Thursday, April 17, 2008

DIETRO LO SPECCHIO (BIGGER THAN LIFE) di Nicholas Ray (1956)

Per una volta il titolo italiano di un film è più appropriato di quello originale. In questo caso rivela ben piùdelle intenzioni del regista rispetto a ciò che viene esplicitato dichiaratamente. Già perchè dietro ad un melodramma a tinte a volte inquietanti, Ray, insieme al protagonista James Mason (anche produttore e sceneggiatore) ed al non accreditato Clifford Odets, sferrano una critica ferocissima ai valori rigidi della classe media americana negli anni '50. L'espediente è la follia del protagonista, l'insegnante Ed Avery, che riesce a contenere una malattia mortale attraverso una cura di cortisone. Il fatto si ispira ad una storia vera ed in effetti il cortisone può avere degli effetti collaterali sul carattere devastanti. Avery ha comportamenti di fastidio verso la moglie e esageratamente severi verso il povero figlio che viene pressato in maniera assurda. Presto comincia ad avere deliri mistici e viene fermato prima di diventare pericoloso. Si ha la possibilità di far affermare cose assurde, come un attacco alla chiesa, al protagonista, con la scusa del suo delirio farmacologico ed alcuni comportamenti sono sì folli ma non tanto dissimili dalla realtà di un perbenismo della mid-class. Il film ha una grammatica quasi horror per l'uso delle ombre e l'immagine con cui viene mostrato Mason, quasi un antesignano di Jack Torrence. A quanto pare il cortisone e l'urgenza dell'addizione da farmaci è solo una scusa per puntare liberamente il dito su atteggiamenti repressivi e deliranti. Un film che per l'epoca era decisamente sovversivo. In una parte di supporto anche Walter Matthau.

di Gianluigi Perrone

SEXY BEAST di Jonathan Glazer (2000)

Piccolo gioiello di scrittura, costruzione e registrazione, Sexy Beast è uno di quei film che assurge poco per volta allo stato di cult. Jonathan Glazer viene dai video ed è molto forte nella ricostruzione di immagini surreali ed oniriche anche se qui un certo immaginario si fonde con una voglia di noir che deve decisamente molto a Pulp Fiction. Il plot è quasi nullo, il criminale Don Logan (Ben Kingsley) raggiunge Gal Dove(Ray Winstone), un rapinatore ritiratosi, nel'intento di farlo ritornare all'opera, cosa di cui Gal non ha nessunissima intenzione visto che si trova in quello stato di pensionamento per cui il passato è ormai impensabile. La situazione impazzirà. Tutto gira intorno al personaggio di Kingsley che viene prima annunciato con terrore dagli altri personaggi e poi interpretato in maniera sublime dall'attore che crea un personaggio insopportabile, moralmente delirante, una vera calamità. Pare che Kingsley si sia ispirato alla nonna per Logan, ma è indubbio che anche una costruzione dei dialoghi ossessivi abbia influito positivamente sulla situazione. In film si contiene tutto in un minimo accadimento i cui avvenimenti di contorno fanno solo da contraltare ma su una struttura che funziona benissimo. Ottima risposta britannica al pulp americano che sicuramente nasconde dei difetti ma sono ben nascosti da uno scheletro di dialoghi e scene perfetto.

di Gianluigi Perrone

HATCHET di Adam Green (2007)

Quasi sicuramente il successo di Hatchet è dovuto innanzitutto alla campagna azzeccata con cui è stato presentato il film. Infatti rivendicare una genuinità vecchio stile contro l'imbastardimento dell'horror moderno commerciale ha gioco facile sulle coscienze dei fan desiderosi di vedere il buon vecchio horror anni '80. Ed in effetti Hatchet mantiene quello che promette, ovvero una specie di nuovo capitolo di Venerdì 13. In effetti il protagonista del film, Victor Crowley, l'assassino che massacrerà le vittime di turno nella palude di turno, ricorda molto il vecchio Jason ma senza la sua maschera da hockey e non a caso viene interpretato da Kane Hodder. La struttura è sostanzialmente quella classica di un gruppo assortito di persone che finiscono in un luogo maledetto (in una palude di New Orleans) dove semina la morte un assassino maniaco deforme ed invasato. Quello che funziona in realtà non è affatto la regia nè la componente horror. Checchè ne pensi il regista Adam Green che pare essersi autoconvinto di essere un genio, l'atmosfera horror è mal costruita ed assomiglia grossolanamente a quella di film brutti che vivono di un fascino vintage. Non ha quindi senso riproporre tali sistemi, soprattutto senza le idee chiare. Green ha l'approccio totale di un fan, quindi è felicissimo di metterci dentro Tony Todd, Hodder e Robert Englund,nonchè l'ultima cafonissima canzone di Marylin Manson, eppure non si rende conto che il suo mostro è goffo e ridicolo, realizzato veramente male con una maschera posticcia. Alcune scene di morte sono bene realizzate, soprattutto una donna a cui viene staccata la mandibola, ma il resto è bene o male già visto. Eppure Green ha fatto un buon film,anche se non ha capito perchè. La fortissima dose di ironia, dei dialoghi brillanti e obbiettivamente divertente ed ottime interpretazioni di attori ben diretti rivelano il vero talento di Green, ovvero quello comico. Se i due elementi fossero stati bilanciati avremmo avuto un'opera veramente grande, come molti asserivano in malafede. In realtà abbiamo un piccolo prodotto divertente, interessante proprio perchè rende i suoi difetti tangibili e quindi analizzabili. Comunque si aspetta Green alla prossima prova, The Spiral, che pare essere ben più complessa.

