Sunday, October 28, 2007

IN PRISON MY WHOLE LIFE di Marc Evans (2007)

Documentario realizzato da Marc Evans (Trauma, My little Eye) su Mumia Abu-Jamal, giornalista di sinistra ed esponente delle pantere nere condannato più di vent'anni fa alla pena di morte e ancora in attesa di esecuzione. A seguire la vicenda ci pensa un giovane di nome William anni nato proprio il 9 dicembre 1981 il giorno che Mumia in circostanze ancora misteriose viene arrestato per aver sparato e ucciso un poliziotto. Inizia bene questo documentario, con un countdown di un interminabile minuto di attesa. Un minuto in confronto a 25 anni. Giusto per rendere l'idea. Che Mumia sia colpevole o no l'attesa è una condanna troppo severa per tutti: un girone infernale costruito dalla burocrazia. Specialmente se poi la condanna viene attraverso un mezzo medievale come la pena di morte. E fino a qui tutto a posto. Il problema del dopo Moore è che ogni documentario deve avere il suo bel apparato di effettismo populista. Ecco allora che Marc Evans si gioca la carta del razzismo. Magari è pure plausibile che Mumia sia stato arrestato perchè era nero. Ma quali sono le prove; un Giudice che dice "aiutatemi a friggere questo negro!". Dove sta scritto che veramente il Giudice abbia riferito queste parole; da nessuna parte. Ma il documentario da per scontato di si. Per forza. Siamo in un mondo razzista. Altre prove: un schemino sugli spari che neanche il caso JFK. Un prostituta pentita dopo 25 anni. Ok. Ammetto di aver avuto pietà nei confronti di Mumia. Ma perchè si cerca sempre di istaurare un processo mediatico. Dove mai hanno portato le teorie di cospirazione? Credo da nessuna parte. Interessante invece il discorso politico sui vari movimenti Black nei anni '70. Noam Chomsky, Angela Davis, Alice Walker, Steve Earle sono solo un gruppo delle persone intervistate per raccontare quegli anni. Da pazzia invece lo sgombero di un palazzo occupato da un movimento chiamato "move" attraverso un bomba. Un bomba lanciata da un elicottero cha fa saltare in aria un palazzo (c'e il video):11 morti, tra cui 6 bambini e siamo a Philadelphia non in Vietnam ricorda una delle tante voci di quell'epoca. Pazzesco. Questo è il razzismo. Naturalmente il documentario si chiede se quello che succedeva allora succede anche ai giorni nostri. Purtroppo cade ancora nel ridicolo intervistando Mos Def e Snoop Dogg. I due Rapper prendono come esempio l'arresto di Mos Def durante uno spettacolo tenuto in piazza. Con tutta la simpatia che ho per il personaggio c'è un differenza grande come oceano tra un uomo condannato a morte per omicidio e un rapper che viene arrestato (probabilmente per farsi pubblicità) durante un esecuzione Live. Tutti d'accordo che il razzismo esiste. Ma ci sono esempi ed esempi.

di Daniele Pellegrini

Saturday, October 27, 2007

POP SKULL di Adam Wingard (2007)

Sarò io. Devo avere degli anticorpi che mi permettono di assemblare qualsiasi informazione da un film del genere. Pop Skull guarda con ingordigia a Tsukamoto e Lynch. Wingar vorrebbe (o crede, che differenza fa?) far parte della loro prole. Sognare le stesse cose. Sperimentare le stesse tecniche. Pisciare pure nello stesso cesso se fosse possibile. Wingar non è il solo. Quello che la gente si deve mettere in testa è che sia in Tsukamoto che in Lynch (per quanto mi duole dirlo) c'è un idea di cinema. Quella che permette da più di cent'anni di raccontare storie. Non è la tecnica o il fatto di essere criptici. E' l'idea stratosferica che ognuno la sua storia la racconta come vuole lui (un pò come le barzellette). Quindi premesso questo voglio giudicare Pop skull solo per quello che è. Prima di tutto va chiarito un fattore; questo non è un horror. Pop skull è un film dilettantesco (niente scuse dei 3000 dollari), che si basa escusivamente su tre fattore: Lei lascia Lui, Lui si deprime e vede un fantasma, Lui fa la stronzata. Niente di più. Poteva benissimo durare 5 min. Eppure riescono ad allungare il brodo con una serie infinita di effetti allucinogeni. Divertente? Non credo. Qualcuno ha mai detto che i tempi di caricamento dello Spectrum era arte; no, preferivamo giocare. Qual'è allora il senso di tale operazione? Non riesco a spiegarmerlo. Un frase iniziale diceva "che il film poteva creare problemi a chi soffre di epilessia". Precauzione giustissima ma allora perchè nessuno si interessa a chi soffre invece di sonnolenza? Un idea per il cinema in generale.

di Daniele Pellegrini

JUNO di Jason Reitman (2008)

Good Vibrations. Le vibrazioni positive cantate dai Beach boys sono forse l'esempio perfetto per spiegare Juno. Quelle vibrazione emozionali che separano l'ipocrisia dalla tenerezza. Dimenticate per un attimo chi per meschinità esibisce dolore e pianti. Juno parte da un presupposto deplorevole per la società moderna; la gravidanza prematura di una quindicenne. Eppure non può esimersi da essere una commedia; dark, ma pur sempre commedia. Jason Reiman figlio del grandissimo Ivan non più di due anni fa aveva esordito con Thank You for Smoking, commedia di buon livello ma didascalica sul problema dell'industria del tabacco. Ottimo film ma Reiman si era fatto travolgere troppo da un script cinico senza lavorare seriamente sui personaggi. Qui in Juno non fa lo stesso errore; il nuovo mondo creato è un posto dove uno può sputtanarsi, amare, lasciare, odiare, isolarsi, ignorare; insomma farsi travolgere dalle emozioni. I personaggi sono emozionali. C'è Juno (Ellen Page) insofferente quindicenne incinta che vorrebbe affrontare la vita come un adulto ma con la capacità orribile di rimanere adolescente come Mark Loring (Jason Bateman). Paulie Bleeker (Michael Cera), ingordo mangiatore di Tic Tac, frastornato dall'idea di aver messo incinta una ragazza e di non poter avere scelta sulla questione solo perchè si sente ancora un gretto adolescente. Fino ai due genitori di Juno (due strepitosi J.K. Simmons e Allison Janney) e il loro modo di essere quello che la ragazza vuole solo perchè non possono essere d'esempio. Ma non c'è niente di sbagliato in questi personaggi; anzi si può definire con assoluta certezza che non esistono personaggi cattivi. Anche la frustrante Vanessa Loring (Jennifer Garner), adotattrice del bambino insieme a Mark Loring, si rivelerà un personaggio più dolce di quanto potesse far pensare all'inizio. Eppure in mezzo c'è aborto, l'adozione, il sesso e i rapporti di coppia. Il messaggio è chiaro; non esiste gente cattiva, ma solo situazione sgradevoli. Non so dire se questa affermazione sia plausibile (ma di sicuro piace) ma vorrei essere più chiaro di un eclissi; Juno è un capolavoro. E' non è assolutamente per quella brodaglia scritta qualche riga più su. Le emozioni non possono essere descritte e di certo non sarò io a levar merito alla poesia. Guardatelo e innamoratevi senza compromessi. Lo script magnifico è stato scritto dalla bloggista Diablo Cody; la sua passione per l'horror porta a un piccolo scontro dialettico tra Juno e Mark su chi sia meglio tra Dario Argento e Herschell Gordon Lewis. Solo per i più fanatici. Quattro parole pure per Ellen Page; mostruoso talento di vent'anni. Imperdibile anche per lei.

