy Glue, Interpretato da Elisha Cook.

Di Andrea Scalise

BRACCATO A VITA (MAD DOG MORGAN) di Philippe Mora (1976)

Nello stato di Victoria in Australia,terra di pendagli da forca,colonia di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra,un giovane,Dan Morgan, passa la propria vita tra fumerie d’oppio e scazzottate. Il film narra l’ascesa di questo avventuriero dal carattere fiero,trascinato nell’inferno delle carceri,dove verrà brutalizzato e torturato,per poi passare alla sua nuova vita da fuorilegge. A far da sfondo a tutto ciò ,vi sono le distese dell’Australia ottocentesca,dove una stretta elite di anglosassoni governa su una masnada di delinquenti e sulle popolazioni aborigene locali. Morgan guadagnerà l’appellativo di “cane pazzo” per via delle proprie imprese banditesche, divenendo, quasi, un robin hood australiano. Dan Morgan, alias “mad dog Morgan” non è altro che il nome falso di un personaggio storicamente vissuto nella metà del 1800 in Australia. Un uomo che si pose in lotta contro una società spietata e classista,divenendo una belva selvaggia,braccata da una moltitudine di cacciatori di taglie. Nonostante la barba folta e posticcia,un ruolo disegnato su misura per Hopper,che sembra divertirsi un mondo ad impersonarlo. Uno scontro tra diversi tipi di inumanità,tra chi,pur costretto a vivere come un selvaggio,Morgan stesso e l’unico suo amico,l’aborigeno “Billy”,mantiene dei rudimentali principi morali e chi invece,come il governatore,in nome della propria superiorità,non esita a far fare a pezzi il cadavere di un bandito solo per conservarne lo scroto come portatabacco. “Braccato a vita” sembrerebbe a prima vista essere un western,ma si rimane allibiti dalla facilità con cui il registro varia dal film d’avventura a quello “picaresco”,con un retrogusto di cinema horror che lo pervade insistentemente. Durante le crude scene della violenza sul protagonista e della “M” ,barbaro simbolo della detenzione , che gli viene marchiata a fuoco sulla mano,si prova una sensazione di netto disagio che la accomuna più ad un horror gotico che ad un classico western.

Di Andrea Scalise

ROMAN POLANSKI : WANTED & DESIRED di Marina Zenovich (2008)

Per chi non lo sapesse a Polanski piacciono le ragazzine. Fosse l'unico. Il problema è che nella sua vita incredibile c'è stato anche uno scandalo relativo ad un rapporto con una tredicenne che lo ha costretto alla contumacia dagli Stati Uniti.Il documentario di Marina Zenovich, Roman Polanski Wanted & Desired, parte da questo spunto per sfruttare l'immagine di uno dei più grandi registi dela storia. Chiaro che Polanski ha sbagliato ed è un porco schifoso,però dietro a questo lavoro mal fatto ed ipocrita ci sono ben altre storie da raccontare. Evidentemente c'è dell'acredine tra i Weinstein ed il regista polacco, perchè distribuire in pompa magna un lavoro che, per quanto ruffiano, riporterà alla luce le ombre del regista. Banalmente si raccontano i fatti conosciuti della vita di Polanski, dal massacro della famiglia Manson alla carriera cinematografica, assolutamente in maniera verbosa ed inutile. Tutto quello che si racconta nel doc è su internet,non vi è un minimo di indagine se non gossippara che da una interpretazione grossolana dei personaggi neanche fossero macchiette forzatamente proposte come interessanti.La regista intervista gente al margine degli avvenimenti ovvero lo schiavo di Dino De Laurentis o un gornalista coinvolto marginalmente negli eventi e tutta gente che parla sul sentito dire.
I protagonisti sono mostrati tagliati con l'accetta e alcune affermazioni dell'accusa come che "i film di Polanski siano tutti basati sulla corruzione dell'innocenza sull'acqua" come immagine dell'atto sessuale sulla ragazzina in una vasca da bagno sono ridicole e a tratti scandalose se si pensino messe in bocca ai più grossi uomini di legge americani.
E' un colpo basso senza motivo di essere. Ennesima speculazione squallida al pari delle azioni di Polaski. Triste che la diretta interessata,la ragazza che ebbe il rapporto con il regista, si sia prestata a questa farsa senza una posizione precisa. Alla fine Polanski è un grande regista e tanto tutto è andato in prescrizione.

di Gianluigi Perrone

TOKYO SONATA di Kyioshi Kurosawa (2008)

Kurosawa Kyoshi che rasenta il sublime. Ormai l'autore giapponese ha raggiunto un livello tale da superare i limiti del genere horror che effettivamente non lo aevano mai imprigionato. La storia quotidina di un impiegato che perde il lavoro e lo tiene nascosto alla famiglia è abusata ma la costruzione verticale degli eventi del regista giapponese non lascia adito a facili interpetazioni. Tutto, nella vita dell'uomo diventa tragico, ed il suo stato con la famiglia si sgretola in piccole cose. In lunghi e plumbei piani sequenza disegnati su inquadrature perfette che mostrano Tokyo come un luogo sbilenco in cui sono imprigionati i cittadini, oppressi dalla società.La frustrazione si sfoga nella famiglia che involontariamente esalta la disperazione del padre di famiglia fino a spostare l'intolleranza per la madre che vuole ormai fuggire dalla bugia che è la famiglia. Come al solito il finale esplode in dubbie elucubrazioni ma ciò che stupisce è il ghiaccio dietro alla realtà apparentemente perfetta. Regia fantastica che merita il premio di Un Certain Regard a Cannes.

di Gianluigi Perrone

TUNNEL RATS di Uwe Boll (2008)

Boll ci riprova con un film di guerra sul Vietnam e parte da una idea niente male.I Tunnel rats erano i soldati che combattevano in stretti cuniculi sotto le giungle vietnamite scavati dai vietcong per colpire di sorpresa i marines. Boll cerca di unire Descent a Platoon (con anche un po' di Predator) ma come al solito ne viene fuori un pasticcio. Il problema è che Uwe non ha il senso del ridicolo e scrive (e quindi dirige) scene ridicolissime. Sarà il budget che non permette di spingere sull'azione ma Uwe non riesce ad esimersi dai tempi morti. Il film spesso scade nella noia e, purtroppo, negli sterotipi. E' sicuramente una delle cose migliori fatte dal regista tedesco tecnicamente ma pecca sempre in sceneggiatura dove, alcune forzature sono poco sopportabili. E' ovvio che nessuno si fumerebbe mai una sigaretta in un tunnel di 30 cm come è pazzesco che, nel giro di pochi secondi, il riconcigliamento tra Viet e Marines possa essere così repentino. Possiamo tranquillamente dire che tecnicamente Boll è cresciuto ma deve avere l'umiltà di capire che le sceneggiature vanno scritte con criterio. Magari da qualcun'altro che capisco cosa e ridicolo e cosa no.