di Gianluigi Perrone

Das erste semester (1997) di Uwe Boll




College movie alla Uwe Boll che ormai liberatosi del suo socio Frank Lusting può dare sfogo alle sue idee personalissime di stile e regia. “Das erste semester” è apparentemente un passo più commerciale rispetto ad “Amoklauf” con i suoi studenti goliardici e pruriti giovanili da “Porky’s” teutonico, ma è solo una facciata perché tra le righe si ritorna a parlare di solitudine, di un sistema che tende ad omologarti al di là dei tuoi sogni, questa volta in maniera più velata certo dello strabordante e strillato “German fried movie”, ma con la stessa carica di critica esplosiva. La storia è quella, semplice, di un ragazzo che, dopo avere ereditato una fortuna, decide di iscriversi al primo semestre dell’Università e lì cercare la donna della sua vita, ma il patrigno cercherà di mettere le mani sui soldi del giovane rovinandogli tutti i suoi piani. In mezzo a questo semplice plot Boll si sbizzarrisce in una regia sempre più sicura rispetto agli esordi e a tratti persini virtuosistica, mai convenzionale, primi semi di una cifra stilistica difficilmente omologabile di anarchico del cinema. Gli attori sono volenterosi quanto basta per evitare il fastidioso senso di amatorialità della precedente commedia tra cui spicca per bellezza e bravura la fulgida e sensuale Radost Bokel, già vista nel film fantasy italo tedesco “Momo” di Johannes Schaaf.
di Andrea Lanza

Barschel - Mord in Genf? (1993) di Uwe Boll e Frank Lusting



Secondo film (codiretto) di Uwe Boll e secondo tentativo, in parte migliore rispetto a “German fried movie”, di opera politica che cerca di portare alla luce uno dei fatti di cronaca nera più misteriosi e scomodi della storia della Germania. Era l’11 Ottobre del 1987 quando Uwe Barschel, capo del governo democristiano dello Schleswig Holstein, dimissionario in seguito alla denuncia di Pfeiffer, fu trovato una stanza dell'albergo Beau Rivage di Ginevra immerso con i vestiti ancora addosso in una vasca da bagno piena d'acqua. Deceduto sembra per suicidio con la gola piena di sedativi, i motivi del gesto non vennero chiariti del tutto dalla polizia. Da questo fatto reale nasce “In Barschel - Mord in Genf?” di Uwe Boll e Frank Lusting, dove si tracciano ipotesi anche non banali sulle presunte cause della morte del politico tedesco. Il film è sicuramente interessante nell’idea meta filmica di raccontare la vicenda attraverso un progetto di due registi e un produttore di girare un film sulla vicenda. Boll e Lusting riescono a tratteggiare con originalità la storia di un uomo che è andato a patti con i suoi demoni, che è stato travolto da un ciclone di cospirazioni politiche non seconde a quelle del Watergate, e che è stato sacrificato dai suoi stessi soci in affari. In “Barschel - Mord in Genf?” però l’eccesso di logorrea nel descrivere il film nel film e un senso di amatorialità, forse anche voluta, minano il risultato finale dell’opera che alla fine risulta meno interessante delle sue premesse. Peccato perché sicuramente con un budget adeguato “In Barschel - Mord in Genf?” sarebbe stato un film importante e all’altezza delle sue meritevoli intenzioni.
Curiosità: lo stesso Uwe Boll fa un cammeo nella pellicola come spettatore addormentato di un cinema
di Andrea Lanza

German fried movie (1991) di Uwe Boll e Frank Lusting


Primo film di Uwe Boll e satira feroce di una certa società che vive in funzione di talk show e futili miti da mangiare e divorare subito. Co-diretto (come tutti i suoi primi passi registici) dall’amico e collega Frank Lusting, il film risulta essere un ibrido di intenzioni e messa in scena, ancora acerba e rozza. “German fried movie” è forse indigeribile per un pubblico non teutonico, ma ancora di più lo saranno le commedie successive, importanti solo per capire l’ecletticità di un autore tacciato molte volte come superficiale e banale. Sono però i primi passi che faranno scoppiare le stragi di “Amoklauf” e “Heart of America” e che condurranno a poco a poco verso il Boll touch dei videogame, qui in maniera ancora seminale, ma non invisibile. “German fried movie” è una serie di scene tenute su da un sottile filo, un po’ come sarà il successivo “Postal”, alcune azzeccate (la scena del ponte dei suicidi) altre un po’ tirate, ma comunque tutte all’insegna di una certa ferocia nel disegnare la Germania. Spicca il divertimento di tratteggiare uno stato come quello tedesco con dei moti ancora sotterraneamente nazisti con frasi come “La Germania ai tedeschi” e che trova spazio per il comunismo solo grazie a delle belle lesbiche dal cuore rosso bolscevita. Peccato che, come già detto, molte volte il tutto si limiti soltanto ad una satira superficiale, raramente graffiante, contraddistinta però da una forte dose di cattiveria e scorrettezza. Il problema di “German fried movie” è soprattutto di pagare una sceneggiatura non elaboratissima, che sembra andare avanti ad inerzia (l'idea della tv spazzatura come collage alla lunga stanca), non aiutata purtroppo neppure da bravi attori, e che alla lunga annoia anche lo spettatore più paziente. “German fried movie” non si può considerare un bel film , ma è comunque un’esperimento per le prove successive del regista.


Curiosità: German fried movie (con ovvio riferimento al quasi omonimo esordio di John Landis), secondo le testimonianze dello stesso Boll, raggiunse la quarta posizione al box office tedesco nonostante fosse stato autoprodotto e autodistribuito con mezzi amatoriali.
di Andrea Lanza

Amoklauf (1994) di Uwe Boll




La vita di un Signor nessuno è intervellata da piccoli momenti: il cibo, il lavoro, film di esecuzioni usati come porno per bipassare la sfera sessuale. Ma l’uomo comune ha rabbia dentro e presto sfocerà nel sangue di massa.

