Thursday, August 23, 2007

THE DARK di John Fawcett (2006)

Nel tentativo di riappacificarsi con suo marito James, Adele decide di partire con la figlioletta Sarah, raggiungendolo in uno chalet su una scogliera della Scozia. Durante la gita però, Sarah cade in mare ed annega prima che riescano a trarla in salvo. Il cadavere scompare tra i flutti del mare, vero protagonista del film, qui nel doppio ruolo di creatura purificatrice e simbolo di un altrove alieno. Inizia così il calvario di Adèle, tormentata da una serie di strane e paurose visioni con protagonista la figlia morta. Cosa si nasconde dietro al dolore di genitore che ha perso il proprio figlio? E se quelli che ad un occhio razionale sembrerebbero solo vaneggiamenti, in realtà celassero una verità ben più maligna ed antica? Fawcett, regista del discreto Ginger Snaps (da noi Licantropia Evolution) torna con questa fiaba dark tratta dal romanzo "Sheep" di Simon Maginn. Lo fa usando i canoni tanto in voga da qualche anno a questa parte, quelli dell'horror moderno asiatico di the Ring e famiglia, dilatando i tempi e creando un’atmosfera cupa e morbosa, tenendo come riferimento quel film inquietante che risponde al nome di Pet Cemetery, o meglio nel sunto di base: "ciò che è morto non può tornare tra i vivi, qual'ora ritornasse, non sarebbe più lo stesso." Film d'atmosfera dunque, che non rinuncia a puntare il dito sui rapporti famigliari come succedeva nel sopracitato Ginger Snaps, dove la licantropia era un modo come un altro per raccontare le difficoltà degli adolescenti e la loro dipendenza alle droghe. In questo caso è il nucleo famigliare al centro dell’attenzione: le incomprensioni tra i genitori che si ripercuotono in maniera esponenziale sui figli, già perseguitati dai problemi del quotidiano vivere. Ragazzi privi di figure cardine, costretti loro malgrado, a proiettare le insoddisfazioni e le ansie di una società alla resa dei conti. Fawcett gira con una certa maestria, le continue riprese sui flutti d'acqua del mare che si rifrangono sugli scogli, descrivono alla perfezione lo stato d’animo dei protagonisti. E quando entra in gioco il paranormale, un sapiente uso di scenografie illuminate come un film gotico e un montaggio calibrato ne completano l’opera. Effetti speciali ridotti al minimo per un film che punta tutto sull’angoscia intima di un genitore alle prese con un dolore insanabile. Horror solo nella forma quindi, un maggior orientamento verso il lato prettamente exploitation avrebbe fatto di The dark un piccolo cult. Fawcett è da tenere d’occhio!

di Marco Figoni

EAT & RUN di Christopher Hart (1986)

Probabilmente l’idea per il soggetto di questo film è nata durante una cena in un ristornate Italiano. Supposizione un po’ ardita, ma condendola con un bicchiere di troppo di buon vino Italiano appare tutt’altro che bizzarra. Immagino la tavolata, subito dopo cena, passa un uomo obeso attirando l’attenzione di tutti mentre i commensali ruttano di nascosto o meno piatti carichi di buon aglio. Qualcuno all’improvviso con voce e sorriso sarcastico se ne esce con l’idea di un alieno ciccione che mangia cibo preparato all’italiana. Poi questi viene subito interrotto da un altro commensale che nega la semplicità e aggiunge, per suscitare le risa della tavolata, che l’alieno in questione si nutre direttamente di Italiani! Quasi a sfiorare la battuta politicamente scorretta. Congetture a parte il soggetto di questo film ha del geniale, un alieno abnorme, ciccione, laido, sudato, sull’orlo del tracollo fisico e vestito in maniera a dir poco barocca, nell’accezione dispregiativa, si ciba di Italiani. Un poliziotto, quasi caricatura del solito sbirro fallito e depresso che trova il caso che gli cambierà la vita, o per lo meno che gli eviti il suicidio, si mette sulle tracce di questo misterioso omicida fino a scoprire la patetica verità. Già il titolo è bizzarro, “mangia e corri” tradotto letteralmente: ci immaginiamo il ciccione correre e subito ci si mette le mani tra i capelli. Il film è girato da un semisconosciuto Christopher Hart, Americano che prima di dirigere questo gioiellino ipercalorico confeziona un solo episodio della serie tv TALES FROM THE CRIPT. Il film trasuda anni ’80, non solo per l’ovvio fatto che è datato 1986, ma anche per la struttura trita e ritrita degli eventi. Siamo in ambito horror poliziesco, sebbene sia parodia di entrambi i generi, ma la cosa che innalza l’interesse nei confronti di EAT AND RUN è che la parodia è velata, nel senso che sembra paradossalmente prendersi sul serio per poi sfociare di continuo in situazioni deliranti mai compiaciute. Il telespettatore è unico giudice delle “atrocità” che gli vengono propinate, non viene mai suggerita la prossima situazione ridicola. Quasi una divertita mancanza di rispetto, una mandare a quel paese numerosissimi film impegnati e di successo che vantano la stessa struttura. Christopher Hart sfrutta l’idea bizzarra e la mette in gioco compiaciuto, da questo punto di vista è inattaccabile il suo operato. Difficile credere che la nomea di piccolo cult non si sia diffusa tra cinefili e cannibali di sorta.

di Davide Casale

PLATILLOS VOLANTE di Óscar Aibar (2003)