di Daniele Pellegrini

Thursday, October 25, 2007

LA TERZA MADRE di Dario Argento (2007)

Allora siamo tutti d'accordo che Dario ultimamente(un paio di lustri) non è al suo massimo. Però almeno a livello visivo i Masters of Horror lasciavanop presagire che ci fosse un po' più di coscienza del mezzo cinematografico rispetto a disastri come Ti Piace Hitchcok o Il Cartaio. Bene, era presumibile che per La Terza Madre, terzo film della serie dopo due film veramente belli come Suspiria e Inferno, ci fosse un po' più di cura stilistica per cercare di non fare brutta figura. D'altronde è un film attesissimo. Ebbene niente! Anzi peggio del peggio. Sì perchè sinceramente Non Ho Sonno o Il Cartaio, con tutti i difetti di sceneggiatura che potevano avere, non arrivano al nulla de La Trza Madre. Il film non parla di niente, c'è semplicemente Asia Argento che corre inseguita da qualcosa di mostruoso. Sembra che abbiano girato solo scene di omicidio quanto più cafonemente violente possibile senza metterci quelle di raccordo. Non si riesce a capire come sia possibile fare un lavoro tanto pessimo. Nemmeno nel peggior amatoriale si incappa in scivoloni del genere. A parte le musiche di Simonetti, che sono belle, con la canzone cantata da Dani dei Cradle of Filth, non c'è niente altro che si salvi. Niente. Addirittura incomprensibile come possano aver ridotto così il trucco, che non rivela un minimo di capacità. Spingono su gore e sesso manco stessimo parlando dell'ultimo film tedesco prodotto a zero budget, la Moran Atias compare giusto per mostrare il pelo. Non si riesce veramente a crederci a quanto sia banale la trama. Non c'è molto da dire se non che il film semplicemente non c'è.
di Gianluigi Perrone

RENDITION di Gavin Wood (2007)

Un giovane analista della Cia si trova proiettato sul campo, alle prese col difficile interrogatorio di un presunto terrorista. La moglie di quest'ultimo, disperata, cerca di risalirne disperatamente le tracce, coinvolgendo nella storia un senatore degli Stati Uniti. Ecco i mostri che vengono fuori quando l'Accademy decide di spacciare l'Oscar a gente del tutto priva di talento. Tsotsi (Oscar miglior film staniero 2006) precedente pellicola di Hood non era niente: un (o il) grande bluff Made South Africa dell'anno passato. Gente priva di talento dicevo che adesso può lavorare con soldi e cast allucinanti. Rendition nasce da questo errore. Rendition è un Syriana senza lucidità storica che sta sul filo tra il patriottismo e il film di denuncia. Non prende posizione, non la fa prendere e non spiega niente. Non è niente. Hood si innamora delle inquadrature e se ne fotte della storia. Le scene madri si contanto sulle dita e molte delle volte sono prevedibilissimi colpi. Dialoghi impietosi (Shakespears va lasciato là). Un film più piatto dell'Olanda intera. Ma soprattutto una meschina scelta narrativa che va contro qualsiasi pensiero accademico sul cinema. Insomma Rendition è una grande bufala e Guantanamo è ancora un caso aperto. Il prossimo film di Hood sarà lo spin-off di Wolverine. In un intervista l'interessato ha dichiarato ""Amo Wolverine soprattutto perché pagherà il college di mia figlia.". Giusto per capire il Mostro.

di Daniele Pellegrini

Sunday, October 21, 2007

BEFORE THE DEVIL KNOWS YOU'RE DEAD di Sidney Lumet (2007)

La frase "prima che il diavolo lo sappia (sei morto,è meglio che passi mezz'ora in paradiso)" si riferisce al fatto che tutti sono dei peccatori,tutti sono colpevoli e quindi bene o male tutti devono pagare. Anche la famiglia Hanson, i cui figli sono vessati da problemi economici e decidono di rapinare la gioielleria dei genitori. Il nuovo film di Lumet usa la ormai sfruttata regia frammentata in cui vediamo prima l'effetto e poi la causa delle cose ma qui abbiamo a che fare con un regista che sa esattamente quello che fa e usa il metodo come tramite diegetico. Grazie anche a grandissimi protagonisti sui quali non si può dire chi spicchi visto che Ethan Hawke,Philip Seymour Hoffman,Marisa Tomei (quasi sempre nuda e caldissima) e Albert Finney(Big Fish)sono superlativi. Si passa dal dramma familiare della famiglia che ha creato due figli diversi,uno disperato ed incapace di accettarli,l'altro infantile e fatalmente perdente. Una contatenazione di eventi, di errori, di peccati che finiscono per distruggere tutto e tragicamente far pagare solo chi ha parte della colpa. Su tutto la regia di Lumet: totale.

di Gianluigi Perrone

Saturday, October 20, 2007

CE QUE ME YEUX ON VU di Laurent De Bartillat (2007)

Interessante esordio quello di De Bartillat che dirige una legante commistione di giallo telescopico che si dipana su territori sempre più complessi. Il film, supportato dall'ottima Silvie Testud, nei panni di Sylvie,studentessa di arte e restuaro artistico che si appassiona al caso del pittore Watteau e ricompone i pezzi che, da dettagli dei suoi quadri, rivelerebbero l'esistenza di un rapporto con un contemporaneo minore, Openor, e misteriosi risvolti sentimentali nella vita dell'artista. Presa sempre più dalla ricerca Lucie dimentica la neonata relazione con Vincent, un mimo da strada sordomuto con cui istaura una relazione breve ma intensa che si infrange su un'aneurisma che colpisce l'uomo. De Bartillat è capace di creare numerosi sottotesti legati al personaggio di Lucie ed alle sue mancanze sentimentali ma si concentra particolarmente sull'intrigo giallo che, nella sua semplicità, è di densa efficacia. Moltissimo del lavoro è da riconoscere alla Testud.

di Gianluigi Perrone

YOUTH WITHOUT YOUTH di Francis Ford Coppola (2007)