Esordio solitario shock alla regia per Uwe Boll nel 1994 in una pellicola all’apparenza lontana da quelli che saranno i suoi film più celebri. “Amoklauf” è figlio del bellissimo “Schramm” di Buttgereit, ma non ne è un clone, anzi riesce a prendere strade innovative in un contesto sicuramente simile. Rispetto a Buttgereit il film di Boll è meno violento graficamente, ma non per questo meno disturbante. L’odissea del nostro uomo comune, con un lavoro svilente, è soprattutto una storia di alienazione mentale e terribile solitudine. La follia del protagonista sfocia a poco a poco davanti a stupidi talk show che si trasformano in maniera quasi armonica in immagini di estenuanti esecuzioni. Il sesso pur se cercato nelle prime immagini con la violenza diventa orgasmo solo in questo caso di pornografia della morte. Da lì a poco l’isolamento del protagonista viene interrotto con una coltellata ai danni della bella vicina e devastato con una strage di massa che rende quel desiderio di morte non più piacere personale, ma sociale. L’unico modo per rapportarsi con gli altri sembra essere solo l’omicidio, il riuscire a risaltare da una massa tutta uguale risplasmando quella stessa massa a nostro volere così come faceva lo psicopatico di “Schramm” con le sue vittime in una sorta di nuova carne cronenberghiana o come farà Zack Wardh nell'ironico "Postal". “Amoklauf” è un film crudo, disperatissimo che tocca corde di nichilismo estremo nei confronti di una società che tenta di schiacciare i più deboli, dove la violenza è l’unico modo per essere qualcuno. Il tocco di Uwe Boll già comincia a notarsi soprattutto nelle lunghe scene al rallenti della strage finale o nella fascinazione per la morte come estetica che avrà in anni recenti il suo massimo sfogo nel bellissimo “Seed”. “Amoklauf” è un film a bassissimo costo, ma ricco di idee e spunti, forse materia non esportabile o commerciale, ma interessante come poche.

di Andrea Lanza

Wednesday, April 16, 2008

Heart of America (2003) di Uwe Boll


Titoli di testa.
Il corridoio è buio. Siamo in una scuola. La telecamera di sorveglianza inquadra dall’alto una sagoma scura che si avvicina. Fotografia sgranatissima da documentario di guerra. La musica è un sottofondo di classica che spazza da Mozart a Vivaldi. La figura ora la possiamo vedere in tutta la sua interezza: è un ragazzo giovanissimo, punta il fucile a pompa contro i nostri occhi. Bam. Musica metal pesantissima. Comincia il massacro.

La pellicola girata nel 2003 e ispirata alle sanguinose vicende del massacro di Colombine è il primo passo per Boll per emergere dalla massa dei registi direct to video, il suo tocco in quest'opera ricorda il precedente “Amoklauf” dove la solitudine sfociava in violenza disperata. Il suo film vale più del famoso “Elephant di Gus Van Sant” o del cinico “Bowling of Columbine” di Michael Moore. Dove Gus Van Sant si perde in un formalismo estetico a base di carrellate o soggettive insistite, di inutili scene gay, “Heart of America” è soprattutto un dramma dai toni quasi elisabettiani che riesce davvero a parlare con sincerità di una tragedia tanto grande. La regia di Boll rispetto a Van Sant è più sensazionalista certo, ma anche più efficace, non si perde in una sorta di carineria auto contemplativa, ma arriva dritto al nodo del dramma con scene efficaci e un alto tasso di introspezione psicologica dei personaggi. Anche il reparto attori è in stato di grazia con delle ottime perfomance di Clint Howard, Michael Parè e un inedito Jurgen Prochow nel ruolo di un padre disperato. Boll è un regista tedesco, quindi estraneo ai fatti, riesce a guardare con sguardo alieno il sistema americano che sottomette e cannibalizza i propri figli. Tra Mac Donald’s e Blockbuster la strage si compie, l’odio adolescenziale esplode graficamente con perizia balistica contro i nostri stessi simili. Cane mangia cane. Siamo nella stessa America che ha creato la Tiger force in Vietnam, che ha nascosto il plutonio nelle vene di Eda Schultz Charton. L’ultima frase prima di uno sparo in “Heart of America” è “Ti odio madre”. Bam. Di questo sangue siamo tutti sporchi.

“Heart of America” è un calcio violento. Molto più cattivo, disincantato e anarchico di qualsiasi altra cosa ci saremmo aspettati. Ed è abbastanza esplicativo di come in Italia un film del genere non sia mai uscito neppure nelle ore più scure. Più facile ridere di morti viventi tranciati da effetti alla “Matrix” che portare nelle nostre case l’orrore più scomodo e reale. Pulp fiction in salsa combat film. L’orrore siamo noi. Sempre.

di Andrea Lanza

Sanctimony (2001) di Uwe Boll


Pochi film sono fregature tanto grosse da voler cercare il regista per flagellarlo: una di questi è sicuramente “Sanctimony”. Credo di essere uno degli estimatori più grandi del regista Uwe Boll, ma il mio primo approccio con lui anni fa non è stato dei migliori, questa sua pellicola paratelevisiva ha acceso il mio malcontento come poche altre. “Sanctimony” è forse l’unico passo completamente sbagliato della carriera del regista: certo di film indigesti ce ne saranno (Alone in the dark), ma nel bene o nel male tutti porteranno il marchio del regista, la sua poetica d’anarchia visiva. Qui invece la regia di Uwe Boll è anonima, addormentata, piatta, imbelle nel rappresentare una storia che non si vergogna di clonare “American psycho” senza ritegno. Abbiamo il pessimo Casper Van Dien, reduce dal grandissimo successo di Verhoeven “Straship trooper” e chissà perché coinvolto a recitare qui, nei panni di un broker di successo con qualche vizietto nascosto. Infatti il nostro Casper di notte si aggira come un’anima persa nei night club più hot in certa di nuove emozioni e, capitato per sbaglio in uno strano rituale di maschere con tanto di omicidio ai fini di snuff, si sente pronto per uccidere a sua volta. Attenzione ho detto che il film scimmiotta il grande libro di Brett Easton Ellis sullo psicopatico Patrick Bateman, ma se cercate in questo lavoro di Boll le stesse atmosfere, lo stesso vuoto pneumatico che sfocia da nichilismo in violenza efferrata del capolavoro su carta, beh avete sbagliato tutto. Qui abbiamo solo un cretino senza alcun fascino che commette omicidi solo perché Dio sa, che se la prende tra tutti con un super sbirro incazzato quando gli tocca la famiglia. Bel pirla aggiungerei pure. “Sanctimony” è un filmaccio davvero meritevole di essere nei cestoni di qualche supermercato a pochi euro, indegno dell’estro che da lì a poco Boll sfoggerà con violenza quasi devastante nelle sue opere future. Nel cast si salva solo un convincente Michael Parè e un paio di sequenze (la scena delle maschere su tutte) girate con una certa professionalità. Ma è poca cosa in un film da dimenticare presto senza rimpianti.


di Andrea Lanza

Blackwoods (2002) di Uwe Boll



Una gita con la sua fidanzata tra i boschi porta un giovane, Matt, a fare i conti con un passato che forse non è come crede che sia.