Platillos Volantes, dischi volanti, è un film ispirato ad un curioso fatto avvenuto tra il 1971 e il 1972 a Barcellona, nel pieno della dittatura Franchista. Aibar, come molti registi della sua generazione, interpreta personalmente il periodo buio della dittatura, permeato dalla paura e dal timore di apparire diversi concentrandosi sulla fotografia e i costumi, mantenendo questi aspetti sulla tonalità del grigio, come l’animo delle persone che vivono questa Barcellona stretta nella morsa del controllo, dove le uniche valvole di sfogo si situano all’interno degli appartamenti dei ricchi, di chi se lo può permettere, la moglie del datore di lavoro dei due protagonisti, ubriacona e adultera tra le mura domestiche, ne è un esempio perfetto. I protagonisti sono appunto due: Josè e Juan, il primo un operaio scontento, che rifiuta la condizione dittatoriale in maniera eccessiva dopo aver tentato varie forme di sovversione più o meno organizzata, alienandosi dalla realtà per sfuggirne, si “rifugia” in un mondo in cui lui è in contatto con gli extraterrestri e ha una missione da compiere per conto “di quelli veramente in alto”. Il giovane Juan viene in un certo modo coinvolto nel sogno- ossessione di Juan, il quale lo convince di vari eventi che accadranno, come una sorta di profezia letta attraverso improbabili segnali extraterrestri. E’ abbastanza chiaro come la parola per decifrare il significato di questo film sia FUGA, il fuggire da una realtà scomoda, e proprio chi possiede (troppa) fantasia e creatività, caratteristiche non sfruttate ma anzi soppresse come in qualsiasi regime totalitario, utilizzerà le proprie capacità per alienarsi, per trovare una via di fuga disperata e border line. Il fatto che le vicende siano ispirate a fatti realmente accaduti ci ricorda continuamente che quella sorta di gioco al quale stiamo assistendo non è un gioco, sebbene gli eventi siano narrati con un piglio quasi fiabesco – grottesco. L’avvicinamento dei due al mondo degli ufo, soprattutto del giovane Juan, avviene in maniera quasi fanciullesca, i suoi occhi sono tutt’altro che increduli sebbene appaiano tali, e la speranza di un qualcosa di diverso, che cambi le cose, viene sfruttata in ogni dove, in ogni parola, in ogni sussurro come un appiglio da cui non perdere la presa per nessun motivo. Anche in un regime si può sognare, ma non si può vivere dentro se stessi, perché prima o poi si arriva a un bivio e questo film ci mette in mostra due cose: in primis il bivio a cui si può arrivare e quello che la nostra mente può essere in grado di mostrarci per proteggere se stessa da chi tenta di limitarla attraverso il controllo. La fuga da questa violenza legalizzata diventa l’unica cosa per cui vale la pena non solo vivere, ma nascere. Al contrario chi si adegua nutre l’oppressione e l’oppressore che si alimenta di paura. La sceneggiatura è molto solida, oltre al regista la firma Jorge Guerricaechevarría, braccio destro di Alex De la Iglesia e collaboratore anche di Almodovar. Platillos Volantes è un progetto particolare ispirato da una storia anch’essa particolare. Eventi che capitano soltanto in particolari condizioni. Il fatto di cui si narra è una deformazione sociale, rara ma realmente avvenuta, quindi più che possibile. Gli eventi qui ricordati sono come l’avvistamento di un oggetto non identificato, un qualcosa che è praticamente impossibile prevedere nelle sue conseguenze.


di Davide Casale

CRY BABY di John Waters (1990)