L'atteso ritorno di Coppola che voleva essere il fiore all'occhiello della Festa non ha convinto completamente. Inspiegabilmente complesso, Coppola racconta la storia di un glottologo che nell'autunno della propria vita rimane vittima di un incidente dalle conseguenze eccezionali. Colpito dal classico fulmine, ringiovanisce di 30 anni e acquista poteri quasi divini. Contemporaneamente acquista qualcosa di più di una doppia personalità. Comincia una famelica ricerca delle radici della lingua e del concetto di comunicazione. Un passaggio al mistery che sarebbe piaciuto a Polanski ma girato in maniera verbosamente complicata ma solo superficialmente,perchè alla fine dei conti molto semplice. Il film viene fuori elegantemente oscuro ma sembra casuale il risultato finale che non si sposa con le immagini. Il linguaggio retrò di Coppola è fine a sé stesso,insicuro, vacuamente ampolloso e miseramente debole. Il tentativo di creare un'opera universale sull'espressione nelle sue forme e dalle sue origini(sia essa linguistica,visiva)riprende stereotipi ormai abusati che tentano di strappare il plauso facile ma guadagnano solo sbadigli. Il fatto che il film sia fuori dal tempo potrebbe avere senso nella condizione del protagonista ma questo nostalgico proclama del regista non ha ragion d'essere.

di Gianluigi Perrone

Thursday, October 18, 2007

LE DEUXIEME SOUFFLE di Alain Corneau (2007)

Non è certo un novellino Alain Corneau, che si permette di rimettere le mani su Josè Giovanni(leggesi con l'accento sulla i) al secolo Joseph Damiani. Le Deuxième Souffle era stato portato sullo schermo da Jean Pierre Melville nel 66 e si era proposta come una delle opere più aspre del regista. L'amore per il polar e per Melville, Corneau l'aveva già palesato ben 30 anni fa, con quel Police Python 357 con Yves Montand a sua volta diventato un classico. Corneau si avvicina al modello con rispetto e dedizione, con l'intezione precisa di non fare una bestemmia e
dà la sua personale soluziona all'interpretazione del mito del criminale Gu. Corneau gira Le Deuxième Souffle come fosse ancora negli anni '60, con una macchina mobile, con dialoghi intelligenti,ispirati, ,complessi come era ancora nel cinema che facevano gli storytellers, andando totalmente contro la commercialità dell'opera. La stessa recitazione si basa volutamente su stereotipi del passato (e questo si nota ancora di più su alcune comparse)L'indistruttibile criminale Gu, disperato, inarrestabile, idealista stavolta è Daniel Auteil, un po' troppo inflazionato
ultimamente che è una nota stonata del film insieme alla Bellucci che,nonostante l'impegno,non è per nulla a suo agio bionda(e posticcia) nei panni di Manouche, personaggio che nel film di Melville, così duro e pratico, non aveva trovato spazio nella trasposizione. L'anima del film è nei coprimari, Michel Blanc,Philippe Nahon,Jacques Dutronc sono facce da noir e i loro personaggi dipingono il mondo oscuro e corrotto della Parigi anni '60. Corneau tende a rendere irreale la città con colori intensi e polposi, la pellicola è un racconto e un sogno noir soprattutto basato sui caratteri che vi si muovono all'interno. Il regista interpreta la forza di Melville attraverso la modernità nelle sporadiche scene d'azione, filtrandola attraverso l'occhio dell'action di Hong Kong e soprattutto di Johnny To. Infatti la regia prende una strada diversa proprio quando le pistole cominciano a strillare, con alcuni dei colpi in arrivo più cruenti che si siano visti, con pelle e pezzi di osso che saltano via. La componente gore del film, sì gore, arriva inaspettata ed intenza
soprattutto nella seconda parte dove le due anime del film collidono più in equilibrio. Nonostante la lunghezza del film è giustificata dagli eventi, ci si chiede se abbia senso un remake che cerca di imitare lo stile narrativo di un tempo che non c'è più.

di Gianluigi Perrone

Wednesday, October 17, 2007

MYSTERIOUS SKIN di Gregg Araki (2004)

Questo film a me è piaciuto un bel po’, anzi mi è piaciuto assai-assai, Gregg Araki è il classico regista sempre-giovanotto alla Larry Clark, che fa film giovanotteschi sui violenti anni novanta, gli anni della generazione x e degli efferati usi e soprusi, dove gli eccessi degli anni ottanta sono diventati cupe deviazioni di noie e routine dovute al benessere ed alle incertezze su un futuro che diventa sempre meno prevedibile e rassicurante. Il film a differenza degli altri ha una poetica particolare, delinea una storia dura come il marmo e delicata come un perbenistico tabù. I cereali colorati che cadono sulla testa del bambino come prima inquadratura fa presagire un film sdolcinato tutto miele molto politically-correct fatto di caramelle e chupa-chups, ma l’animo cupo e martoriato dell’america degli anni novanta non tarda ad uscire fuori, le ombre lunghe del passato tornano con forza e veemenza in due destini simili ma diversi nella costruzione del proprio futuro. I peccati del passato non sono facili da cancellare per i due protagonisti, i fatti e i misfatti vengono narrati con un ritmo lento e cadenzato a differenza delle altre pellicole di Araki ,in Mysterious Skin il regista seguendo il diverso disagio di questi due giovanotti con un trauma grosso come un “Village people” alle spalle, la regia sviluppata e cambia i toni della storia in modi diversi e diametralmente opposti basandosi sulle ottiche dei due protagonisti che ci rendono perfettamente l’idea delle varie angolature con cui è possibile vedere/vivere uno stesso evento traumatico. Il primo somatizza ed l’affronta con fare spavaldo e coraggioso il suo dramma infantile, cercando di non celare a se stesso quello che avrebbe evitato ma che allo stesso tempo essendo inerme all’accaduto ha vissuto il tutto in maniera compiaciuta ed autolesionistica cercando di flagellarsi e stordirsi per non pensare, il secondo ha dimenticato o vuole dimenticare mascherando il tutto con una passione/nevrosi per gli alieni. Araki porta nuovamente allo scoperto i tabù di un’America amara, senza troppi giri di parole ed in maniera molto esplicita tratta un tema scomodo e sempre attuale negli ultimi 15 anni, un film polposo e gustoso….niente da dire a me mi Gusta. Molti sono i detrattori di questo regista, io lo adoro anche perché sempre coerente con se stesso narra in maniera dura ma digeribile tematiche dure e scomode, forse alle volte si compiace e rifà il verso al se se stesso di altri film, ma sono perdonabili impennate dell’ego di un regista validissimo e raro nel panorama mondiale.

di Salvatore Ferrario

Tuesday, October 16, 2007

DIARY OF THE DEAD di George Romero (2007)