Prima dei famosi film che nel bene o nel male daranno fama a Boll c’è stato un periodo che il regista tedesco muoveva i primi passi nelle piccole produzioni con film interessanti come “Heart of America” e obbrobri come “Sanctimony”. “Blackwoods” è un film particolarissimo, uno dei migliori risultati di Uwe Boll nel campo del thriller horror. Merito anche dello sceneggiatore che più di altri saprà assecondare l’estro visionario del regista con delle ottime sceneggiature, Robert Dean Klein. Forse il miglior epigono de “Il sesto senso”, “Blackwoods” vive una sua particolarissima dimensione di thriller soprannaturale a scatole cinesi, completamente imprevedibile, con una storia che trova la sua comprensione solo nel finale. “Blackwoods” non cerca mai facili strade, ma riesce a spaventare e a rendere efficace una tensione che nasce soprattutto dai dedali della mente umana. Si parla certo di fantasmi e di vendette, ma tutto in una sorta di estetica della visione fallace dove il regista e il suo occhio (divino?) diventano unici portatori di una verità assoluta anche nella menzogna. Mai la regia di Boll è stata così elegante, senza mai svaccare in un virtuosismo che nei futuri film diventerà a volte ostentazione di un grandissimo stile fine a se' stesso. Grandissimi momenti di commozione, quasi da ghost story romantica, nell’ultima sequenza dove passato e presente, colpa e pentimento, si incontrano nella tragica deflagrazione di un incidente stradale, dove per qualche istante nell’iride di chi muore resta impressa la speranza di un amore. Ecco “Blackwoods” è anche una non storia d’amore dove tutto potrebbe essere tutto e per colpa del destino non è. Il cast è composto da vecchie glorie del cinema come fu come Clint Howard, fratello del più noto Ron e già nel cast di “House of the dead” e soprattutto Michael Parè, che nei primi anni 80 era promessa di gloria hollywoodiana e ora, come un pugile suonato, si aggira in produzioni di serie B. Ma ringraziando Dio di questo perché solo nelle mani di Boll Parè da’ il meglio di se’.


di Andrea Lanza


NB In una sequenza il protagonista Patrick Muldoon sta giocando al videogame GTA 2. La passione di Boll per i videogiochi era già accesa in quegli anni.

Bloodrayne 2: deliverance (2007) di Uwe Boll


Selvaggio west alla mescalina. Pazzo, folle, completamente fuori dai binari ordinari. Uwe Boll non si è di certo arrabbiato sulla definizione che molti fan gli hanno affibbiato di “Ed Wood del cinema moderno”. E imbastisce proprio una storia che sulla carta ricorda certi Z movie che avrebbero fatto gola al regista di “Plan 9 from outer space”. “Bloodrayne 2” è un sequel non sequel della precedente pellicola, mette in scena la stessa dhampyra all’interno di un contesto diverso, non più medioevo ma western, ma lo fa non rispettando una continuità. Lei, la straniera senza nome, metà umana e metà vampira, ha persino il volto di un’altra attrice, predilige le pistole piuttosto che le lame classiche e non ha più nulla che l’accumuli al personaggio del videogame omonimo. Boll gira un film inneggiante al vecchio spaghetti western assolutamente originale che si pone come re del genere ibrido cowboy e mostri. La trama vede un sanguinario Billy the kid vampiro tiranneggiare la città di Deliverance arrivando ad uccidere persino bambini per creare il suo regno del terrore. Arriveranno a salvare il mondo un manipolo di reietti dall’inferno, con il destino già segnato dalla morte, capitanati dalla bella Rayne. Non può mancare tra questi il leggendario Pat Garret, interpretato da un redivivo Michael Parè, affezionato delle produzioni del regista. “Bloodrayne 2” è un film sanguigno, crudo, che riesce a citare modelli aurei come Peckinpah senza svilirli. Basti pensare al lungo finale dove buoni o cattivi senza distinzione vengono crivellati da colpi e vanno inesorabili verso la morte. Delude un po’ la scelta dell’attrice protagonista Natassia Malthe, priva della carica di sensualità della bellissima Kristanna Locken, ma è poca cosa in un film che riporta alla luce vecchie follie cinematografiche fatte di incontri inverosimili fra personaggi storici e di finzione, come l’ormai cult “Billy The kid vs Dracula”. Tra gli attori spicca invece l’estroso Zack Ward che presterà il volto del folle personaggio principale dell’ancor più folle “Postal”. Un western sicuramente bizzarro, ma tutt’altro che disprezzabile, che paga a volte forse una messa in scena troppo televisiva, retaggio dell’idea di farne un pilot di un’ipotetica serie tv.
di Andrea Lanza

Bloodrayne (2005) di Uwe Boll


Dopo il flop di “Alone in the dark” Uwe Boll torna sempre a girare trasposizioni di videogame, ma in maniera più classica, con sceneggiature più articolate rispetto ai due film precedenti. “Bloodrayne” è il suo lavoro successivo, un’opera non esente da difetti, ma molto affascinante nel fare, come sempre nel cinema del regista, terrorismo con la maniera trattata. La storia del videogame, ambientata in epoca nazista, viene rispettata in parte, ma le libertà sono evidentissime a partire dalla cornice medioevale fino al cotè inedito di dramma familiare tra figlia e padre vampiro. Il risultato finale ricorda un ibrido tra i pupazzoni di “Buffy l’ammazzavampiri” e il romantico videogame/gioco di ruolo “Vampire the masque rade redemption”. Caso quasi unico nella filmografia del regista, il film è violentissimo con effetti speciali sanguinosissimi curati dal collega Olaf Ittenbach. E’ la sagra degli arti tagliati, delle teste decapitate, soprattutto nella director’s cut che amplifica queste scene shock in un nuovo finale che ripropone in pezzi più spinti delle scene horror. Boll azzecca il cast con un gruppo di attori che avrebbero fatto invidia a Tarantino: Michael Madsen, Michelle Rodriguez, il premio Oscar Ben Kingsley. A primeggiare su tutti la stupenda Dhampyra (metà umana e metà vampira) Kristanna Locken che ci regala sia una scena di sesso anomala contro le sbarre di una cella sia vari umori lesbo quando fronteggia belle fanciulle. Uwe Boll dimostra di avere una regia perfetta per il fantasy e costruisce una scena almeno da applauso: la fuga di Bloodrayne dal circo dove flashback e flashfoward si intrecciano. Se per assurdo è proprio il celeberrimo Kingsley ad essere il meno convincente del cast, con faccette da avanspettacolo, per il resto tutto fila liscia o quasi. I già accennati effetti speciali, truculenti come non mai, sono infatti abbastanza brutti e non molto convincenti, soprattutto a reparto make up. Ma “Bloodrayne” , pur se non possedendo la forza anarchica di un “Alone in the dark”, è molto piacevole e regala uno spettacolo d’altri tempi che avrebbe meritato più successo di quello che realmente ha avuto. Ma si sa i geni sono incompresi.
di Andrea Lanza