Cry Baby, un giovane ragazzo di Baltimora, un rocker ribelle e senza causa. La rappresentazione della gioventù bruciata Americana e contestatrice degli anni ’50. Un ragazzo affascinante dal ciuffo impomatato, dall’infanzia disastrata e destinato all’inferno. Il tatuaggio di una sedia elettrica che ha ucciso i suoi genitori, accusati di strage, è metafora della sua vita all’insegna di un futuro privato, della strada in cui è incanalato, una strada che sa di zolfo lastricata di rock’n roll, motociclette, macchine con le fiamme dipinte, giacche di pelle, profumo di brillantina e pupe sexy pronte a saltargli addosso. Cosa ci sarò di infernale direte voi, ma siamo negli anni cinquanta… La realtà di Cry Baby, interpretato da un giovane Johnny Depp si oppone a quella dei bravi ragazzi, i quali si definiscono “regolari”, quasi la contrapposizione che vi era in I RAGAZZI DELLA 56° STRADA. Ad inizio film ribelli e regolari sono in fila assieme per il vaccino, una cosa che tutti devono fare e che rappresenta l’unico punto che li vede uniti in tutto il film. In seguito sarà guerra aperta tra le due fazioni. Il giovane protagonista si invaghisce di Allison Vernon-Williams, interpretata da Amy Locane, la quale fa parte dei “regolari”, ma che ricambia il colpo di fulmine nei confronti di Cry Baby e si mette contro i suoi amici e la zia, una delle donne più severe e “per bene” di tutta Baltimora. John Waters condisce tutto questo in salsa musical con pezzi rock’n roll e continue esibizioni canore sia dei bulli che dei ragazzi per bene. Il regista esalta le due fazioni arricchendole ed esaltandole di stereotipi, rovesciando i ruoli durante la progressione del film. I bravi ragazzi si vedranno essere meschini, viziati, stupidi, ma soprattutto costretti in un ruolo che non è naturale, che crea rabbia e che diventa nocivo. John Waters non solo parteggia per Cry Baby e la sua combriccola, ma ce lo fa vedere come una sorta di semi dio, una sua lacrima lungo il volto, frutto di un passato tremendo che si infrange contro una dura scorza che maschera una grande e profonda sensibilità, ipnotizza chiunque la guardi. La gente si scioglie al vedere le sue lacrime di felicità, tristezza, ingenuità. che sgorgano come aspettando un grido da una platea immensa. Le caratteristiche di ogni personaggio sono esaltate attraverso stereotipi perfettamente funzionali alla sceneggiatura, ogni frase, ogni sguardo, ha un determinato senso e gli stacchi in cui il film diviene vero e proprio musical sono inseriti alla perfezione in maniera intelligente e perfettamente lineare. Ma dopo GRASSO E BELLO, opera precedente di Waters, questo ce lo si aspettava. Anche il cast è formidabile e la scelta degli attori è frutto di una fantasia che solo John Waters possiede. Johnny Depp è perfetto, Iggy Pop coi capelli corti fa coppia con Susan Tyrrell, celebre star di B-MOVIE oltreoceano, ma non finisce qui, abbiamo al presenza di Tracy Lords che è a dir poco mozzafiato rappresentando la perfetta rock’n roll girl bella e dannata, anticonformista che si oppone ad una famiglia di fanatici religiosi, una con le palle insomma. Joe Dalessandro non ha bisogno di presentazioni dato che la Factory di Andy Warhol lo ha più che sdoganato durante gli anni ’70. Kim McGuire interpreta invece Hatchet-Face, una ragazza rocker cattivissima, dal volto orrendo ed è esaltante quando Cry Baby le si rivolge teneramente dicendole che il suo volto è bellissimo, perché lui lo crede veramente nella sua purezza. Ed è proprio questo il messaggio di Waters, potrebbe apparire banale se non fosse inserito negli anni ’50, ma in quei tempi, e purtroppo non solo, chi era diverso dall’essere “regolare” era destinato all’inferno o alla prigione, meglio se all’inferno tramite sedia elettrica. Quando il sogno Americano era dio e quel dio era il capitalismo più sfrenato solo la galera e la sopraffazione potevano salvaguardare la falsità di chi si conformava all’immaginario creato dalle pubblicità della Coca Cola e delle cere per pavimenti. Era tutto vero, e quello che il regista ci fa vedere è quello che probabilmente non è mai successo. La bellezza di una lacrima lungo una gota purtroppo non ha mai salvato nessuno, sebbene sia uno dei motivi più nobili per cui pensare alle proprie intenzioni.

di Davide Casale

LA TAGLIA E' TUA L'UOMO L'AMMAZZO IO di Edoardo Mulargia (1969)

El Puro, questo l'altro titolo del film dal nome del protagonista, è considerato l'unico western buddista e l'unico in cui c'è un bacio omosessuale tra due cowboy. E' la storia di un gruppo di bounty killers che danno la caccia ad un criminale pentito, appunto El Puro. La stranezza del film sta nelle attitudini dei protagonisti (non sessuali,credo) Mark Fiorini e Robert Woods, due personaggi new age che volevano dare un taglio inedito al film, con il beneplacido di Mulargia.

di Gianluigi Perrone

UNA LUNGA FILA DI CROCI di Sergio Garrone (1968)

Divertente western di Sergio Garrone che girò in condizioni precarissime. I due bounty killer interpretati da William Berger e Antony Steffen sono micidiali, soprattutto Bibbia Murdoch che ispirò il personaggio di Samuel L. Jackson per la sua famosa frase in Pulp Fiction, infatti anche lui recitava la bibbia prima di uccidere. Molto divertente.

di Gianluigi Perrone

PREPARATI LA BARA di Ferdinando Baldi (1967)

Sequel di Django, dallo stesso sceneggiatore, Franco Rossetti, ma con diversa regia e protagonista. Sergio Corbucci viene sostituito dal pur ottimo Ferdinando Baldi e Terence Hill ha la sua grande occasione come sosia di Franco Nero. E la cosa funziona. Preparati la Bara non è oscuro come il suo predecessore ma è ugualmente fresco e forse scritto molto meglio visto che la trama ha un senso compiuto ed un susseguirsi di eventi sensati. Django viene tradito e cerca vendetta, subisce come in passato ma nel finale incredibile stermina i nemici con la sua mitragliatrice.

di Gianluigi Perrone

OGNUNO PER SE' di Giorgio Capitani (1967)

Ognuno per sè doveva essere diretto da Lucio Fulci, invece il lavoro passo a Giorgio Capitani che qui dirige l'unico western della sua carriera. La storia è molto semplice, un gruppo di banditi che deve portare una carico d'oro verso la città, però la sceneggiatura di DiLeo cerca di dare profondità e spessore ai personaggi ed il risultato ne guadagna ampiamente.

di Gianlugi Perrone

LA MORTE NON CONTA I DOLLARI di Riccardo Freda (1967)

Unico western di Freda, modesto a dirla tutta, pare a causa del budget bassissimo e soprattutto di un montaggio castrante che eliminò le scene migliori(cioè quelle violente). freda lo firmò con uno pseudonimo perchè non lo amava. La storia è quella di due figli che vendicano la morte del padre. Il cast è abbastanza anonimo.

di Gianluigi Perrone

EL DESPERADO di Franco Rossetti (1967)