Che bello per una volta poter dissentire. Ancora più bello poterlo fare quando tutto il mondo che ti sta a cuore, tutto ciò che ti ha cinematograficamente cullato fin da bambino, è pronto ad osannare il nuovo lavoro del maestro degli Zombie-movie. Perchè tutti i forum, i siti internet specializzati, i blog e le riviste, insomma tutto l’entourage di fan di George A. Romero non ha esitato ad esprimere a gran voce il proprio parere positivo rispetto a Diary of the dead. E’ bello, una tantum, poter essere un fan contro i fan. Perchè, con tutto il rispetto che posso nutrire nei confronti del regista di pietre miliari quale è La notte dei morti vivent,i non riesco a farmi piacere la sua nuova fatica. Sarà perchè reduce dalla proiezione poche ore prima di [Rec] (di Jaume Balaguerò e Paco Plaza) che utilizza per tutta la durata del film il medesimo escamotage usato da Romero per il quale tutta la pellicola è girata come fosse una lunga ripresa amatoriale (nel film spagnolo ad opera di una troupe televisiva ed in quello statunitense di un gruppo di giovani cinefili), sarà perchè non particolarmente avvezzo a questo tipo di esperimenti che provano a camuffare o, comunque avvicinare, il più possibile il cinema alla realtà, sarà per questo o per quello, ma non ho accolto Diary of the dead con i migliori propositi. A ciò sarebbe sufficiente aggiungere come il film altro non sia che il banale viaggio di un gruppo di ragazzetti, nemmeno troppo carismatici, e ragazzette, nemmeno troppo fighe, alla ricerca di un luogo dove essere al sicuro dai morti che tornano in vita. Ma la tappa all’ospedale deserto, l’incontro con bande armate fino ai denti, e finalmente l’arrivo alla panic room, ormai troppo compromessi perfino per fidarsi l’uno dell’altro, non sono che un riempitivo per snocciolare per tutti novanta minuti un attacco, a tutto il mondo dell’informazione e alla tecnologia dilagante, tanto invasivamente perpetrato da non sembrare neanche opera di George Romero. Però ci sono gli zombie, però c’è il sangue, però c’è Romero.

di Michelangelo Pasini

Monday, October 15, 2007

DEAD MAN di Jim Jarmusch (1995)

William Blake, poeta, incisore e pittore Inglese non è stato acclamato quand’era in vita, e sebbene dopo la sua morte sia stato rivalutato come uno dei più grandi artisti mai partoriti dalla Gran Bretagna, durante la sua esistenza si trovava nella posizione di un pesce fuor d’acqua. Il William Blake di questo film diretto da Jim Jarmusch, protagonista interpretato da Johnny Depp, è anch’egli un pesce fuor d’acqua, il quale durante la seconda metà del XIX secolo negli Stati Uniti, si spinge fino alle estremità della frontiera per cercare lavoro in un piccolo paese come contabile in un’industria siderurgica. Nel paese abbiamo la contrapposizione tra territorio selvaggio e avvento dell’industrializzazione, dove chi ha potere, chi è in vista, deve essere ricco o abile con la pistola. Se in Faccia A Faccia di Sollima avevamo un malato professore che ritrova se stesso in una realtà dove la società è ancora modificabile, qui, in Dead Man, il protagonista cerca la sua dimensione in un lavoro normale, ma per una serie di eventi casuali si ritrova ad essere un fuorilegge e a costruire senza volerlo a differenza del film di Sollima, una sorta di leggenda sul proprio conto. Con dei bounty killer alle spalle che hanno il compito di farlo fuori, uniti alla legge che lo cerca per impiccarlo, William Blake viene aiutato da un indiano di nome Nessuno. Una sorta di angelo custode, o meglio di spirito guida, per vederlo nell’accezione Indiana, che lo guiderà verso il suo destino. Un destino che è già scritto. Johnny Depp è un Dead Man, un uomo morto, già morto, condannato a fine prematura senza la benché minima speranza di sopravvivenza. Questo glielo dice fin dall’inizio l’indiano, il quale è già contaminato dall’occidente chiedendo continuamente tabacco, che insieme all’alcool è uno dei fattori, oltre al piombo, che portarono alla distruzione di un popolo. Nessuno riveste una sorta di spirito guida secolarizzato, e il sostituirsi a una divinità è una visione tipicamente occidentale, cosa che in un'iconografia non occidentale si paga a caro prezzo. Al di là della sottotrama ricca di significati, il film di Jarmusch, girato in un elegante bianco e nero, annovera un cast di tutto rispetto. Abbiamo Robert Mitchum che interpreta il padrone della fabbrica in cui il protagonista chiede lavoro, da segnalare che questa è l’ultima interpretazione della compianta leggenda del cinema. Lance Henriksen incarna l’interessante Cole Wilson, un sicario che incarna il male puro, personaggio quasi blasfemo che si nutre dei suoi nemici, i quali si rivelano essere semplicemente coloro che gli stanno attorno. Vediamo per poche sequenze anche Iggy Pop, in una parte atipica, nella quale veste i panni di un cacciatore quasi androgino. Le musiche, che si sposano alla perfezione con l’eleganza visiva messa in campo dal regista, sono curate da Neil Young che unisce melodie che si avvicinano a quelle tipiche del western, ma che vengono filtrate attraverso suoni elettronici, dando l’impressione di una sospensione quasi onirica della vicenda. Johnny Deep interpreta magistralmente il suo personaggio che come dicevamo si rende conto a malapena di costruire la leggenda di se stesso, si stupisce solamente di essere portato nell’usare la pistola. La gente ha paura di lui, lui è destinato a scomparire, ma lo sta facendo con stile. Questo visto dagli occidentali, i quali, nostalgici della frontiera in cui gli indiani li tenevano occupati, ora si abbruttiscono e appaiono degli ibridi tra bestie e uomini, e Jarmusch ce li presenta quasi come dei mutanti appartenenti a un’era post atomica. Un film lineare come una barca che scorre lenta lungo un fiume, ma che non ha più remi nè ormeggi e che si lascia inesorabilmente trasportare come se traghettasse un uomo morto che non può più governarla.