di Gianluigi Perrone

EL BUFALO DE LA NOCHE di Jorge Hernandez Aldana (2008)

Tratto da un bel romanzo di Guillermo Arriaga, sceneggiatore dei film di Innaritu oltre che de Le Tre Sepolture di Tommy Lee Jones qui anche in veste di produttore, The Night Buffalo tratta della morte per suicidio di Gregorio, un ragazzo schizofrenico ossessionato dall'immagine di un bisonte onirico, e delle vite di coloro che circuitano intorno alla sua esistenza, del rimorso e dell'ossessione che trasforma il suo migliore amico, Manuel, nel defunto amico. Ad interpretarlo Diego Luna, anch'egli tra i produttori, che sembra pretendere di essere il fulcro totale degli eventi per quanto la camera dell'esordiente Jorge Hernandez Aldana gli sta sempre addosso. Nonostante l'interpretazione di Luna sia ottima è decisamente opprimente, soprattutto a causa di un numero eccessivo di scene di sesso (saranno almeno 8) molto esplicite che sono sicuramente piacevoli ma fini a se stesse. La vita sessuale di Manuel è sì il centro dei problemi che lo perseguitano ma insistere sugli amplessi con diverse ragazze, Luna fa sesso con Irene Azuela, Camila Sodi e soprattutto con Liz Gallardo diverse volte, non aggiunge nulla all'economia del film. Attraverso il sesso si esplicano i rapporti tra i personaggi, il rifiuto, la paura e l'ossessione. Regia e fotografia comunque eleganti e piacevoli per un opera prima tutto sommato interessante.

di Gianluigi Perrone

Wednesday, May 28, 2008

SCARCE di John Geddes & Jesse Cook (2008)

Horror low budget dal Canada che si presenta come un atroce bagno di sangue sulla neve. Tre ragazzi vanno in vacanza per poi perdersi e trovare ospitalità dalla rozza gente locale che si rivela come mangiatrice di carne umana. Banale? E' proprio questo il problema di Scarce, di John Geddes e Jesse Cook, che combatte con un budget basso ed una fotografia misera in maniera arrendevole.Non si tenta di riproporre una soluzione visiva moderna,nè nella regia nè nelle idee. Al di là della povertà dei mezzi e delle promesse disilluse, è la sceneggiatura che lascia troppo spazio alla noia. Si cerca di creare un horror old school ma la prima ora di quasi stasi non permette di apprezzare il prodotto. C'è sicuramente cura per la regia delle scene ma senza stile,anche se classica è senza voli pindarici, ma quello che stufa è l'eccessiva quantità di luoghi comuni che non permette al film di superare la soglia dell'amatoriale.

di Gianluigi Perrone

SURVEILLANCE di Jennifer Lynch (2008)

Jennifer Lynch non può esimersi dal grosso fardello che la vede legata al padre ed infatti accetta di sottomettersi ad esso. Surveillance cita spesso (e a volte fuori luogo) il lavoro di David Lynch. Il film per fortuna prende una strada molto più pacata nella sua realizzazione. Il thriller on the road di Jennifer Lynch è assolutamente convenzionale nella regia, obbiettivamente ben fatta,e punta molto sull'ottima sceneggiatura. Una serie di interrogatori ci introducono ad un incidente ed una serie di omicidi ad opera di un serial killer che,per la malafede dei protagonisti, constrastano con i flashback che raccontano il vero scorrimento delle cose. Molta ironia ed ottimi dialoghi rendono piacevole un thriller che sulla carta poteva essere legato ad un finale abbastanza banale. La Lynch fa un lavoro mediamente distinguibile ma non osa troppo, forse memore del precedente Boxing Helena, e si affida ad un ottimo lavoro di attori. Bill Pullman ritorna inaspettatamente in una parte che gli fa onore fino quasi alla fine del film. La costruzione funziona ed il film ha tutte le carte in regola per essere un outsider se non fosse per l'evidente volontà di renderlo tale a tavolino. Sono solo puntigli che comunque pesano sul nome della regista che comunque crea un thriller atipico e godibile.

di Gianluigi Perrone

MY NAME IS BRUCE di Bruce Campbell (2008)

All'approssimarsi dell'autunno della sua carriera Bruce Campbell approda all'esordio cinematografico con una commedia horror auto-citazionista. Parlare di metacinema è quantomeno ridicolo ed esagerato ma di sicuro è lo stesso Campbell il fulcro del film. Nel film immagina se stesso come un attore disperato per le continue proposte di film a basso budget che puntualmente accetta. Una vita da attore allo scatafascio, attorniato dai fan maniaci,ma insoddisfatto professionalmente. Bruce finisce per un caso in un paesino di provincia dove un demone cinese ha infestato la città uccidendo gli abitanti. Un fan di Bruce lo crede un eroe e lo convince ad affrontare la minaccia. Comicità di grana grossa quella di My Name is Bruce. QUasi tutte le scene sono riprese da "classici" del regista, soprattutto dalla trilogia di Evil Dead, e la stessa trama del film è nient'altro che un remake de L'Armata delle Tenebre, con tanto di scenette scopiazzate bellamente al film di Raimi. L'operazione è a bassissimo budget quindi il risultato è prevedibilissimo. Bruce dirige imitando l'amico Raimi ma decisamente svogliato. Sicuramente per i fan di Campbell è una visione piacevole ed a tratti si ride di gusto, grazie alle innate capacità mimiche dell'attore. A silly movie.
di Gianluigi Perrone

KNIFE EDGE di Anthony Hickox (2008)