Alone in the dark (2004) di Uwe Boll


Peggio o forse meglio di “House of the dead” secondo gusti epidermici che con la critica cinematografica non hanno niente a fare. Alone in the dark è una giostra vorticosa spinta all’eccesso con suoni, sparatorie tanto astratte da essere o dementi o sublimi, con una macchina da presa che tenta l’impossibile in una sorta di virtuosismo tsuiharkiano. Se il nostro occhio viene appagato da una parte da un’estetica visiva tra le migliori del cinema moderno horror, dall’altra abbiamo una storia che si fa fatica a seguire, dialoghi che sono fastidiosamente stupidi, un intreccio appassionante quanto una nonnina in vestito sadomaso. Le due anime di un film disprezzato dai più, reo di avere pugnalato al cuore quanti si aspettavano una vera trasposizione del classico gioco per pc e console e invece si sono trovati una specie di Indiana Jones che incontra Stargate che incontra Relic. Ma la grandezza del film di Boll è di essere una grande opera non sense, azzerando storia e dialoghi, si assiste al più grande esperimento di horror visionario tratto da un videogame. Ormai non servono più, come in “House of the dead”, i fotogrammi presi dal videogioco omonimo, è il videogioco che contamina l’essenza cinematografica diventando una grande partita di cui noi siamo solo spettatori. Alone in the dark preso in quest’ottica da hellzappopping horror diventa un esperimento difficilmente riproducibile di videogame meta cinematografico, un esperimento di futurismo su pellicola che non ha precedenti né avrà successori. Se la regia di Boll è potentissima, qui a livelli da titano d’invenzioni, non si può dire lo stesso di un cast stralunato che rende ancora più bizzarra l’operazione. Tara Reid è buona forse solo per qualche porno con capre che la sodomizzano, Slater che reciti Amleto o Paperino ha la faccia sempre uguale, Dorff è più incapace del suo sempre basso standard. In mezzo a questo delirio la scena dove i due protagonisti scopano al ritmo di “Seven seconds” di Neneh Cherry: esilarante nella sua ironia da eiaculazione precoce. Inqualificabilmente perfetto.
NB La scena dove il nano viene sodomizzato da una legione di scimmie ninfomani in "Postal" sembra omaggiare in chiave comica la morte in questo film di Stephen Dorff.
di Andrea Lanza

House of the dead (2003) di Uwe Boll


Parlare di “House of the dead” non è facile, soprattutto se stai per parlarne bene. Ci sarà sicuramente qualche neofita del genere horror con la puzza sotto il naso a martellarti i coglioni con le sue idee sul bello o sul brutto cinematografico o i veterani, saccenti critici della vecchia guardia a storcere il naso con la bocca piena di paroloni e nomi dei bei tempi che furono e non torneranno più come Fulci, Romero e Jackson. Approccio senz’altro sbagliato per rapportarsi al lavoro di Boll che è cosciente di una propria “stupidità” narrativa, anzi la usa a suo vantaggio per giocare coi clichè del cinema della paura senza scendere nella facile parodia, ma imbastendo un gioco meta filmico mai banale dove titoli e situazioni da film e telefilm famosi tornano anche nei nomi dei personaggi (Capitano Kirk, Casper, Mcgyver). E’ un gioco che se non preso seriamente diverte e sa persino stupire, il primo cine game che non si limita a riproporre situazioni giocate, ma ne viene contaminato diventando per assurdo un’operazione quasi cronenberghiana di nuova carne e pixel. In “House of the dead” quindi la lunghissima e detestata sparatoria in bullet time diventa occasione non solo per portare sullo schermo sensazioni vissute davanti al pc e la console, ma proprio per inumanizzare personaggi già bidimensionali in una sorta di invasione del videogame all’interno del film. E’ cinema per certi versi avanguardistico che si fa beffe delle semplici regole cinematografiche in una sorta di anarchia visiva che sovrasta il linguaggio cinematografico consono per essere cinema “oltre” con le sue valenze negative o positive. Dal canto suo Boll non gira male, anzi risulta persino elegante nelle parti meno selvagge di “House of the dead”. Stupisce che pochi conoscitori del cinema bis si siano accorti dei numerosi omaggi che il regista fa ai film italiani sui morti viventi dagli zombi acquatici di “Zombi 2” alle atmosfere e persino alle luci, ai colori, alle situazioni di “After death” di Fragasso con questa nebbia sempre opprimente e almeno una scena rifatta pedissequamente (il petto squarciato da un pugno). A Boll però sembra interessare più il genere avventuroso (e con “Alone in the dark” sarà più evidente) che il superficiale cotè horror con zombi dinoccolati (Zombi 3?) e sangue cannibale. Riverenza nei dialoghi verso George A. Romero e la sua Santa trilogia (ormai arrivata a 5 capitoli) in un film che è l’opposto del classicismo romeriano. A suo modo un classico.


di Andrea Lanza

Tuesday, April 15, 2008

Seed (2008) di Uwe Boll


Max Seed è un serial killer e di quelli cattivi. Già il suo cognome fa capire quale sia la sua passione: guardare. A Seed piace torturare le sue vittime, lasciarle morire d’inedia per giorni, mesi, settimane davanti all’occhio spietato di una videocamera. Lo fa con donne, animali, persino neonati, che piangono, urlano e diventano polvere e ossa. Seed è il male, nulla può fermarlo, neppure la morte. Seppellito vivo dopo un’esecuzione il suo scopo sarà solo la vendetta più sanguinosa.