Di Davide Casale

Friday, October 05, 2007

THIS IS ENGLAND di Shane Meadows (2006)

Shane Meadows, Inglese classe 1972, ci aveva già sconvolto nel 2004 col toccante, crudo ed emotivamente spiazzante Dead Man's Shoes. Due anni dopo gira questo This Is England che fin dalla copertina sembra, e infatti è, un film sugli skinhead Inglesi. Siamo nel 1983, quando le teste rasate erano apolitiche, si fumavano le canne e si divertivano bevendo birra in compagnia, facendosi scorrere il tempo addosso intervallandolo con tatuaggi, musica ska, reggae, two tone, oi e punk e qualche buona rissa in compagnia. Ma siamo negli anni ‘80, qualcosa sta per succedere e Meadows si focalizza proprio sulle origini dei bone-head, i cosiddetti skinhead di estrema destra. La sorte di questo movimento è di subire una divisione netta, è la stessa che è toccata agli ultrà del calcio (Esplicativo in questo senso il film Hooligans). Molti skin si sono fatti mangiare il cervello dai partiti di estrema destra, in questo film siamo in Inghilterra e quindi si parla del National Front. Il protagonista è un bambino orfano di padre che si avvicina alla cultura skinhead, si rasa la testa, indossa bretelle, Fred Perry, ai piadi i Dr Martens, nella testa solo voglia di divertirsi. Entrato in un banda viene accolto amichevolmente, ma quando arriva uno skin della banda dopo un periodo di assenza le cose cambiano. Combo, così si chiama il “vecchio” skin, è intriso di ideali fascisti e iper nazionalisti e tenta di convogliare tutta la banda verso i dettami dell’estrema destra, missione principale: scassare le palle e minacciare i “pakibastards”, niente più che i Pakistani che gestiscono gli alimentari in Uk. Vogliono un’Inghilterra bianca, pulita, Combo urlerà in un comizio improvvisato alla banda “This is England!”. La banda si divide e il giovanissimo protagonista si mette con quelli razzisti, con Combo che è il capo, un demente ciccione e un ignorante pelato e tatuato che sembra uscito da un circo. Qui entra in campo la bravura del regista, il quale non si limita a descrivere l’ambiente e i personaggi, ma va a fondo e soprattutto per quanto riguarda Combo, ne fa un ritratto profondissimo grazie anche alla bravura di chi lo interpreta, Stephen Graham. I dissidi interiori dei protagonisti ci avvolgono come una doccia fredda, e come nel bellissimo Dead Man’s Shoes entriamo nel film e proviamo quello che vuole farci provare Meadows.E’ maturato in questo film, i temi sono dosati alla perfezione e sebbene l’argomento sembri all’apparenza di mero divertimento e violenza, siamo di fronte ad un dramma infinito che racchiude un’intera nazione, non solo in ambito skinhead. Il male si annida nell’ignoranza e si nutre delle persone che provano un odio di cui in realtà non sentono le ragioni. Con un finale struggente e scioccante questo meraviglioso regista ci regala un autentico capolavoro.

Di Davide Casale

Wednesday, October 03, 2007

THE XXXORCIST di Doug Sakmann (2006)

Doug Sakman è un maledetto genio, questo Newyorkese classe 1980 dopo aver diretto "Troma's Edge TV" , un prodotto guarda caso targato Toma, si dedica al rifare i classici dell’horror in versione hard core, si avete capito, bene, in versione pornografica. Qui siamo di fronte alla sua ultima opera, un mediometraggio di 45 minuti circa, rivisitazione punk-porno di nientemeno che l’Esorcista. La prima inquadratura vede un giovane prete immerso nella nebbia che suona al campanello di una casa. Praticamente si salta tutto l’inizio de L’Esorcista e siamo già a casa della posseduta. Apre la madre di Regan (anche qui si chiama così) ed è tatuata sulle mani, sul collo e sul petto, due belle tette si intravedono. Già il fatto che la madre sia tatuata è geniale!! Salgono le scale e la posseduta è una ragazzina che sembra davvero tale, una mignotta simil Barely-legal in stile Tawnee Stone (i maschi che non la conoscono mentono). Il prete con la madre (gran pezzo di topa lo avevo omesso prima) si beccano vomito verde dalla posseduta e non c’è bibbia che tenga, bisogna passare alle maniere forti. Il prete allontana la madre (bella figa) e chiedendo perdono a dio fa l’unica cosa fattibile, infila l’uccello in bocca alla posseduta e parte in una forced job in stile Rocco Siffredi, ma non ai sui livelli, d’altra parte il maestro è inarrivabile. La cosa geniale è che il prete, una volta denudato reca parecchi tatuaggi tra cui uno entusiasmante sul fianco, ossia due seghe a motore incrociate sopra un barattolo di bibita in stile drive-in, fottutamente fantastico! Mentre la figlia viene poi scopata in tutti i modi la madre entra e viene posseduta dalla figlia, che con uno squirting di roba verde ha momentaneamente allontanato (praticamente fatto volare) il prete contro la parete. La madre viene posseduta, dicevamo, e inizia a leccare la topa alla figlia, la quale poi coninvolge il prete che armato di vibratore a forma di santa vergine (fottutamente geniale!!!!!) tenta di curare almeno la madre con esso. Ovviamente tutto finisce in un trio con la figlia che cavalca meglio che in un rodeo e la madre che si fa sbattere da lì a breve. Ovviamente ci sarà spazio anche per del sano anal. Finale struggente in linea con l’originale. Memorabile la scena del prete che eiacula in faccia alla posseduta, ripresa dall’alto con in primo piano un poker d’assi tatuato sulla spalla del prete. Cosa dire, god bless Doug Sakmann!!!
di Davide Casale

VACANZE PER UN MASSACRO di Fernando Di Leo (1979)

Molto spesso si sente in giro gente dire che c’è regressione e che non si può far nulla, non ci sono neanche i soldi per mangiare una pizza con lei, come dicevano i giganti nella song “Mette dei fiori nei vostri cannoni”. Io molto spesso preferisco fare orecchie da mercante e non sentire lamentele e luoghi comuni, la volontà e la passione per le cose prescinde dai mezzi, l’unico vero limite sono le capacità e l’ingegno che molti non hanno. Un esempio lampante è questa pellicola girata nel 1980 dall’immenso Fernando di Leo, questo film nasceva con lo stesso Budget che ha un bimbo la domenica prima di andare a messa, gli attori in alcune scene sono cosi pallidi che sembrano reduci da un naufragio sull’isola dei famosi senza cocchi. Il film sicuramente non è il suo capolavoro, anzi di tanto in tanto zoppica un pochino, ma come tutti i film di Di Leo fa godere come ricci gli amanti del caro cinema di genere che fu. Il film è stato girato in un’unica location: un chalet di montagna! La pellicola si apre con l'evasione dal carcere del criminale Joe Brezy che dopo la fuga tira dritto sullo sgangherato chalet ( con il budget che avevano non si potevano permettere di farlo passare con una Ferrari per Forte dei Marmi!) dove sembra abbia nascosto il bottino di una sua precedente rapina, ma c'e qualcosa che non va, infatti l'abitazione risulta occupata da tre persone, un uomo e due belle gnocche (sorelle). La trama easy sembra il preludio al classico filmozzo di genere, con donne molto zozzone ed attratte dal violento e sexy cattivone, invece il film per nostra fortuna nasconde qualche variazione sul genere anche perchè l’armonia tra gli abitanti dello chalet non è idilliaca ( roba di kamasutra mistico e cornificazioni multiple). La succitata situazione ci permette d’ assistere ad uno scambio continuo di alleanze tra il malfattore e le pseudovittime, fino a giungere ad un finale tirato un po’ giù cosi , tra una tetta e un pugno in bocca. Riconosco al regista l’intento“rape and revenge” del finale (anche se in realtà non lo è in maniera craveniana) ma credo che la fame e il freddo ( le attrici tutte nude) sul set di montagna cominciavano a farsi sentire e giustificano in parte il finale frettoloso, comunque “ Vacanze per un massacro”merita una visione spassionata con una birrozza gelida in mano e possibilmente una bella tipa con il petto gonfio affianco!