La carriera di Anthony Hickox è andata progressivamente sgretolandosi dopo un periodo in cui si credeva fosse una promessa dell'horror. Dopo essersi messo a fare filmacci action era deciso a tornare al suo vecchio amore ma in maniera più matura. Conferma ne è questo Knife Edge, brutto titolo di un film degno del suo nome. Hickox intende girarlo come un classico hitchcockiano,ispirandosi anche al classico di Cukor Angoscia. Ambienta il film in una villa, con la classica famiglia felice che comincia a sfaldarsi,aggiungendo all'intrigo a sopresa elementi lisergico-sovrannaturali.Sicurametne la regia di Hickox è visibile ed importante,riportando le caratteristiche che negli '80 lo resero famoso, ma quello che manca decisamente è una storia forte su cui poggiarsi. Assolutamente risibile, il plot fa continuamente acqua, con forzature al limite del clamoroso, non ultimo il finale più abusato mai visto. In più il budget basso limita fortemente l'immagine del film, che è assolutamente fuori tempo con un aspetto che rimanda a 20 anni fa. Se ci mettiamo anche un gruppo di attori pessimi, compreso una ragazzino completamente allo sbando, la frittata è fatta.

di Gianluigi Perrone

THE HUNGER di Steve McQueen (2008)

Film di denuncia sulle torture subite dai prigionieri dell'IRA. Negli Hunger Strikes della Maze Prison in Irlanda del Nord morirono 9 prigionieri per denutrizione nei giro di pochi mesi. Uno di questi era Bobby Sand. L'omonimo del grande attore Steve Mc Quen punta tutto sul dolore. Merda,sangue,tortura sono i punti di forza del film ma non si disdegna una regia raffinata. Come in Fuga di Mezzanotte la cattività è ai livelli di una tortura fisica e psicologica, dove la mente dei prigionieri veniva vessata dalla mortificazione più profonda. Il film colpisce soprattutto per il fatto di essere una storia vera perchè è difficile rimanere indifferenti a ciò che le forze dell'ordine inglesi fecero contro i terroristi. Questi ultimi protagonisti tutti allo stesso modo, uniti da un ideale, esprimono la propria convizione nell'unico dialogo del film che prova la loro implacabile dedizione alla causa, fino alla morte.

di Gianluigi Perrone

THE ALPHABET KILLER di Rob Schmidt (2008)

Tutti al riparo! Eliza Dushku si è messa a produrre film! L'attrice nota per aver interpretato l'antagonista di Sarah Michelle Gellar, Faith, era talmente entusiasta del successo di Wrong Turn da assoldare il regista Rob Schmidt per un horror completamente diverso.Da brava produttrice megalomane ci si mette lei stessa nel film facendo lo sbaglio numero uno ovvero pretendendo di essere la protagonista assoluta. E' chiaro che The Alphabel killer si ispira a Zodiac, ispirandosi agli omidici ci un serial killer mai catturato che uccideva giovani ragazzine, ma si pecca troppo nella costruzione della sceneggiatura. Tra l'insicurezza se vare un serial killer thriller classico oppure un prodotto più autoriale, con il risultato finale non avvine letteralmente nulla di rilevante. Durante il film si presta attenzione solo alle indagini della protagonista, decisamente troppo sopra le righe e solo nel finale, seppur scontato, c'è un guizzo di personalità. La Dushku vuole stare davanti la macchina da presa il più possibile e rovina tutto con scene al limite del ridicolo,colpa Una intepretazione pessima e quasi fastidiosa. Peccato perchè il cast è notevole. Timothy Hutton,Michael Ironside, Bill Moseley,Cary Elwes sono tra le faccie che si prestano alla farsa che Schmidt non pare sapere prendere per le redini. Una occasione sprecata produttivamente, anche perchè con script del genere non si va da nessuna parte.

di Gianluigi Perrone

NIGHTMARE DETECTIVE 2 di Shin'ya Tsukamoto (2008)

Dopo il primo Nightmare Detective, Tsukamoto rimane sulla stessa linea concettuale per il sequel, senza per forza rimanere legato al tema del primo film. Mentre nel primo si trattava di una storia classica mistery che celava un sottotesto fortissimo e cinico sul contetto di suicidio, in questo caso il detective che vede nei sogni della gente si trova ad avere a che fare direttamente con il concetto di paura. La maniera con cui lo fa è beffarda, quasi volesse comunicare con il pubblico o con i produttori o in generale con il cinema e le sue forzature di genere. Affascinante la maledizione che rincorre un personaggio il quale è vessato da una strana panfobia. Infatti ha paura di qualsiasi cosa. Una situazione grottesca che Tsukamoto usa per mostrare come qualsiasi situazione ed immagine possa essere artificialmente resa spaventosa. In questo modo Tsukamoto fa un viaggio a ritroso nella psiche andando a rintracciare nell'infanzia del protagonista, in questo caso campione del pubblico, i segreti del senso della paura. In questo modo Tsukamoto crea l'horror per antonomasia, agghiacciante e universale ma anche riflessione metacinematografica di se stesso. Ormai Tsukamoto non ha limiti.

di Gianluigi Perrone

LOS BASTARDOS di Amat Escalante (2008)

Difficile parlare della trama di Los Bastardos senza rischiare di rivelare porzioni importanti della storia che rovinerebbero più di una sorpresa. Meglioanalizzare la cifra stilistica con cui il regista Amat Escalante sorprende il pubblico senza spettacolarizzazioni. Basti sapere che il film tratta di due lavoratori clandestini oppressi dalla miseria quotidiana e della decisione di avere una rivalsa sociale.
Escalante riempie gli ambienti con lunghi piani sequenza, a volte apparentemente inutili ma incredibilmente pregni di significato. Con poche immagini Escalante spiega un disagio sociale, l'incomunicabilità, la disperazione, attraverso gesti quotidiani. Nell'apparente normalità degli eventi si chiede allo spettatore di attendere pazientemente per entrare in un delirio che ricorda molto il primo Hanneke. E' proprio questa strategia della quiete, sincopata e statica che permette di shockare e traumatizzare lo spettatore improvvisamente, sconvolto dalla violenza che esplode repentina. Un piccolo film costruito sull'attesa e sulle sensazioni che non lascia speranze alcune, che si mostra fatalista e spietato, che tiene con il fiato sospeso.

di Gianluigi Perrone

MARTYRS di Pascal Laugier (2008)