El Desperado è l'unico film di Franco Rossetti che è stato sceneggiatore di tutti i più grandi film di Sergio Corbucci e Ferdinando Baldi, uno dei padri di Django. Paradossalmente è proprio la sceneggiatura il punto debole di questo film, particolarmente confusa e incomprensibile, soprattutto per quanto riguarda alcuni comportamenti dei personaggi. Interessante l'atmosfera oscura e decadente del film che ricorda molto quelladi altri personaggi dello sceneggiatore.

di Gianluigi Perrone

YANKEE di Tinto Brass (1966)

Unico, naturalmente pazzesco, western di Tinto Brass che girò per motivi alimentari ma non volle concedere di abbandonare le sue sperimentazioni. Una storia epica di due personaggi oscuri,uno solitario ed errante,uno anziano, potente e spietato che si massacrano. Brass ci mette tutte le influenze pittoriche del suo stile, da Dalì a DeChirico e afferma di voler fare un film ad ideogrammi cinesi. Lui sono sa cosa intendeva, comunque, vero o meno,il fatto che la produzione l'abbia rimontato ha snaturato il progetto.

di Gianluigi Perrone

IL TEMPO DEGLI AVVOLTOI di Nando Cicero (1967)

Ideale seguito di Kitosch, Nando Cicero gira questo suo terzo western come sa fare lui, quindi mettendoci un sacco di elementi exploitation. Violenza e sesso la fanno da padroni (più il secondo che il primo) tant'è che nel cast c'è Femi Benussi che mostra spesso le sue grazie e costringe il film a un divieto ai minori di 18 anni. Cicero dirige un po' in maniera stanca ed alcuni momenti diventano a volte noiosi.

di Gianluigi Perrone

UN FIUME DI DOLLARI di Carlo Lizzani (1966)

Pellicola girata da Lizzani in alternanza di quelle più impegnate per permettere un grosso guadagno a DeLaurentis ed assicurarsi la carriera, il regista non amò questo suo primo western. Classica storia di vendetta vanta una partecipazione importante come quella di Henry Silva. Comunque un lavoro interessante grazie alle capacità innegabili del regista.

di Gianluigi Perrone

SUGAR COLT di Franco Giraldi (1966)

Poco da dire su Sugar Colt se non che fu uno dei primi western comedy. Giraldi voleva prendersi una pausa rilassante e girò questo film leggero con un attore sconosciuto. La storia verte intorno a questo Sugar Colt che travestito da dottorino deve scoprire le trame di alcuni banditi e,in un saloon bordello, se la deve vedere con delle pistolere armate fino ai denti. Niente di che ma la presenza di Soledad Miranda fa moltissimo.

di Gianluigi Perrone

UN DOLLARO BUCATO di Giorgio Ferroni (1965)

Secondo western di Giuliano Gemma (alias Montgomery Woods), il film di Ferroni conquistò il pubblico per la semplicità ed immediatezza della storia raccontata. Due fratelli sudisti che dividono le proprie strade e si ritrovano faccia a faccia nella più classica delle situazioni. Il western di Ferroni risente più della struttura americana che di quella "leoniana" e forse questo aspetto lo rese così amato.

di Gianluigi Perrone

RINGO NEL NEBRASKA di Mario Bava e Antonio Román (1965)

Più che il film è interessante la storia che c'è dietro. Questo spaghetti spagnolo è una specie di storia romantica ambientata nel west con in mezzo un po' di ironia e sensualità (storie di corna sottaciute). Il regista era Antonio Romàn, un uomo molto vicino al generalissimo Franco, ma a causa di problemi produttivi( probabilmente dovuti alla location invernale) gli mandarono Mario Bava che probabilmente mise mano a molto del materiale, risolvendo tutti i problemi che poi avrebbero determinato l'aspetto del film.

di Gianluigi Perrone

IL RITORNO DI RINGO di Duccio Tessari (1965)

Dopo l'enorme successo del primo Ringo Montgomery Wood alias Giuliano Gemma torna nei panni del pistolero senza macchia. Siccome squadra vincente non si cambia ecco tornare anche Duccio Tessari dietro la macchina da presa. La sceneggiatura si rifà direttamente all'Odissea,Ringo torna a casa e trova che gli hanno ammazzato il padre, espropriato le terre e c'è chi gli vuole anche trombare la moglie. Mette insieme un gruppo di desperados che partono insieme a lui per avere vendetta. Altro grande successo, il film di Tessari è,nello stile dell'autore, un western classico, fordiano e a volte stereotipato dove i buoni sono i buoni e i cattivi i cattivi.

di Gianluigi Perrone

10.000 DOLLARI PER RINGO di Alberto De Martino (1965)

Grande, piccolo film del sempre ottimo De Martino che gira all' americana con ottimi attori ed una storia di tutto rispetto. Il film sfrutta il nome di Ringo ma senza Giuliano Gemma, causando la famosa polemica del "vero,unico Ringo, diffidate dalle imitazioni" manco fosse un medicinale. La storia riprende un po' Per un Pugno di Dollari ma ampliandola e rimaneggiandola. il risultato è tuttavia discreto. Tra i primissimi del genere.

di Gianluigi Perrone

I SETTE DEL TEXAS di Joaquin Luis Romero Marchent (1964)