di Salvatore Ferraro

I FAMILIARI DELLE VITTIME NON SARANNO AVVERTITI di Alberto DeMartino (1971)

Sabàto è un picciotto siciliano ambizioso e determinato,pronto a tutto pur di divenire un pezzo da novanta nella mala e ritrovarsi ricco e potente. sulle proprie spalle ,però, ha un grave handicap : è figlio di uno che si è pentito, di un traditore della “famiglia”,uno che è morto col sasso in bocca. Nessuno è disposto a dargli credito,perchè :“tale padre, tale figlio”. Cosi Sabàto parte dal proprio “paesello” per il “continente”, finendo prima a Milano e poi in Germania,dal fratello delinquente e pappone. L’ambizione del picciotto, però, lo porta a puntare in alto, tanto in alto da finire per essere notato dal boss.Il boss Telly Savalas,infatti, lo prende con se ,prima con diffidenza,in seguito accogliendolo in seno alla propria organizzazione, come un figlio. Ma Sabàto, da allievo, vuol divenire maestro ed il ruolo di subalterno non gli basta. Una storia di immigrazione ,vista dalla parte della mafia.Un self made man che lascia il sud, che non gli dà opportunità, per arricchirsi,passando attraverso atti criminosi ,via via sempre più efferati.La contrapposizione tra il vecchio boss e colui che vuole subentrargli non calca tanto la mano,come in altri film, sulla differenza tra vecchio e nuovo,quanto sulla ciclicità e caducità del potere.La condizione di capo supremo può essere sempre sovvertita ed un boss può ritrovarsi solo.Ottime interpretazioni di entrambi i protagonisti e di un cast di comprimari del cinema di genere.

di Andrea Scalise

CANNONBALL di Paul Bartel (1976)

La “gara transamericana” ,corsa coast to coast condotta con qualsiasi mezzo mobile con ruote, è stata una istituzione clandestina ,appartenente al cuore dell’America,fino al finire degli anni ’70.Una tradizione simbolica,ancor più che folkloristica ,che è stata portata sul grande schermo molte volte.
Un rito quello dello sfrecciare sulle strade, in mezzo a paesaggi brulli,desertici,tra vecchie benzine e motel puzzolenti,che è particolarmente significativo negli U.S.A.,dove la precarietà lavorativa porta interi nuclei familiari a transumanze tra Stato e Stato,alla ricerca di uno spicchio di quella felicità che la stessa Carta Fondamentale degli Stati Uniti riconosce ad ogni uomo.
La rappresentazione di questa gara,fatta da Paul Bartel,è, rispetto alle altre, meno “per famiglie” ed ,ovviamente,molto Cormaniana.
L’ingombrante presenza di Corman e di tutto il suo entourage,che prendono parte allegramente al film come comparse,è rilevabile in ogni millimetro della pellicola.
Non manca nulla: dal grassone fedifrago,alla anziana coppia w.a.s.p.,dalla gang di motociclisti, fino al killer con le mentine;il tutto attorniato da esplosioni,salti mortali con le auto,scazzottate kung-fu style ed inseguimenti.
La vena di Bartel ci conduce tra le polverose highways americane su furgoncini pieni di ragazze,macchine nere con cantanti country e psicopatici, seguendo la rossa e sfrecciante auto di Roy Buckman,un David Carradine in perfetta forma,verso la vittoria ed i 100.000 $ del premio.
Ovviamente, una gara clandestina non può essere un ”gioco pulito”, ed infatti, un manipolo di criminali ,capeggiati da Bartel stesso,cercheranno di sabotare ed imbrogliare con qualsiasi mezzo, per ricavare una forte somma dalle scommesse illecite.
E,se la legge è regolarmente battuta,sbeffeggiata,lasciata in mutande,nel vero senso della parola,la morale del protagonista si eleverà sulla fredda legge della strada e degli affari,portando ad inaspettate conseguenze.

di Andrea Scalise

LA CHIAVE MAGICA di Frank Oz (1995)

Film per ragazzi molto intelligente che prende spunto da un desiderio comune nell'infanzia, la possibilità di dare vita ai propri giocattoli. Un ragazzino trova un chiave che apre un armadietto. Tutto quello che viene infilato lì dentro prende vita. Lui lo scopre con un pupazzetto di un indiano che diventa il suo migliore amico. La cosa che funziona è il fatto che si gioca bene sull'amenità della situazione e la spontanea reazione di chiunque davanti ad una cosa del genere. Con il tempo il ragazzo comincia a capire l'importanza della vita e della morte e lascia libero l'indiano. E' interessante che, nonostante la leggerezza del tema, si sia riusciti a portare a delle riflessioni di peso in questo film, conferendogli una certa ambivalenza. I giovanissimi interpreti sono azzeccati perchè non troppo espressivi e quindi naturali. Un po' sottotono nella parte centrale ma godibile.

MOGLIE A SORPRESA di Frank Oz (1992)

Veramente poco riuscita commedia di Oz sulla necessità vana di sincerità in un rapporto di coppia. Probabilmente il film fa acqua da tutte le parti proprio perchè basato su presupposti noiosi che concretamente non potevano andare da nessuna parte. Goldie Hawn è una truffatrice che ha un particolare talento nel raccontare balle. Un giorno conosce Steve Martin, un uomo sfacciatamente onesto depresso per il fallimento del suo matrimonio, con cui finisce a letto. Apprende che l'uomo ha una grossa casa disabitata e va a viverci facendo credere a tutti di essere la moglie. Tra di loro si creerà un tacito accordo per riconquistare la ex di lui ma dopo un po' sboccia l'amore. Il film non fa ridere. Gli sketch sono banali e incomprensibili,soprattutto prevedibili. Goldie Hawn ha sempre un bel culo e degli occhi fantastici ma è capace a fare solo la cretina e dopo un po' stufa. Steve Martin utilizza tutta la sua carrellata di facce ma non servono a salvare il film dalla noi. Insipido.

di Gianluigi Perrone

LA PICCOLA BOTTEGA DEGLI ORRORI di Frank Oz (1986)