Dopo Saint Ange, che comunque era stato venduto in tutto il mondo, Pascal Laugier pensa bene di allinearsi con le produzioni horror francesi come Alta Tensione, A L'Interieur e Frontiere(s), spingendo sul pedale della violenza senza taboo. La cosa che salta subito all'occhio dopo la visione di Martyrs è che si tratti di un film "macedonia" ovvero un miscuglio di diversi stereotipi di horror moderno. La storia brevemente riguarda due ragazze che hanno vissuto una prigionia sotto tortura per una qualche motivo che è poi il twist del film. In maniera un po' confusa una di esse, insieme all'amica, va a farsi giustizia da chi l'ha tenuta prigioniera. Se cerchiamo di capire di che film si tratta da questa descrizione rimarremo fuori strada. Perchè Martyrs non ha affatto una narrazione lineare ma si divide in tronchi ben divisi che vogliono catturare diversi tipi di pubblico. Allora dopo un attacco alla famiglia media del tipo Funny Games il film diventa una specie di j-horror con le visioni di questa ragazza scarificata che ricorda una versione occidentale delle varie Sadako. Sembra che il film si ponga come un horror sovrannaturale con elementi gore sul tema del rimorso, però c'è una ulteriore svolta narrativa. In film cerca di insediarsi nei territori di Hostel, con una organizzazione dedita per alcuni motivi alla tortura, ed un sentore quasi shyamalaniano del "tutto avviene per un motivo". Alla fine la tortura avviene e dura una buona mezz'ora di film, che diventa insostenibile non tanto per la natura delle torture nè per il loro fine che comunque è affascinante, ma per la sistematica durata delle stesse. Tra pugni e alimentazione forzata, una ragazza viene torturata fino all'estasi. Il film quindi diventa duro proprio per questa sua estenuante persistenza. Gutta cavat lapidem si potrebbe dire. E a lungo andare non si riesce ad essere indifferenti anche se, alla fine, è tutto un espediente. Metteteci anche che il film cita copiosamente Argento, a cui il film è dedicato, e vi trovate davanti ad uno strano ibrido, ben girato e di sicuro effetto ma indeciso su cosa vuole essere.

di Gianluigi Perrone

ROVDYR di Patrik Syversen (2008)

Horror dalla norvegia ben girato che soffre di qualche banalità di sceneggiatura. Rovdyr (o Backwoods o Manhunt) aveva incuriosito per un trailer che lasciava presagire efferatezze incredibili. In effetti gli effetti speciali sono copiosi e ben fatti, ed ad una prima occhiata il film è violento e girano in maniera moderna. Purtroppo i personaggi sono un po' tagliati con l'accetta (in senso metaforico) e la storia si sfilaccia facilmente. Il film dovrebbe svolgersi nel '74. Un gruppo di ragazzi va a fare la solita scampagnata nei boschi e trova gli zotici che giocano a dare la caccia alla gente. Tutto qui. Patrik Syversen si concentra sulla regia e sulla resa fotografica che, per una volta, è davvero notevole. Potenzialmente il film poteva essere un hit perfetto ed è un peccato che si rovini con dei tempi morti che non hanno senso di esistere. Sicuramente la presenza di una popputa protagonista rende piacevole la visione per uno slasher senza troppe pretese quale vuole essere Rovdyr.

di Gianluigi Perrone

Monday, May 26, 2008

Wrong turn 2: dead end di Joe Lynch (2007) (Recensione redux)

Un nuovo reality chiamato “Apocalisse” comincia le sue riprese all’interno dello stesso bosco del precedente film. Il campionario di umanità presente tra i concorrenti è variegato: c’è l’ex giocatore di football con un infortunio permanente, l’aspirante starlette in cerca di successo, la maniaca vegetariana, l’ immancabile idiota e persino la produttrice del programma improvvisatasi giocatrice. Tutti l’uni contro l’altro per vincere centomila dollari. Nessuno conta però l’arrivo di una famelica famiglia di cannibali mutanti.

Di "Wong turn 2" ne avevo parlato abbondantemente nel Cangaceiro quasi un anno fa, ma parallelamente all'uscita dvd ho deciso di riguardarlo e, come raramente accade, mi sono sentito in obbligo di riscrivere da capo una recensione: vuoi perchè il film a dirla tutta questa volta mi era piaciuto, vuoi perchè non avevo più pretese nel guardarlo come la prima volta. Perciò ecco la seconda recensione che chiamerò Redux come il capolavoro di Coppola. Molti punti sono rimasti gli stessi, altri cambiati nettamente. Ma come diceva Gaspar Noè "Il tempo distrugge tutto". O solo lo modifica?


“Wrong turn 2” possiamo dirlo senza problemi: non vale il primo tesissimo capitolo. Per inciso il film è una cazzata, ma di quelle cazzate che fanno bene al cuore, meno compatto narrativamente, più rozzo nel delineare i personaggi, ma anche zozzo nelle scene di sesso, violentissimo in quelle di sangue, praticamente un fumetto per ragazzacci. Il regista Joe Lynch è davvero molto bravo: virtuoso con la mdp, attento al ritmo forsennato e coraggioso nel proporre integralmente situazioni che il buon senso censorio avrebbe facilmente eliminato (prima fra tutte la scena dove due fidanzatini mutanti scopano violentemente contro un albero e la femmina indossa la faccia strappata di una vittima appena scuoiata).




Un posto d’onore nel nutrito cast alla splendida Erica Leerhsen e al pazzo Henry Rollins (un uomo un mito). Bisogna dire però che il tema dei reality è stra-abusato e molte idee di sceneggiatura ricordano non poco il film per eccellenza del genere: Blair witch project. Non è da escludere quindi che la presenza della Leerhsen sia di risosso alla sua presenza nel fallimentare “Blair witch 2”. Meno male che il film riesce comunque a sviluppare una propria dimensione abbastanza originale che esula dal modello al quale si ispira. Il film come già detto è una bomba di ritmo: dall’incipit con l’attricetta squartata in due alla divertente vendetta di Rollins in versione Rambo incazzato.



Il primo “Wrong turn” aveva dalla sua una certa autorialità che lo innalzava dai vari cloni di “Non aprite quella porta”: d’altronde il regista Rob Schmidt è una delle più importanti firme del cinema underground hollywoodiano con uno splendido “Delitto più castigo a Suburbia” a spiccare nella sua filmografia. Il secondo capitolo, più frivolo e spensierato, ma anche più crudele e violento, potrebbe piacere però anche più del prototipo al pubblico: questo perché in virtù della sua anima prettamente di intrattenimento senza pretese. Ad avercene però di seguiti così.

di Andrea Lanza

Out for blood di Richard Brandes (2004)


Un poliziotto alcolizzato è in crisi dopo il divorzio dalla moglie scrittrice di best seller horror: la segue, la pedina, scopre che ha nuovo amore. Il suo capo per distrarlo gli affida un nuovo caso: ritrovare una ragazza scomparsa. Niente di peggio perché lo sfortunato detective entrerà in un giro di vampiri assetati di sangue.