Marchent è forse più famoso per Cut-Throat Nine (o Condenados a Vivir) per la sua violenza insita ma probabilmente è questo Ante llegas la muerte il suo film migliore. Disperatamente malinconico ed oscuro, uno dei western più disperati e realistici specchio del lutto del regista in quel periodo. La storia di vendetta tra Bob Carrey (Paul Paiget) e Ringo (Robert Hundar) e i suoi fratelli. Il primo esce di prigione per aver ucciso il fratello di Ringo che a sua volta aveva fatto un torto alla sua donan che ora lo ha abbandonato per un altro uomo. Tra vari battibecchi le due fazioni si scontreranno e inizialmente ne avrà la peggio Ringo. Maria, che è malata e deve andare a farsi curare, finisce in mezzo alla lotta senza c'entrare nulla. Incredibilmente tragico nel finale, i Sette del Texas è tra le opere più amare del genere.

di Gianluigi Perrone

Wednesday, August 22, 2007

KEOMA, Enzo G. Castellari (1976)

“Keoma perché sei venuto, perché sei tornato..” La morte stessa si rivolge a Keoma nei panni di una mendicante dagli occhi di ghiaccio, dopo che a cavallo e con i capelli lunghi da meticcio varca implacabile le soglie di un paese distrutto e lasciato all’abbandono, pieno di cadaveri, una sorta di ambiente post-nucleare in cui le radiazioni sono il piombo e la peste che flagella vite accompagnata da una morte che soffre per sé stessa. La grande mietitrice chiede a Keoma di tornare da dove è venuto, ma lui, come in una missione in un’iconografia sacra, non può fermarsi di fronte al suo destino. Il protagonista ritorna nel suo paese dove troverà i suoi fratellastri che lo odiano e un padre protettivo che ha sempre suscitato l’ira di questi, la peste imperversa e un signorotto senza scrupoli tiene in scacco la popolazione sfruttandola in ogni maniera possibile. Keoma ci si metterà contro. Le superbe musiche dei fratelli De Angelis accompagnano le riprese altrettanto notevoli di questo film, curate nei minimi dettagli e pronte ad accogliere la saturazione di un genere. I dettagli sono molti, troppi rispetto all’iconografia degli spaghetti western precedenti, ma questo è uno di quei film che chiude l’epopea del genere e si eleva ad un punto di vista perfettamente conscio e filtrato da un’simbologia sacra del tutto peculiare. Il paese è l’inferno e Franco Nero, che interpreta il protagonista, è inizialmente un angelo vendicatore per poi sublimarsi in una sorta di Gesù Cristo che attraversa la sua personale valle di lacrime in cerca di sé stesso. Inutile dire che è un essere incompreso dagli altri ma anche da sé stesso, come dirà con le sue parole parlando col padre. Il personaggio del “negro”, come lo chiamano con disprezzo gli scagnozzi del latifondista, ha spesso uno strumento musicale tra le mani e funge quasi da cantore muto in linea con la disperazione di quei luoghi che sembrano quasi sospesi tra realtà e sogno. Le panoramiche delle cavalcate fuori del paese tra i prati sono sconfinate, mentre quelle all’interno del paese non lasciano quasi mai intravedere il cielo Castellari rende la cittadina un vero e proprio inferno claustrofobico dove l’unico respiro è la violenza. Alcuni ralenti presenti nel film sono stati spesso criticati, ma possono essere visti come uno stilema tipico delle sequenze di guerra (la guerra è l’inferno), quelli iniziali ricordano alcune famose fotografie scattate durante la guerra civile Spagnola, in particolare la foto simbolo di Robert Capa dell’uomo colpito a morte e sul punto di rovinare a terra. Keoma è uno dei migliori spaghetti western, ma non solo per la meticolosa tecnica con cui è girato, anche per la poesia che è insita in esso e per l’approfondimento dei personaggi, tramite dettagli quasi impercettibili ma funzionali in ogni loro aspetto. Se il cinema bis fosse come il personaggio di Keoma potrebbe solo rinascere… “Il mondo è marcio” risponde alla morte Keoma. Un dito, due dita, tre dita, quattro dita. Buio in sala.

di Davide Casale

IL MIO NOME E’ NESSUNO, Tonino Valerii (1973)

Film è prodotto e tratto da un soggetto di Sergio Leone, il quale segna il suo addio allo spaghetti western. La regia è affidata a Tonino Valerii, il quale dirige un duo atipico, ossia Terence Hill e il grande Henry Fonda. La storia è piuttosto semplice e vede il signor Nessuno, un ironico e misterioso Terence Hill, che si affianca apparentemente per caso allo stanco e vecchio Jack, un mito del lontano West il quale sogna di ritirarsi e andare in Europa a godersi gli ultimo anni della sua vita. Qui il parallelo col personaggio di Fonda e il regista Sergio Leone sembra quasi evidente. Nessuno segue il suo mito e lo convince a non partire, o per lo meno desidera che Jack faccia un’ultima grande impresa, un gesto per cui il suo nome possa entrare nei libri di storia, Nessuno è intenzionato ad aiutarlo, oltre che a spingerlo, in questa impresa. Si tratta di sconfiggere un altro mito del west, il famoso mucchio selvaggio, oltre un centinaio di banditi di cui si narra l’invincibilità e si racconta che al loro passaggio la terra tremi. Il film scorre scanzonato e con un arredo ironico messo in campo dall’interpretazione di Terence Hill, che con la sua ingenuità mista a furbizia, mascherata dal volto angelico ne sa una più del diavolo, fino a portare il sue eroe ad una sequenza che fa venire la pelle d’oca. Lo scontro di uno contro il Mucchio Selvaggio mentre vediamo le sequenze saldarsi ai libri di storia. Il mucchio selvaggio avanza tra la polvere all’orizzonte e appoggiato al binario c’è Jack con vicino Nessuno, la musica di sottofondo è incalzante come la voglia che ci viene trasmessa della buona riuscita dell’impresa. Epopea con sentori nostalgici che riesce quasi a commuovere sebbene l’ironia non manchi durante il film.