Il remake del primo leggendario film di Roger Corman sembra avere più origine dal successo del musical nei teatriOff-Broadway ed infatti la versione cantata ha ancora più ironia dell'originale per giustificare l'aria scanzonata del cantato. Il film di Oz alla fine funziona soprattutto grazie agli attori. Rick Moranis ,all'apice della sua carriera, è un perfetto Seymour,sembra nato per il ruolo. Il personaggio di Steve Martin, Orin Scrivello, prende connotazioni diverse e l'attore lo dipinge come un sadico dentista schizzato parodia del Jeremy Irons di Inseparabili di Cronenberg (uscito da poco con successo). Stessa cosa per Bill Murray che si confronta con quello che fu il personaggio di Jack Nicholson nell'originale,modificandolo. Il vero protagonista del film perà è Audrey 2,la pianta carnivora aliena,un ottimo lavoro del gruppo di Jim Hanson che non si fa fatica a spacciare per vera grazie anche alla sua insolita ironia. Curiosamente Ellen Greene era l'unica attrice dello spettacolo teatrale ad essere rimasta nel cast. Stupende le scenografie costruite nel più grosso studio del mondo.

di Gianluigi Perrone

DUE FIGLI DI... di Frank Oz (1988)


Incantevole commedia di stampo classico, su due imbroglioni di stampo diverso che conducono le loro disoneste vite in maniera diversa e inseguendo fini diametralmente opposti. Freddy Benson è un imbroglione da quattro soldi che raccatta soldi da povere donne spacciandosi per qualcun'altro. Anche l'inglese Lawrence Jamieson si spaccia per chi non è a scopo di lucro ma usa dei metodi attentamente posati e cerca di evitare meschinità. Quando i due si troveranno a scontrarsi sullo stesso terreno ed a cercare di impinguare la stessa donna,Janet Colgate,quella del dentifricio,ingaggeranno una lotta senza quartiere. Dirty Rotten Scoundrels ha nella scelta dei protagonisti uno dei picchi della commedia americana,non per nulla dietro ci sono nomi come Dale Launer e Stanley Shapiro, il quale è anche sceneggiatore di Bedtime Story,film con Marlon Brando e David Niven di cui questo è idealmente il remake. Completamente antitetici, Steve Martin e Michael Caine sono due personaggi stereotipati ma meravigliosamente delineati. Impossibile resistere a Steve Martin che si trasforma nel deforme fratello Ruprecht, con una comicità irresistibile quanto scorretta nei confronti degli invalidi. Elencare tutti i momenti irresistibili sarebbe impossibile, il film è semplicemente una pietra miliare della comicità degli anni '80.
di Gianluigi Perrone

BOWFINGER di Frank Oz (1999)

Irresistibile commedia su tutti i vizi del cinema. Non lo sapremo mai ma sicuramente Steve Martin fa il verso ad un sacco di personaggi realmente esistenti e senza ombra di dubbio quegli atteggiamenti che possono sembrare esagerati in realtà non lo sono. Infatti è sua la sceneggiatura affidata al fidato Frank Oz, una storia spumeggiante che sembra ricordare quella Hollywood che faceva i film alla meno peggio,senza una lira e arraggiandosi alla meno peggio (vedi Roger Corman). Bowfinger è un disperato regista/produttore che psera da anni di trovare il grande script per sfondare e arriva quando si trova tra le mani Chubby Rain, una storia di alieni assolutamente poco probabile. Ha bisogno di una star e trova nella action star Kit Ramsey (uno stupendo Eddie Murphy anche se la parte doveva essere di Keanu Reeves che non avrà apprezzato o capito l'ironia), il suo cavallo di troia per il successo. Peccato che Ramsey, troppo impegnato a cercare l'equilibrio nella setta che gli spilla soldi (etchcruise!!!scusate...)non abbia idea della sua presenza nel film. Infatti Bowfinger e la sua scalcinatissima troupe lo seguono e riprendono recitandogli addosso nella pseranza che alla fine il risultato fosse abbastanza soddisfacente per essere credibile. Che ci crediate o no l'ispirazione viene da una storia vera. Nel 1927 un regista russo riprendeva di nascosto la star del muto Mary Pickford per far credere che la donna fosse nel suo film. E non diciamo fesserie nel dire che i vari Jack Palance e Lee Van Cliff fossero totalmente coscienti di dove si trovassero quando giravano film in Italia. Le gag girano a ripetizione e grazie ad una paio di ottimi interpreti tra cui Terence Stamp e una orgasmica Heather Graham (che pare emulasse Anne Heche,ex fiamma di Martin)il film gira nella maniera giusta. Nonostante il pochissimo tempo a disposizione, Eddie Murphie non rinuncia alla sua vena poliedrica ed interpreta anche il fratello stupido di Kit, Jiff,sempre in maniera incredibilmente esilarante, sublimi momenti di improvvisazione. Gotcha Suckas!

di Gianluigi Perrone

THE SCORE di Frank Oz (2001)

Nick Wells (De Niro) un ladro professionista sta per andare in pensione, quando Max (Brando), un suo vecchio collega, gli propone un affare; rubare uno scettro francese di inestimabile valore. Nella missione verrà affiancato dal giovane promettente Jackie Teller (Norton). Non mi ricordo bene all'epoca cosa mi aspettavo da questo film. Di sicuro mi ricordo che ne rimasi estremante deluso (per non dire incazzato). Infatti non capita tutti giorni di avere un trio come Norton-DeNiro-Brando nello stesso film. Peccato che ci sia poco da parlare. Il film si preoccupa più di far dialogare i protagonisti che di cercare veramente di fare un thriller. Errore veniale, se i dialoghi fossero stati per lo meno decenti. Incredibile come neanche li il film riesce a colpire. Piccolo riepilogo: storia essenziale, dialoghi ridicoli e leggerezza produttiva. Che c'è da salvare? Gli attori: Brando oramai era andato; anche per il poco tempo che sta in scena è sempre una sofferenza vederlo arrancare nella recitazione (oltre che per il suo peso). De Niro invece è difficile da commentare; da una parte la presenza scenica fa ancora paura, dall' altra invece sembra voler continuare a perseverare su scelte artistiche (che al momento che uscì il film non erano ancora accentuate come adesso) che non si adattano ad un istrione come lui. Norton invece è bravo. Si carica il peso del film e lo regge per quanto può fino alla fine. Magari c'è veramente poco da salvare di questo The score. Però visto che si tratta della prima regia di Oz di un crime-movie vale la pena lodarlo per aver girato almeno una buonissima scena di rapina e un finale, seppur scontato, che comunque rimane il momento più vitale di un film morto. Spero che ci sarà un prossima volta per Oz di dimostrare che può fare bene pure in questo genere. "Onore" poi a quei furbastri dei produttori che sono riusciti a creare un film basandosi solo sul casting. Da fucilazione.