Finalmente un buon B movie: onesto, senza pretese, girato con la libertà che permette un low budget. Fanculo il cinema mainstream per una volta, fanculo le facce carine alla Orlando Bloom messe solo per prendere una o due spettatrici in più. Qui si fa sul serio: sangue a go gò, nudi frontali, combattimenti all’arma bianca tra umani e non morti. “Out for blood” non è un capolavoro, forse neanche un film che entrerà mai nella storia del cinema horror e non, ma è maledettamente divertente. Non tanto per quello che dice, ma per il brio con cui lo dice. La trama è in fondo sempre la solita del genere vampirico, anche se è interessante come contamini i generi (dal noir all’horror puro) e come citi autori più importanti (Carpenter e il suo “Il seme della follia” su tutti). Gli attori sono perfetti nel ruolo richiesto, da Lance Heriksen a Kevin Dillon. Spicca poi per curiosità la presenza di Jody Lin O’Keefe nei panni di una spietata vampira, soprattutto perché l’attrice è conosciuta per essere l’aguzzina spietata della terza serie di “Prison break”. Come dire che la parte le calza a pennello. Il regista è conosciuto per avere scritto e prodotto alcuni devastanti “cult” di arti marziali con Cynthia Rothrock, robaccia che qualche anno fa faceva la felicità del palinsesto di Italia 1. Meno male che qui se la cava decisamente meglio: il suo tocco è ispirato, non banale e gira due o tre scene di grande impatto visivo. Ottimo il make up del veterano John Bluechler che rinuncia completamente al digitale per il lattice. Wow e mega applauso aggiungerei: di horror in computer grafica ne avevamo fin sopra i capelli. Da dimenticare però le tantissime e stupidissime battute ad effetto e una chiusa abbastanza inconcludente. Però credo non ci sia da lamentarsi. Vi consiglio di cercare questa perla sotterranea.


di Andrea Lanza

Sunday, May 25, 2008

City of the dead di Duane Stinnett (2006)



La caduta di una meteora sulla terra coincide con la trasformazione di un gruppo di barboni, esaltati religiosi, in zombie divoratori di carne umana. Destino vuole che in quello stesso luogo si siano dati appuntamento due gang di spacciatori rivali. A complicare tutto l’arrivo di una pattuglia di poliziotti alle loro calcagna.


“City of the dead” è un film come tanti, senza infamia e senza lode, che non dice niente di nuovo nel genere dei morti viventi. Gli attori, banali quanto basta, sono pura tappezzeria, buoni soltanto come oggetto di sanguinosa macelleria. La regia non regala nessun momento d’emozione o di virtuosismo, segno indelebile di un film nato castratamente senz’anima. Unica nota interessante l’idea di unire il genere action con il classico “La notte dei morti viventi”. In un’ora e mezza non ci vengono risparmiati i soliti luoghi comuni del genere con persone rifugiate in un luogo chiuso o con i loro stessi cari contaminati dal morbo e stupidamente lasciati vivi. Il film ha un sottofondo alla John Carpenter che se fosse stato sviluppato meglio avrebbe giovato alla vicenda. Nel cast in una piccola parte Reggie Bannister, icona del cinema horror per avere interpretato la tetralogia di “Phantasm”. Gli effetti speciali sono davvero poca cosa e anche il make up degli zombi arriva appena alla sufficienza. Come si dice in questi casi: niente di nuovo sotto il sole. Se non avete niente di meglio da guardare una visione magari la merita, ma in caso contrario tenete pure i vostri soldi per altro, che so una pizza o una puttana.

NB In originale il titolo è “Last Rites” e come tale è chiamato anche nei credits della nostra edizione in dvd. “City of the dead”, dal titolo fulciano, è presente solo nella cover del dvd. Lo si conosce anche per il titolo alternativo: “Gangs of the dead”.





di Andrea Lanza

Saturday, May 24, 2008

Dark Corners di Ray Gower (2007)


Karen è una giovane donna, felicemente sposata, ma con il sogno purtroppo irrisolto di avere un figlio. Di notte la ragazza diventa nei suoi incubi Susan, infelice creatura di un mondo incolore, perseguitata vittima di un pericoloso psicopatico chiamato il “Cacciatore della notte”. Sogno e realtà si confonderanno…

Strano film questo “Dark Corners”: irrisolto, a tratti noioso, caotico quando cerca di essere lynchiano. Eppure non me la sentirei di bocciarlo in toto: il film possiede invero un fascino morboso, quasi viscerale, capace di creare un mondo di grande disagio e angoscia come raramente se ne sono visti. Tutto questo scendendo naturalmente a patti con una sceneggiatura non propriamente appagante.
Ray Gower però alla sua prima regia è il punto forte del film: dotato di un talento visivo notevole è lui l’ancora di salvezza di un film sicuramente disastroso nelle mani di autori ben più modesti. Per questo la prossima volta gli consigliamo di rivolgersi ad uno sceneggiatore ben più dotato di lui stesso: si eviterebbero sicuramente pasticciacci non solo buoni a livello visivo. Il reparto attori è comunque buono con in primis una fulgida e sensuale Thora Birch nei panni della protagonista dalla doppia personalità che non può non ricordare le donne di Hitchcock e De Palma. Il resto del cast è formato da facce abbastanza anonime ma efficaci per il proprio ruolo. Non guasta poi all’interesse della vicenda qualche dose di sano splatter e di bizzarrie all’apparenza senza senso (i morti che risorgono, le chiavi vomitate, gli aborti alla presenza di sette oscure). Ottima la fotografia che gioca molto con i contrasti tra reale (ambienti molto illuminati quasi da soap opera) e sogno (un buio quasi sempre presente in scenari alla “Seven”). In definitiva “Dark Corners” è un film che, pur con i suoi difetti, potrebbe diventare un cult del genere in virtù proprio della sua ermeticità.


di Andrea Lanza

Wednesday, May 21, 2008

Dracula III: Il testamento di Patrick Lussier (2006)