di Davide Casale

IL BOUNTY KILLER di Eugenio Martin (1966)

The Bounty Killer è il classico film fatto a più mani. Tra i primi spaghetti spagnoli, il film entra nelle mani di Eugenio Martin dopo che la prima scelta sarebbe dovuta essere nientemeno che Sergio Leone. Il film, tratto dal racconto di Marvin H. Albert "The Law & Jack Wade", vede una risma di sceneggiatori per la scrittura, tra cui J.D. Prindle (Duello nel Texas) e José Guiterrez Maesso(Minnesota Clay,Django,i Crudeli), oltre allo stesso regista ma deve al protagonista Tomas Milian l'aspetto più profondo del personaggio. Infatti il bandito Jose Gomez,fuggito di prigione, è inizialmente un terribile carnefice ma per volere dell'attore cubano ha delle motivazioni raziali e sociali che lo portano a diventare così spietato. Al suo seguito c'è il bounty killer del titolo,Luke Chilson (Richard Wyler), che cerca di stanarlo nel suo paese natale. Qui scopre che Gomez è molto amato dalla popolazione locale che lo difende rivelando che non è poi così malvagio, Il film forse la mena un po' troppo con questi continui sensi di colpa di Gomez che sembrano incongruenti e forse messi lì per accontentare Milian che non amava interpretare un messicano malvagio. Il film è visivamente molto bello,comunque, grazie soprattutto al direttore della fotografia che, guarda un po' è quell'Enzo Barboni che conosceremo meglio come H.b. Clucher. Suggestiva la scena al crepuscolo con l'appartamento sparpagliato in mezzo alla steppa.

di Gianluigi Perrone

SE SEI VIVO SPARA di Giulio Questi (1967)

Delirante capolavoro dello spaghetti Western, Oro Hondo, l'altro titolo del film, è una figata pazzesca che Questi concepì come esperimento da una produzione incredibilmente scalcinata. Come un'opera del genere venne da quintali di carne macellata (il produttore pare fosse un macellaio arricchito), così il protagonista, Hondo,Tomas Milian,tradito dopo una rapina e tolto di mezzo insieme ad altri messicani, viene fuori mezzo morto da una montagna di cadaveri e torna in vita grazie alla magia degli stregoni indiani. Torna dai banditi che lo hanno massacrato per farsi giustizia armato di pallottole d'oro. Un western visivamente potentissimo,eccessivo,violento ai limiti dello splatter (tanto che per qualcuno è un western horror). Incredibile riflessione sulla avidità umana esplicata dall'avidità con cui alcuni avventori si accaniscono sulle membra di un uomo non appena scoprono che è imbottito di oro. E gente impiccata ovunque. La colonna sonora di Ivan Vandor incalza fino a diventare opprimente ma mantiene una epicità quasi definitive. Non sfigurerebbe se fosse l'ultimo spaghetti western della storia. Unico. Ed era solo il primo film di Questi.

di Gianluigi Perrone

LO CHIAMAVANO TRINITA’, Enzo Barboni (1970)

Non è la prima volta che Bud Spencer e Terence Hill fanno coppia in un film, e nemmeno in un film western, ma a differenza di lavori come Dio Perdona…Io no, qui vi è una mutazione in chiave ironica. La comicità che pervade il duo segna l’alpha della commedia nello spaghetti western. Non è solo sabbia e polvere da sparo, vendette e duelli al sole bruciante, ma entrano prepotentemente in campo i giochini di astuzia di Terence Hill e le botte da orbi che sponsorizza l’ex campione di nuoto Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer. L’inizio del film è a dir poco un mito, il pigro Trinità ( Terence Hill) si fa trascinare su una branda trainata dal suo cavallo, sequenza di apertura accompagnata dalle musiche dei fratelli De Angelis, pezzi che entreranno nella storia del cinema Italiano di genere. L’incontro con Bambino (Bud Spancer), nomignolo che è in contrapposizione la forza bruta ma non col carattere scontroso-capriccioso dell’energumeno, non sarà dei più lieti, ma la loro rivalità tipica di due fratelli si placherà quando Bambino, da buon ladro di bestiame, illustrerà il suo piano di rubare una mandria di cavalli al maggiore Maggiore Harrison (Farley Granger) al fratello. Per mettere a segno il colpo i due fratelli non esiteranno a infiltrarsi in una comunità di Mormoni osteggiati dal Maggiore che vuole a tutti i costi impadronirsi del loro terreno per espandere i suoi pascoli. Trinità farà subito colpo sulle giovani ragazze della comunità, al contrario di Bambino fino all’ultimo sarà scontroso con chicchessia mascherando la benevolenza nel volerli aiutare con l’obbiettivo del furto e non ultimo un gran cuore. Le gag del duo qui si consolidano, i ceffoni di Bud Spencer dal tipico suono faranno impazzire le platee dei cinema dell’epoca, gli incassi al cinema saranno altissimi tanto da consolidare il duo nell’accezione comica e dare vita nel futuro a numerosi progetti anche al di fuori del genere spaghetti western. Distruzione, pestaggi, tutto in chiave ironica, grandi abbuffate di fagioli che nell’immaginario comune diventeranno i fagioli alla Terence Hill, particolari ormai eterni lanciati da questo film, che già dal titolo e nome di uno dei protagonisti entra nell’ olimpo del cinema di genere Italiano.