di Daniele Pellegrini

TUTTE LE MANIE DI BOB di Frank Oz (1991)

Il solitario newyorkese Bob Wiley (Bill Murray) è afflitto da una delle più estranianti malattie: è nevrotico per colpa delle sue troppe manie. Ricorre così a Leo Marvin (Richard Dreyfuss), uno dei più importanti psicologi della citta, nonchè autore di uno dei libri più letti "Passi di bambino". Il povero Wiley non sa però che l'egocentrico dottore è in partenza e per liquidare il suo nuovo paziente gli propone la lettura del suo libro. Quello che non può sapere il dottore che Wiley crede ciecamente che il dottore lo possa aiutare, e che, cosa più importante di tutti lo raggiungerà in villeggiatura. La pace del dottore potrebbe essere messa in seria discussione, mentre il nevrotico Wiley sembra non avere difficoltà a fare amicizia con la famiglia di Marvin. Film nato e maturato sull'impostazione artistica dei due protagonisti: per Bill Murray è e non sarà mai nuovo il ruolo di sociopatico. Anzi la figura del nevrotico cinematografico potrebbe seguire di passo passo quella filmografica di Murray. E' nato per questo, non c'è neanche troppo differenza tra il Murray nevrotico impostato e quello come in questo caso nevrotico scherzoso. Probabilmente morirà cinematograficamente sull'orma di questi personaggi. Discorso differente per Dreyfuss. Premetto che è un grandissimo attore, uno di quelli per cui potresti pure innamorarti del cinema, però come attore comico ha sempre funzionato poco. Naturalmente non giova la seconda parte del film tutta sopra le righe e grossolana, dove il suo personaggio viene a sua volta colpito dalle nevrosi create dal paziente intruso. Insomma se c'è da trovare un difetto al film è proprio questo fortuito cambio di ruoli fra il dottore e il nevrotico. Poteva essere anche un idea buona. Ma se il nevrotico Bill Murray mette in scena un personaggio bello e reale (difficile non innamorarsi), al nevrotico Dreyfuss non restano che improbabili scenette che accompagnano il film verso il consolatorio finale. Naturalmente il film non è brutto. Tutte le manie di Bob è un ottima commedia per circa un'ora (c'e addirittura chi riuscirebbe a trovarci delle basi contro la psicoanalisi) e un discreto film goliardico per la seconda metà. Ma sopratutto fa ridere tanto, il che credo sia il vanto maggiore per un film del genere. E' scritto bene e diretto ottimamente da Oz (il che può anche significare che evita di fare danni) e conserva almeno due o tre scene da mandare a memoria: su tutte quella dell'intervista al dott. Wiley. Da vedere e rivedere senza troppe pretese.

di Gianluigi Perrone

LA DONNA PERFETTA di Frank Oz (2004)

Che orrore questo remake de "La fabbrica della mogli" cult ultra-femminista datato 1975. L'orrore e il disdegnonascono non dal semplice fatto che sia un remake. Orrore viene dalla messa in scena. C'è del perverso ad Hollywood nel far credere che la Kidman possa essere simpatica? Bella, bellissima donna e attrice dalle capacità straordinarie, ma non quella di risollevare uno script brutale nei confronti dell'intelligenza umana. Del masochismo invece nel far continuare a lavorare Broderick, tra l'altro ingrassato a dismisura, che a conti fatti funziona solo ed esclusivamente come creatura di John Hughes (o al massimo davanti a un computer). Contenti loro. La Kidman in una delle tante battute deliranti del film lo definirà un "vero uomo". Sarà. Ma mi ricordo che la scimmia di Fuga dal futuro era più espressiva di lui. Meglio tacere riguardo a Christopher Walken, Glenn Close e Jon Lovitz; quindi ritorniamo al film. Dove la commedia fa sbadigliare (da sucidio i finti reality all'inizio) la donna perfetta, così come nell'originale, gode di una seconda parte decisamente più movimentata che vira sul thriller. Il film ne guadagna in visibilità e ritmo ma non in qualità. I twist e contro twist finali non rendono giustizia a un film che per natura doveva almeno provare ad essere un pochino più cattivo. Spero che Oz centri poco con questo disastro, comunque va dato atto che il film è girato bene e che molte volte riesce anche ad infilare citazioni di classe. Piccole soddisfazioni per un prodotto che va dimenticato alla svelta. Titoli di testa di gran classe comunque.

di Daniele Pellegrini

IN & OUT di Frank Oz (1998)

Giustamente considerata una delle più importanti commedie del decennio scorso In & Out si guadagna il merito di aver fatto ridere ed insegnare con classe ed eleganza. Merito che tanti anni prima veniva associato ad un certo cinema sociale di Frank Capra di cui In & Out è l'esaltazione. Nel film si parla di Howard Brackett, amato professore di letteratura di una piccola cittadina, in procinto di sposarsi. Se non fosse che durante la premiazione degli Oscar (strepitoso il finto trailer Servire e Proteggere), un suo vecchio allievo Cameron Drake decide di annunciare al mondo l'omosessualità del professore Brackett sconvolgendo l’intera cittadina. E' solo l'inizio di un innumerevole numero di gag che porteranno l’effemminato professore a convincersi di esserlo. Lo scopo del film di Oz è chiaro. Ironizzare su l'omofobia collettiva. L'omosessualità è il fattore esterno che inserito in un contesto povero culturalmente, come una piccola cittadina di provincia, scatena l'isterismo. Quindi ecco il preside che non riesce a pronunciare la parola omosessuale, gli alunni che si sentono a disagio dentro lo spogliatoio con il professore, i genitori di lui che spettegolano sulla moralità di Drake e tanto altro. Per questo In & out funziona; il disagio collettivo è perfetto per installare una moltitudine di gag. L'uomo impaurito è un uomo buffo. Così come è buffo il professore che, al di sopra di tutte le prove (Amare la Streisand è quella che in CSI chiamano prova schiacciante), non accetta il fatto di essere gay. In una delle tante scene memorabili il professore Brackett cerca in un corso audio la propria virilità e finirà a ballare sulle note di I will survival ("Arnold non balla! si muove appena"), un ballo scatenato, un ballo rivelatore, un ballo che acceca ogni pregiudizio. In questo senso sono stati perfetti Frank Oz e lo sceneggiatore Rudnick nell'accentuare, senza nulla togliere alla comicità, le situazioni paradossalmente ambigue. In & out è uno sberleffo ad un certo perbenismo, sia mediatico che sociale americano. E in più, cosa che non guasta, fa ridere tanto. Sul lato invece artistico, naturalmente c'è da sottolineare l’egocentricità contagiosa di Kevin Kline qui in uno dei suo ruoli migliori. Ma la "palma" di miglior attrice del film va a Joan Cusack, straordinaria interprete del suo corpo goffo.

di Daniele Pellegrini