Ultimamente diventando vecchio sono meno cattivo soprattutto verso i film senza pretese. “Dracula 3 the legacy” (da noi sul satellite come “Dracula III: Il testamento”) è uno di questi: veloce, divertente, stupido quanto basta per farsi due risate senza sentirsi deficiente e con due o tre idee visive che ti stupiscono. Il regista Lussier è l’autore della saga del Dracula new age, serie prodotta da nientepocodimeno che da Wes Craven, e che da noi ha visto in un’uscita fugace in sala solo il primo (brutto) film (“Dracula legacy”). Lussier non gira male, anzi a livello stilistico è una bomba, non videoclipparo, ma comunque attento al ritmo e al montaggio veloce, sa fare appassionare pur raccontando una storia vecchia come il mondo. Questo terzo capitolo riprende le fila lasciate in sospeso dal secondo (il migliore) con questo prete orientale che grazie al dolore può controllare il morbo vampirico e del suo viaggio in compagnia di un giovane aiutante alla ricerca Dracula. Il reparto femminile è generoso con attrici che se non bravissime sono comunque di bellissimo ornamento e anche quello splatter non scherza con corpi tagliati in due da sciabolate, numerose decapitazioni e una bella orgetta al sangue. Ratger Hauer indossa i panni del famoso vampiro e, grazie a Dio, sembra che gli autori abbiano dimenticato la stronzata più grande della saga: la corrispondenza tra il principe delle Tenebre e Giuda Escariota! Comunque Hauer è abbastanza in forma e, pur se la sua parte, dura si e no cinque minuti, è una presenza scenica che si ricorda. Ma il piatto forte della pellicola è il finale beffardo e cattivello che non racconteremo, ma che innalza l’opera dal dimenticatoio dei prodotti usa e getta per il mercato video. A suo modo un buon film.


di Andrea Lanza

Zombie Nation di Ulli Lommel (2007)


Ulli Lommel è un insulto. A chi vorrebbe fare cinema e o le possibilità o le occasioni li castrano in partenza. Di riflesso i suoi film sono degli obbrobri di natura spropositata, se ne salvano forse due o tre, ma si parla di quasi trent’anni fa e il povero Ulli più che migliorare è peggiorato in questi decenni. Prendiamo il suo “Zombi nation” (ma lo spettro si potrebbe ampliare con “Zodiac”, The tomb” e ogni sua regia praticamente intercambiale), un film praticamente senza senso, una trappola per gonzi fin dalla copertina con questo zombi alla “Maniac cop” dalle ganasce scespirianamente aperte. Beh, incredibile dictu, questo morto vivente si vede solo alla fine, negli ultimi 3 secondi, per il resto abbiamo 5 sgallettate passate a miglior vita con un mascara pesante sulla faccia a simulare la loro zombesca nuova vita. La trama è assurda: si parte con un poliziotto sadico che uccide donne solo perché carine e la polizia che lo copre, poi diventa un horror con due effetti di cannibalismo fatti così male da non crederci dopo che le vittime grazie al voodoo si risvegliano e alla fine l’opera si rivela per quello che: il nulla camuffato da stronzata. Le novelle zombi mangiano carne umana, ma vengono presto apostrofate dalle sacerdotesse voodoo “Guardate che potete anche mangiare un cheeseburger”: questo per far capire il livello del film. A Lommel non gliene frega un’emerita cippa delle buone regole del fare un film: monta alla cazzo (le scene spesso e volentieri si interrompono senza perché), la fotografia è brutta e sciatta, la storia non esiste, gli attori sono allo sbando e non sanno bene se ridere o piangere. Almeno Decoteau è scusato: a lui piacciono i bei ragazzi e la sua inefficienza è dovuta al fatto che molla la mdp per palpeggiare i suoi attori di nascosto. Ma Lommel? Un tempo lui era legato a Suzanna Love, gran donna tra l’altro, ed era quello il suo periodo artistico migliore con un bel “Mirror” piazzato con rabbia nel panorama horror, un film misogeno, violento e sì rozzo, ma di un rozzo efficace un po’ alla Tobe Hooper. Poi? Si saranno lasciati? Lui avrà tentato il suicidio e andando in coma sarà degenerato in uno stadio di demenza incontrollabile. Roba che la gente potrebbe pensare “Ulli Lommel è un estroso”, no no, miei cari, Ulli Lomel è un idiota. E aggiungo: un incapace e un pazzo che vuole uccidere il cinema come il Dottor Zero coi suoi cazzo di missili. Come d’altronde etichettare un regista che nel ben mezzo di un massacro ti infila delle musiche che ricordano quelle di Timon e Pumba su Disney channel. Non demenziale, nocivo. Molto più piacevole andare a cena dal conte Dracula con un palo infilato nel culo. Credetemi.
di Andrea Lanza

Wednesday, May 14, 2008

La stanza della vendetta di Joe Otting (2007)


Quante volte avete pensato “Se avessi per le mani uno stupratore o un assassino di bambini io lo ucciderei”? Se rispondete mai o siete degli stancabili utopici della giustizia o nascondete un’identità da Giustiziere della notte. Beh in qualsiasi caso il protagonista di questo simpatico filmetto si trova davanti ad un bivio: è giusto uccidere chi ti ha ammazzato il figlio? Strano film questo “La stanza della vendetta”: un po’ buddy movie, un po’ “Saw”, un po’ “Hostel”, un po’ “I soliti sospetti”. Il protagonista, architetto di successo, si trova servito in un piatto d’argento l’assassino del suo bambino. All’inizio lo pesta a mani nude, poi prova un po’ di armi tra cui una pistola ed un trapano elettrico, poi sceglie di cominciare a inchiodargli le mani. Ed è lì che cominciano i guai: l’assassino che lui cerca ha un tatuaggio sul braccio e l’uomo davanti a lui no. Comincia allora una fuga in un complesso isolato, braccati da poliziotti con un’idea distorta di giustizia, dove i due nemici diventano amici, dove l’identità di nessuno è ben chiara. Sia ben chiaro il film non è nulla di trascendentale, ma come action è abbastanza originale, inizia come un torture movie per poi diventare un giallo ad incastro tra sparatorie e pareti che esplodono come in “Die hard”. I due attori protagonisti sono abbastanza convincenti, un po’ meno un doppiaggio televisivo, ma alla fine se si fa l’orecchio non disturba più di tanto. Semmai è l’autore della sceneggiatura a stupire: quel Joe Chapelle che nel genere horror regalò l’Halloween più tenebroso e alchemico, il 6. Niente da eccepire neanche sulla regia abbastanza ispirata del signor nessuno, Joe Otting, autore di uno o due filmetti senza infamia e senza lode. Da vedere senza farsi più di tante illusioni, ma il suo sporco lavoro di intrattenimento lo fa. Il titolo originale “Already dead” era sicuramento meglio di questo alla Agatha Christie.