Questo nuovo horror di Uwe Boll cerca di superare un record: mettere in scena degli omicidi mai così sanguinosi in un’ottica della violenza voyeuristica che tocca su due piani prima l’assassino e poi noi spettatori. Fin dalle prime scene dove il killer assiste ad un esecuzione di volpi (materiale di repertorio naturalmente) si capisce che non siamo capitati nel solito horror game movie alla Uwe Boll con sparatorie infinite e zombi saltellanti. No, in “Seed” siamo all’inferno, un universo pieno di torture e sangue che scorre copioso. Se esiste un’estetica della morte nel nuovo cinema americano va cercata non tanto nei vari Hostel, ma in questo nuovo lavoro del regista teutonico. Il film è pervaso da un’atmosfera disperata, crudelissima. Ecco, appunto è la crudeltà a farla da padrone in una messa in scena sadica e spietata degli omicidi che non cadono mai nel bestiale inumano, ma in una sorta di nichilismo nei confronti della vita. “Seed” è un film autardiano dove la tortura è soprattutto crudele attesa di essa. Boll gira benissimo, con uno stile nervoso e la prevalenza della macchina a mano, sceglie ambienti malsani, oscuri, tagliati dai flash delle torce dei poliziotti nella sua opera più feroce, quasi riflesso d’animalesca rivolta verso tutti quelli l’hanno catalogato come regista pessimo e superficiale. In “Seed” esiste una sorta d’atemporalità nel narrare la vicenda: gli anni 70 sembrano mischiati ad elementi attuali in una sorta di postmoderno narrativo che serve a donare alla vicenda un’aria ancora più folle. “Seed” non è un film moralista, ma anzi si limita a mettere in scene omicidi in maniera quasi documentaristica e perché no pornografica senza prendere posizioni ne’ verso i buoni né berso il malvagio assassino. E’ un personaggio positivo il poliziotto che sotterra vivo il killer ancora vivo? O lo sono i secondini che prima di essere brutalmente asassinati da Seed lo umiliano? Seed è il lato scuro di ogni spettatore, la sua fama di vedere è oltre i talk show, oltre i film horror, oltre i documentari shock. Stupisce poi un finale plumbeo come pochi e con tocchi di bellezza estetica come la bambina urlante nell’occhio del padre. Il cast è ottimo, Michael Parè regala la sua performance più bella e sofferente da tanto, tanto tempo. Da vedere senza dubbio per poter rivalutare finalmente il nome di Uwe Boll. Lunga vita al re.

NB Circola su internet una versione di Seed da 79 minuti mortalmente tagliata da pesanti censure. Manca tra le altre cose una ferocissima sequenza dove Seed uccideva una vecchia a martellate. I tagli poi sono stati inferti con tanto dilettantismo da rendere a tratti incomprensibile la vicenda. Statene alla larga.


di Andrea Lanza

Sunday, April 13, 2008

Postal (2008) di Uwe Boll



Esistono film che non hanno un vero e proprio genere, vivono il limbo di una dimensione tutta loro, particolare e sfrontatissima. Postal di Uwe Boll è uno di questi, anzi è già sulla strada per essere l’esempio più eclatante di un nuovo non genere. Ad occhio superficiale Postal è un’opera come tante, demenziale, sciocca, leggera, non diversa dai facili prototipi di Abraham e Zucker come “L’aereo più pazzo del mondo” o “La pallottola spuntata”; in realtà molteplici sono gli umori che scorrono attraverso le immagini, a volte eccessivamente grottesche a volte di un cinico tendente all’autodistruttivo, fino ad arrivare a far divenire Postal forse l’opera più smaccatamente politica e antiamericana del nuovo millennio. Dimentichiamo le urla col dito puntato di Michael Moore o un certo cinema anche italiano di denuncia (i vari Martinelli, Ferrara e Placido), nel film di Uwe Boll ci troviamo in una dimensione di completa anarchia visiva, visionaria e perché no narrativa fin dalle prime scene; è un altro cinema, quasi lynchiano nella struttura, dove ogni nostra convinzione o idea viene sovvertita da un luna park di surrealismo sfrontato e devastante. Benvenuti quindi nel Paese degli orrori: l’America. La storia, sfilacciata e semplice, è quella di un uomo comune che si trova invischiato in un complotto terroristico talebano atto alla fine del mondo. Ecco, ma ridurre Postal in una linea di sceneggiatura, che sì e no sarà stata scritta in una paginetta, è svilente perché la critica di un sistema come quello americano, veloce, superficiale, tendente all’autismo delle persone in una concezione più grande di macchina sociale, è a livelli così alti da lasciare basiti. Uwe Boll usa la carta del nonsense per parlare di disagi, di un Paese che dopo l’11 Settembre si sente stuprato di certezze, che usa la violenza del razzismo per combattere l’odio razziale, creando forse la macchina cinema più folle dai tempi del capolavoro ridanciano “Hellzapopping” di Henry C. Potter. L’umorismo di Postal, molto fumettoso e folle, ricorda a tratti il cinismo de “I Simpson”, ma lo amplifica mettendo in scena in un mondo allo sbando dove non esiste pietà per nessuno né invalidi né bambini, l’America è madre cannibale che divora i propri figli e arriva ad usare, a suo beneficio, i resti di una strage per imbastire un telegiornale di lacrime esclusivamente a scopo di odience. Postal è secondo le intenzioni provocatorie del regista “il diretto concorrente di Indiana Jones”, ma è probabilmente solo un’altra provocazione perché nulla né a livello concettuale né a livelo spettacolare potrebbe unire questo film alla saga avventurosa di Spielberg. Un suicidio commerciale sicuramente anche alla luce dell’ultima immagine dove ci vengono mostrati Bin Adel e George W. Bush correre mano nella mano verso una deflagrazione atomica che porta inequivocabilmente alla parole fine nel senso più assoluto. Da amare o da odiare, chi scrive però vede in Postal i segni di un genio che da anni manca al cinema contemporaneo, troppo impegnato ad essere autore per riuscire a parlare con semplicità di temi importanti e attualissimi. Cammeo del regista nel ruolo di… se stesso.
di Andrea Lanza