di Davide Casale

LA VENDETTA E' UN PIATTO CHE SI SERVE FREDDO di Pasquale Squitieri (1971)

Il secondo western di Pasquale Squitieri rispecchia gli intenti politico reazionari che di lì a poco sarebbe divenuti marchio di fabbrica del regista partenopeo. Con il successo di Soldato Blu si muovavo tutta una nuova genìa di western dalla parte degli indiani e in accusa del loro genocidio ed in Italia arrivò tempestivo questo La Vendetta è un Piatto che si Serve Freddo nel quale, con la sua nota potenza visiva ed il suo stile caustico ed iconoclasta Squitieri dà il suo crudo punto di vista sull'argomento,trasponendolo chiaramente sugli eventi politici dell'epoca. La storia è quella di Jim(Leonard Mann) che, convinto che la sua famiglia sia stata sterminata dagli indiani, ne uccide quanti più possibile per soddisfare un continuo sentimento di vendetta. In realtà le cose non andarono così e quando salva una squaw da uno stupro le cose cambieranno e passerà dalla parte dei nativi. A quanto pare gli indiani sono i proletari e la presa di coscienza di Jim e quella del borghese che accetta e condivide la loro causa anche contro i suoi ideali originari. Il film è molto crudo e spesso crudele, diverse scene sono al limite dello splatter e si sviluppano lotte, come quella all'arma bianca, veramente cruente. Efficace anche la scena in cui la ragazza indiana viene ricoperta di pece e fiume dalla folla inferocita. Un assaggio di quello che di lì a poco avrebbe fatto Squitieri.

di Gianluigi Perrone

Tuesday, August 21, 2007

E DIO DISSE A CAINO di Antonio Margheriti (1969)

Fantastico western di Antonio Margheriti, per chi scrive un autentico capolavoro e uno dei migliori film del genere. Margheriti traspone la sua passione per le atmosfere gotiche sul genere western e ne viene fuori qualcosa di unico. Una notte un uomo torna in un villaggio in cerca di vendetta e porta con sè la bufera e intanto rintocchi di campana rieccheggiano nell'aria. Una premessa che già di per sè lascia immaginare figure spettrali. E' quello che avviene a Gary Hamilton,un Klaus kinsky nel ruolo inedito del buono(ma solo Margheriti poteva farlo), che viene graziato dai lavori forzati e va in cerca di Acombar,l'uomo che lo fece finire in galera ingiustamente e gli rubò la donna. Questi,Peter Carsten, è uno stimato latifondista e soprattutto ha un figlio che lo stima e che non conosce il passato oscuro del padre. Per oltre tre quarti d'ora di film ascolteremo la campana che indica la presenza di Hamilton che,come un fantasma,miete vittime senza essere visto. Intanto si vive il rapporto tra padre e figlio che si incrina quando il giovane scopre che le motivazioni di Hamilton sono giusto ma che comunque decide di non abbandonare il genitore a costo della vita. Il tutto si concluderà tra le fiamme liberatrici in un classico finale gothico con tanto di citazione biblica."E Dio disse a Caino: e che ora tu sia maledetto... Vagherai per la Terra fuggitivo e vagabondo... "

di Gianluigi Perrone

IL GRANDE DUELLO di Giancarlo Santi (1973)

Giancarlo Santi ed il suo unico western e il suo unico film ad aver avuto un minimo di visibilità. Sfortunato Santi,lui che è stato aiuto di Ferreri,Petroni e Leone. lui che era sui set de La Donna Scimmia,Controsesso,Da Uomo a uomo,il Buono,Il Brutto e il Cattivo e C'era una volta il West. Chissà quante scene mitiche ha girato di mano sua. Era naturale che il suo primo(e purtroppo ultimo) western (anche se Giù la Testa doveva girarlo lui inizialmente) avesse come protagonista Lee Van Cleef, con cui aveva già avuto a che fare e che faceva scadere il suo contratto italiano proprio con questo film. L'inizio del film è strepitoso, con Van Cleef che fa terra bruciata intorno a sè. Lui è Clayton,lo sceriffo alla caccia di Philip,Peter O'Brien(il futuro giornalista Alberto Dentice )accusato dai fratelli Saxon vogliono la sua impiccagione. Il film cerca dei risvolti quasi investigativi per dare spessore alla trama con uno stile che però è mutuato direttamente da quello di Leone. Purtroppo nella parte centrale si inpantana in alcune lungaggini e le parole prendono troppo spesso il posto dell'azione, cosa che magari avrebbe dovuto essere un pregio ma che non ha l'effetto voluto. Le musiche di Bacalov ,assolutamente avvolgenti,diverranno famose per essere state usate da Tarantino nella squenza animata della storia di Oren-ishi in Kill Bill Vol.1. Sicuramente Santi avrebbe potuto dare di più al genere se avesse potuto.
di Gianluigi Perrone

IL MIO NOME E' SHANGAI JOE di Mario Caiano (1973)