di Andrea Lanza

Sunday, May 11, 2008

L'ULTIMO SCERIFFO (THE LAST MARSHAL) DI Mike Kirton (1999)

“Ho ucciso 17 uomini durante la mia attività di sceriffo,voglio arrivare a 20 prima della pensione….e mi manca davvero poco al pensionamento” urla contro uno sgherro del boss: ecco la filosofia dello sceriffo McClary. McClary è un uomo tutto d’un pezzo; odia i messicani, i pellerossa, gli ebrei ed ,in generale, tutto quanto non sia perfettamente “americano”. Un uomo del profondo Texas che non ha peli sulla lingua e che non esita a tirare il grilleto. La conoscenza dello sceriffo,interpretato da Glenn, è folgorante e la piega di questo B-movie sembra davvero far gridare al miracolo quando, dopo pochi minuti dai titoli di testa,assistiamo ad una carneficina in chiesa con tanto di pallottole esplose contro il prete ed il giudice federale. Quando,poi, quel sant’uomo del sacerdote,ferito,conferisce il sacro incarico di vendetta a McClary dicendogli: “…trova quel tizio,conficcagli un paletto nel cuore e consegnalo alla collera dell’Onnipotente”, c’è da esaltarsi come scimmie birmane. Purtroppo, le ottime premesse non vengono mantenute e la seconda parte del film riportano tutto nei binari del politically correct più becero. Assistiamo quindi ad una repentina discesa nel campo del buonismo che distruggono in maniera definitiva la caratterizzazione del retrogrado sceriffo,riducendolo alla mezza figura del solito buon padre di famiglia,tollerante e generoso. Una vera disdetta che lascia l’amaro in bocca e condanna questa pellicola a ritornare nel dimenticatoio dei film “da cestone del supermarket”,senza infamia ne lode. Tutto da buttare? Assolutamente no. Innanzitutto c’è uno svogliato William Forsythe che riesce pur sempre a dare un certo valore a qualsiasi villain. Scott Glenn non è mai assomigliato cosi tanto al mitico Warren Oates e sentire la sua voce roca nella versione originale del film è pur sempre una goduria. Insomma, un film che si lascia guardare, ma solo se rigorosamente accompagnato da un po’ di tortillas piccanti ed una buona birra gelata. Mexicana,of course.

Di ANDREA SCALISE

Friday, May 09, 2008

STREET KINGS di David Ayer (2008)

La sceneggiatura di The Night Watchman, poi diventato Street Kings, è passata di mano in mano per anni prima di vedere la luce sul grande schermo. Questo nonostante provenda dalla penna di un autore come James Ellroy, oggi ricercatissimo a Hollywood, con una sfilza di pellicole già realizzate da suoi romanzi e prossimamente in uscita White Jazz di Joe Carnahan e Land of the Living. Prima che lo script trovasse la sua realizzazione nelle mani di David Ayer era passato sotto gli occhi illustri di David Fincher, Spike Lee ed Oliver Stone senza concretizzarsi. Ellroy scrisse la storia ispirato dalla vicenda di O.J. Simpson e soprattutto dalla figura di Mark Fuhman, il poliziotto che cerco di incriminare illegalmente Simpson. Nella sceneggiatura di Ellroy non c'è nessuna star del football che ammazza la moglie e la passa liscia grazie ad un processo viziato da manipolazioni morali dell'opinione pubblica, ma si apre con la storia un poliziotto marcio, Tom Ludlow, che pur di annientare una banda di coreani che ha rapito due gemelline minorenni per farci dei filmini pedopornografici, non esita ad andarli a far fuori direttamente a casa loro inquinando la scena del crimine, in pieno Dirty Harry style. Per il dipartimento di polizia dell'LAPD sporcarsi le mani per far rispettare la legge è la prassi e l'intero sistema è consapevole e consenziente ma quando un poliziotto che stava denunciando lo sporco sotto il tappeto alle autorità morirà tra le braccia di Ludlow durante una rapina chiaramente falsa, si innescherà la reazione a catena che tirerà fuori una realtà ben più marcia. Il film di David Ayer mantiene quasi fedelmente la storia di Ellroy ma la adatta ermeticamente a quelli che sono divenuti gli standard del suo cinema tanto da combaciarvi perfettamente. Ayer ,che da squattrinato elettricista (soprav)vissuto nella downtown di LA ha trovato la via della gloria ad Hollywood grazie alla sceneggiatura di quella bomba ad orologeria che era Training Day, ha delineato in pochi film il proprio stile grezzo ma assolutamente individuale. Nel giro di alcune significative pellicole come sceneggiatore (Fast & Furious,Dark Blue, Training Day) ed al suo interessante seppur imperfetto esordio alla regia, Harsch Times (da noi i Giorni dell'Odio), ha creato una personale visione di L.A. per la quale la Città degli Angeli è un territorio di guerra dove la polizia è una della gang più violente e corrotte con protagonista un poliziotto dalla morale deviata e perverse, quasi sempre alcolizzato. Il sistema in cui si muovono le forze dell'ordine è una complessa scacchiera simile alla criminalità organizzata e questo è evidente anche in Street Kings, nonostante venga da Ellroy. Anzi, la storia è evidentemente una classica storia di corruzione dello scrittore losangelino tanto che, tirando fuori gli elementi moderni inseriti da Ayer, ci troviamo davanti a una versione aggiornata di L.A. Confidential. Ayer mostra tutti i suoi limiti nel momento in cui si incarta nella complessa costruzione delle investigazioni che non sempre riescono a tenere il filo di Arianna verso una via d'uscita plausibile, eppure ha un sincero gusto per l'intrattenimento e la rappresentazione delle scene d'azione. Un paio di sparatorie sono veramente spettacolari nonostante il loro montaggio sia di maniera. Come regista Ayer è rozzo come i suoi personaggi. Utilizza montaggi di scene riprese in multiangolo e ci mette su la classica musica epica tutta archi e tamburi da guerra metropolitana, ci mette il linguaggio da strada che conosce bene e armi da fuoco. Forse non si avrebbe lo stesso risultato senza un parco attori come quello di Street Kings, dove primeggia un Keanu Reeves divertito ma riconosciamo anche Forest Withaker e diverse facce dalle serie tv come Hugh Laurie( House MD), Amaury Nolasco (Prison Break) e tutta una serie di gangsta rapper abituè dei film action ambientati nel ghetto, ma nonostante il suo andamento barcollante Street Kings colpisce nei punti giusti e diverte. David Ayer vuole innanzitutto fare un film d'azione sporco e cattivo. Non cerca di dare un senso alla violenza, la usa nella maniera più materiale e lascia che sia il finale a parlare da sè. Quando i giochi si chiudono ed il volto dei cattivi viene alla luce, si comprende che il sistema è un mostro che ingoia i suoi cuccioli per sopravvivere e sostenerne altri, inarrestabile ed insensato con i re ed i sudditi colpevoli allo stesso modo.