Sunday, April 06, 2008

TUONO ROSSO The Great Skycopter Rescue di Lawrence Foldes (1978)

The Great Skycopter Rescue è un film lineare nel proprio genere. Una multinazionale di Sacramento vuole mettere le mani su di un enorme giacimento petrolifero rilevato sotto le case del pacifico paesino di Libertyville. Per tentare di acquistare tutte le terre senza pagare molto, decide di assoldare un manipolo di motociclisti dinamitardi per seminare distruzione tra gli abitanti. Con l’ausilio del corrotto sceriffo Burgess (Aldo Ray,uno che di b-movie se ne intende) ,i teppisti avranno via libera per distruggere case,auto,locali e per picchiare ,minacciare e violentare gli indifesi cittadini. Totalmente isolati,senza possibilità di ricevere aiuto dalla polizia,le ultime speranze delle inermi vittime della brutale violenza dei teppisti rimangono riposte nella strana coppia di elicotteristi formata da uno strano nerd e dal capitano Jim Jet, un disc-jockey che,per sbarcare il lunario, si traveste da astronauta. La battaglia sarà durissima, con un ultimo scontro nell’aria,con tanto di sottofondo da “la cavalcata delle Valkirie”. Lawrence D. Foldes si mostra ottimo allievo di Corman ,con un film che scorre piacevolmente,tra scazzottate e battute in puro american B-movies style. Uno dei motivi per recuperare questo film è ,di sicuro, la presenza,nel ruolo del protagonista,di quel Terry Michos che interpretava il mitico Vermin in “THE WARRIORS”.

di Andrea Scalise

Thursday, April 03, 2008

PERDITA DURANGO di Álex de la Iglesia

Ci sono due anime bellissime e dannate che si incontrano e si amano nella frontiera tra America e Messico: uno si professa mago-scienziato, dell’altra non si niente tranne qualche torbido scheletro nell’armadio. C’è un cattivissimo boss pedofilo che organizza omicidi e piani durante il compleanno della nipotina che tra un vestito da pagliaccio e un abuso smercia per le industrie cosmetiche interi camion di feti umani (ed il fatto è anche vero di cronaca…). C’è una coppia di giovanissimi ragazzi americani in vacanza da soli per la prima volta, innocenti ed imbranati che finiranno per cozzare le loro vite (e sentimenti) con la coppia dell’inizio, tirando fuori il loro lato animalesco. E poi c’è la santeria, la droga, l’amore, il sesso, i sbirri, le vendette e Aldrich con Vera Cruz. Il film maledetto di De la Iglesia, forse la sua opera più assoluta, censuratissima ovunque (impossibile praticamente recuperarlo assolutamente uncut) è un helzapoppin al fulmicotone che plasma con intelligenza e grande senso della tragedia e dell’epica mezzo secolo di cinema e letteratura mondiale, un road movie in cui l’amicizia,l’amore e il sangue scorrono e si fondono continuamente creando diversi piani narrativi e diverse sensazioni. Romeo e Perdita le due anime nere del film, uno che sogna di morire come Lancaster in Vera Cruz e l’altra che è la vera “pupa del gangster”, interpretati divinamente da un immenso Javier Bardem e da una sorprendentemente brava e sexy Rosie Perez, sono due personaggi umanissimi che vivono nel loro mondo fottendo tutto e tutti (“politicamente” ricordano vagamente la coppia di amanti assassini in Natural born Killers di stone): si amano si odiano, si fanno del male fino riunirsi e venire messi a nudo dalle loro nemesi “buone” ovvero la coppia “sacrificale” di sfigati (da antologia il rito di santeria con cadaveri,cocaina e un inviperito Jay Hawkins a fare da spalla al grandissimo Bardem), tutti personaggi costruiti con grande classe e spessore, senza banalità o inutili guizzi pulp da quattro soldi. La carta vincente del film è infatti proprio tutta nell’umanità che viene esaltata in questa folle ed eccessiva corsa in cui non sarebbe totalmente fuori luogo usare la parola melò. De la Iglesia alla sua prima opera “americana” riesce a trovare un compromesso perfetto tra la follia cinica e grottesca dei primi film e il mito quasi “west” del cinema americano, riesce finalmente a bilanciare perfettamente eccesso ed epica come mai gli riuscirà anche in futuro: si sghignazza, si prova ribrezzo e alla fine ci si commuove pure e l’immenso omaggio a Vera Cruz, uno dei più sentiti e bei omaggi da 20anni a questa parte, è solo una sfumatura in un affresco che sembra una fantastica sfrenata di sensazioni ed emozioni, condita da sangue,pallottole,amore e violenza. Assolutamente divino e fondamentale. pure fucking badass cinema...

di Davide Casale

LA COMUNIDAD di Alex De La Iglesia (2000)