Sull'onda mediatica del successo dei film di Bruce lee e della sua morte ci finiscono anche gli spaghetti western e Il Mio Nome è Shangai joe è il più famoso ed il meglio riuscito. Il riferimento a Bruce Lee è evidente sin dal nome che viene dato all'attore protagonista, inpunemente chiamato Chen Lee e, come suggerisce il nome,viene dalla Cina per cercare fortuna in Texas. Poco importa se l'attore è giapponese, spacciato per un cinese. Se lo fanno anche le produzioni americane oggi (vedi Memorie di una Geisha) lo può fare pure Mario Caiano. Il film si basa su diversi luoghi comuni relativi alle arti marziali ed alla cultura orientale che nell'ambiente rude del west risulta vincente in qualsiasi modo su quella occidentale(anche giocando a carte!). In una strana commistione con una certa tradizione di film wu xia che stentiamo a credere che Alfieri e Trecca (sceneggiatori) conoscessero, Shangai Joe viene messo contro una serie di nemici caratteristici in sequenza tra cui Pedro Il Cannibale (Robert Hundar),Triky(GiacomoRossi-Stuart),Slim(Federico Boido) e la sfida finale con l'asso piglia tutto(nel senso che girava qualsiasi cosa)Klaus Kinski nella parte di Scalpo Jack. Il film è appena divertente anche se girato con mestiere e con degli espendienti che dimostrano quanto Caiano sia abile dietro la macchina da preso. Il film purtroppo è quello che è, una tortura per gli amanti dei kung fu movie per l'approssimità con cui si avvicina al genere ma comunque un western atipico che verrò ripreso di recente da Jackie Chan e Owen Wilson. Ne esiste un seguito girato da Bitto Albertini sempre con Kinsky ma con un attore diverso a cui hanno appioppato un nome simile.

di Gianluigi Perrone

NAVAJO JOE di Sergio Corbucci (1966)

Su sceneggiatura di Fernando di Leo e Piero Regnoli, Corbucci realizza il suo "western con gli indiani",come era desiderio di Dino De Laurentis. Naturalmente gli indiani qui sono buoni, o meglio è buono viso che ce n'è solo uno. Burt Reynolds, ancora non diventato una icona ed in cerca di incrementare la sua carriera di attore al cinema dopo decine di comparsate in tv. L'indiano Navajo Joe insegue una banda di criminali il cui capo è Aldo Sambrell che gli ha sterminato la tribù. Con una sceneggiatura pesante e Ruggero Deodato come aiuto regista, naturalmente la violenza si spreca sin da subito con una donna scalpata senza pietà. Bisogna ammettere che Burt Reynolds è veramente in parte e fisicamente compie delle azioni decisamente strabilianti. Come al solito Morricone fa un lavoro stupendo e la colonna sonora diventerà popolare ai gionri nostri per l'uso che ne farà Tarantino in Kill Bill. Sergio Corbucci è come sempre un Dio a girare anche se meno incisivo rispetto ad altri lavori perchè più concentrato sull'aspetto più commerciabile all'estero del film.

di Gianluigi Perrone

MATALO! di Cesare Canevari (1970)

Immediatamente dopo Io,Emmanuelle, Cesare Canevari gira Matalo!,il suo secondo ed ultimo western dopo Per un Dollaro A Tucson si Muore. Possibile che fosse preso dalla strage di Bel Air e da quei massacri fatti sotto acido,fatto sta che gira un western anomale ed in qualche modo unico nel suo genere. Matalo!,con l'esclamativo, da non confondere con uno dei titoli di E Continuavano a Fragarsi il Milione di Dollari di Eugenio Martin dello stesso anno, è un western lisergico ed oscuro, più vicino alle atmosfere di un horror sperimentale che altro. Attraverso grandangoli, fotogrammi in macro di occhi, riprese sghembe e immagini irrazionali, ma soprattutto attraverso una colonna sonora interminabile che è quasi una souite continua di suoni e musiche psichedeliche, il film diventa un racconto allucinante e distorto che dovrebbe vertire sul coinvolgimento di Ray(Lou Castel al suo ultimo ruolo)che sgomina a colpi di boomerang(!)una banda di rapinatori a cui fa capo burt(un inedito Corrado Pani)in una oscura città fantasma infestata da
sussurri. Il film è piacevole a vedersi e anche efficacemente oscuro in alcuni punti, solo che, come in un viaggio sotto acido,si fa fatica a capire bene cosa succeda sullo schermo e dopo ci si ricorda poco o nulla del film. Quindi possiamo dire che l'esperimento di Canevari riuscì.

di Gianluigi Perrone

TEPEPA di Giulio Petroni (1968)

Forse il miglior film di Giulio Petroni e sicuramente tra quelli più amati interpretati da Tomas Milain. Tepepa è uno dei capisaldi dello spaghetti western rivoluzionario a sfondo politico. il personaggio del peone qualunque che diventa leader della rivoluzione anche contro gli stessi fomentatori della stessa che ne tradiscono gli ideali arriva come una bomba in pieno '68 e il fatto che Milian fosse fresco da The last Movie e quindi dalle frequentazioni con Dennis Hopper fu di esaltazione per l'attore cubano che di voce propria interpreta il leggendario protagonista.Orson Welles era invece sepolto dai debiti e annegava nell'alcohol 8non è escluso che nella scena iniziale fosse realmente ubriaco)quindi andava cercando denaro per la prima e ultima volta in Italia, come molti vecchi mammooth di Hollywood. Petroni, con una star del genere disposizione,si sbizzarrisce e dà il meglio di sé in assoluto. Il risultato è formidabile ed epico. La sceneggiatura è oltetutto piacevolmente ironica,merito di Della Mea e Solinas ma anche dell'improvvisazione di Milian.

di Gianluigi Perrone