di Gianluigi Perrone

Sunday, May 04, 2008

The Frightening di David Decoteau (2002)


Decoteau… Decoteau… Decoteau… Chi è? Che fa? Ci fa? Esiste? Domande che suonano retoriche se si vuole, allo stesso pari dei grandi enigmi della storia umana. E’ nato prima l’uovo o la gallina? La pro zia è un simbionte alieno che imita tua zia? Governo ladro… Non può piovere per sempre… Non esiste la mezza stagione… Quando c’era LUI i treni arrivavano sempre in orario… E così via in tripudio di frasi fatte che riescono soltanto ad accrescere il dubbio su come possa esistere un essere (alieno, umano o incerto non è dato saperlo) che possa girare film così brutti ed ottenere un certo successo di cassetta che lo elegga persino regista culto in qualche paese terzomondista (Burundi, Sri Lanka, Italia). Decoteau è l’Ed Wood del cinema gay, un uomo che strabatte i testicoli della coerenza narrativa, della tecnica cinematografica, dei buoni effetti speciali, per lui basta soltanto adibire la sala a mò di film porno con Gianna Michaels, la Jenna Jameson della serie B, e metterci una strafiga come ornamento per una bella orgetta di maschi in boxer bianchi. Roba che uno potrebbe dire “Cazzo, ma è un horror gay” con vari problemi di natura psicologica scatenanti: oddio lo vedo solo io, oddio non è che sarò anch’io gay, cazzo ma questi qui si toccano tra loro eppure guardano le ragazze, psicologaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa! E bravo Decoteau, l’Houdini del cinema eteramente omosessuale, lui in questa ambiguità ci sguazza come un maialetto nel trogolo, contento di vedere bei ragazzoni dai bicipiti scolpiti, vendere il tutto a ragazzette in fregola che nulla capiscono di cinema e, cosa importante, contare i soldi guadagnati. Maledetto uomo dal nome da uovo alla coque! Ma torniamo al film perché di tutto abbiamo parlato forchè di questo nuovo prodotto che si vuole thriller horror. Male perchè “The fightening”, come già in passato “Ring of darkness”, è un prodotto quasi discreto. Questa volta Decoteau quasi sembra svegliarsi dal torpore solito, gira sì come un epilettico le scene cercando un virtuosismo che non ottiene, ma cazzo per lo meno ci prova! Di solito i Decoteau movie hanno questa macchina da presa che si sposta solo se la pendono a calci, qui invece è pimpante per lo meno, si muove tra i corridoi di una scuola come un Dario Argento cieco, non sta mai ferma in una sorta di vaffanculo della buona tecnica cinematografica, ma è un inizio comunque dopo tremila film di torpore quasi comatoso. La storia, pur nei suoi dialoghi scemi, è meno stupida del previsto: si affronta un tema caro a Romero e King, quello degli psicopompi (niente battutacce please!), ovvero figure divine che accompagnano le anime dei morti dalla nostra Terra all'oltretomba. Il Re del Maine li descrive come uccelli, Decoteau meno sottilmente come adolescenti che nerovestiti uccidono i trapassati per permettere il passaggio. Il sangue incredibilmente scorre abbastanza (qualche bella coltellata) e il film regala, soprattutto nella conclusione della vicenda, qualche bel colpo di sceneggiatura con un finale tutt’altro che risaputo. Si sa che è sempre Decoteau, ma anche il livello di uomini in boxer bianchi è inferiore a robacce come “Final stab” e il film, pur se ridicolo (tra tutto i sogni o i ripetuti rallenti che si vogliono enfatici), è interessante. Si potrebbe quasi consigliarlo. Quasi, naturalmente.


di Andrea Lanza

Saturday, May 03, 2008

PASSAGGIO NELLA NOTTE (Night Passage)di R obert Harmon(2006)

Vi sono personaggi che hanno decretato allo stesso tempo le fortune e la maledizione di un attore. Magnum P.I. è stato per Tom Selleck una svolta per quel che concerne la notorietà,ma anche la dannazione per il suo prosieguo nell’attività d’attore. Selleck,con quella faccia da duro impenitente, che gli avrebbe portato,si narra ,persino,una offerta per interpretare il ruolo di Indiana Jones(ruolo che avrebbe rifiutato e poi sarebbe finito a Ford)ha cercato invano di costruirsi una carriera lontano dal piccolo schermo televisivo,senza mai riuscire a far dimenticare al pubblico il ruolo dell’investigatore con la ferrari che ne ha decretato il successo. Ritrovarlo in questo piccolo grande noir rurale è una piccola soddisfazione per chi,come me, ha sempre sostenuto che col vecchio Tom la dea bendata del Cinema è stata ingenerosa. Selleck è un ex poliziotto della anti-crimine,cacciato per un piccolo “problemino” di alcolismo,che accetta il lavoro di sceriffo in una sonnacchiosa cittadina. Inizia cosi un viaggio coast to coast per giungere dall’altra parte degli U.S.A.,con ,come unico compagno, il suo fedele cagnone Boomer. Scoprirà che la tranquillità della sua nuova città è solo apparente. “Passaggio nella notte” è un film molto semplice nella propria costruzione,senza troppi fronzoli: sappiamo da subito chi sono i buoni e chi sono i cattivi e non ci aspettano colpi di scena. Eppure questa america di provincia, da paragonare a quella di Copland,lascia il segno. Lascia anche il segno il personaggio delineato da Selleck,un uomo taciturno,in perenne conflitto con la bottiglia ,che ha come unico e solo amico il proprio cane. Vi è una grande tristezza di fondo che pervade questa pellicola e che attraversa ,come un proiettile, il cuore pulsante dell’America stessa, lasciando ,alla fine della visione, quell’amara riflessione sulla vita che solo i piccoli grandi noir sanno trasmettere


Di ANDREA SCALISE