Immaginatevi un palazzo nel centro di una grande città, una signora bionda molto avvenente che presenta uno degli appartamenti in vendita, è molto elegante e fa bene il suo mestiere. Immaginate che lei aspetti un uomo, il suo uomo che deve arrivare a cena per poi passare una notte di fuoco nell’ appartamento che non è loro, una notte di rischio e passione. E’ quello che succede all’inizio de LA COMUNIDAD, la città in questione è Madrid e il palazzo si trova nei pressi di Plaza de España, nel centro della metropoli. Il condominio sarà teatro di tutta la vicenda perché in esso, come premessa di una piece teatrale dai toni tragico grotteschi, la stessa signora bionda che lavora per l’agenzia immobiliare farà la scoperta di un cadavere. Un uomo la cui morte tutti i condomini, che nel loro insieme si chiamano in spagnolo appunto “comunidad”,aspettavano da tempo, un uomo che nascondeva qualcosa a cui tutti ambivano. Il vecchio aveva un sacco di soldi nascosti nel suo appartamento, aveva vinto il totocalcio e per paura dell’avidità dei vicini di casa si era barricato in essa, vivendo tra i propri rifiuti, coltivando il proprio terrore fino alla morte. Ora i vicini sanno che i soldi sono nascosti, senza l’occhio vigile del vecchio, ma incustoditi e sospettano che la signora dell’agenzia immobiliare li abbia trovati e presi prima che loro abbiano potuto iniziare le ricerche. Faranno di tutto perché lei non esca dal palazzo. La regia è di Alex De La Iglesia e la signora dell’agenzia immobiliare è la talentuosa Carmen Maura la quale verrà scritturata dal regista anche nel successivo 800 BALAS, De la Iglesia in questo film si muove a suo agio giocando coi toni del grottesco e delineando i personaggi, i condomini, con una perizia e un’attenzione per i dettagli maniacale! Non c’è personaggio che non sia perfettamente rappresentativo di realtà e di deviazioni sociali mascherate da quotidianità, Iglesia crea una sorta di microsocietà tipica del primo mondo dentro quattro mura, con tutti i difetti e i pochissimi pregi di un’umanità ormai interessata solo ai soldi, ad un obiettivo che deve raggiungere a tutti i costi, perché il sacrificio nell’accezione capitalista, ma anche cattolica, porta alla ricompensa! Meta che si trasforma in fobia, paranoia, un ossessione che costringe i condomini a ipotecare la loro stessa vita, la felicità, in funzione di un sogno che attraverso gli anni è diventato ogni giorno di più un maledetto incubo.
Il cinema di Alex De La Iglesia non cita praticamente mai altri film, la sua peculiarità è l’originalità, ma non per questo mancano strizzate d’occhio a classici della settima arte, cose appena percettibili come alcune inquadrature che non possono che ricordarci Hitchcock e dei brevissimi momenti che ci rimandano alla mente gli zombi di un altro osservatore critico della società odierna, George A. Romero. Il regista in questo film si scatena con le sequenze interne e mette in campo un armamentario inesauribile di inquadrature, grandangoli, carellate e panoramiche sui condomini che sembrano quasi immagini surrealiste. La summa del suo stile registico viene esaltata da un impeccabile senso del tempo, infatti il montaggio è frutto di un lavoro certosino, ogni inquadratura è sfruttata al meglio in funzione dell’angoscia e il senso di oppressione che si amplificano mano a mano si va avanti con la visione, fino alla breve fuoriuscita a cielo aperto. I brevissimi esterni, che sono situati alla fine del film, sono formati da inquadrature calcolate in ogni minimo dettaglio, ricordandoci gli esterni girati come se fossero interni, con poco spazio al cielo, dei primi tre film di Marco Ferreri, quando lavorava a Madrid. Alex De La Iglesia è caustico e in questo film lo è ancora di più rispetto alle sue opere precedenti, si prende gioco dell’istinto umano muovendo i suoi personaggi come marionette sacrificabili in tutto e per tutto, non ci sono buoni o cattivi in questo film, ma solo condomini pieni di sorprese ed estranei che violano l’habitat infernale del condominio. E’ spaventoso come venga rappresentata la fobia umana per la ricchezza in questa tragedia di una dei più briosi e intelligenti registi viventi.

di Davide Casale

EL DIA DE LA BESTIA aka IL GIORNO DELLA BESTIA di Alex De la Iglesia (1995)

Questo film è il primo capolavoro di Alex De la Iglesia. Inaugurerà però un periodo di crisi che il regista supererà cambiando di registro e girando un film negli States, PERDITA DURANGO. Recuperate le forze e sposatosi a Las Vegas, confezionerà in seguito MUERTOS DE RISAS, il suo secondo capolavoro, ma questa è un’altra storia.
El Dia De La Bestia, come ama dire lo stesso regista è una commedia di azione satanica, con tocchi horror, una frenetica epopea in cui i tre protagonisti percorrono in lungo e in largo una piovosa Madrid nella serata-notte del giorno di Natale del 1995. A riunire questa sorta di trinità o novelli re magi, ci pensa il prete del trio, un bravissimo Álex Angulo nei panni di un prete studioso di sacre scritture, il quale dopo attenti calcoli scopre che l’anticristo nascerà a Madrid proprio in quel fatidico giorno. La gente si diverte, compra i regali per i propri cari, il consumismo ha un’ impennata e solo un uomo sa cosa sta per accadere, il male sta per nascere, conosce la data e la città, ma deve scoprire il luogo esatto. Per entrare in contatto con Satana deve peccare e appena giunto a Madrid si impegna nel fare tutto il male possibile. Entra di seguito in contatto con un grasso metallaro interpretato da Santiago Segura e con un esorcista-guaritore-ciarlatano che conduce un programma televisivo, un Italiano (guarda caso) interpretato da Armando De Razza. Questo trio è composto da persone caratterialmente e socialmente opposte, ma uniranno le loro forze e metteranno a repentaglio le loro vite per salvare il mondo!
E’ un tutto in una notte in una Madrid inquietante, crepuscolare, la pioggia fa quasi pensare che il diluvio universale abbia avuto inizio e che si prepari a seppellire il male che sta per nascere. Parallelamente agli eventi un gruppo di xenofobi inizia ad ammazzare gente emarginata lasciando come firma la scritta in spray “Limpia Madrid”, ossia “Pulisci Madrid”. Qui entra in campo la critica di Iglesia contro la xenofobia, in quegli anni oltretutto preoccupantemente in voga nella capitale Spagnola.
Il prete è coltissimo e molto intelligente, ma avendo vissuto in clausura e dietro ai libri per lungo tempo non ha nessuna esperienza col mondo reale, è una specie di angelo caduto dal cielo. Il metallaro è sciocco ma buono e fedele, inizialmente assiste il prete per pura noia, ma in seguito gli si affeziona. Cavan, il ciarlatano, è il più incredulo forse proprio perché col suo programma prende per i fondelli milioni di persone. Si ricrederà ed esternerà un gran coraggio, sarà proprio lui a spingere il trio nei momenti di difficoltà. Il meccanismo di relazione fra i tre personaggi è ben congeniato, attraverso ostilità e momenti di coesione che si alternano, facendo da base alla suspense indotta dalla corsa contro il tempo. Il male non deve nascere, dopo sarà troppo tardi. A fare ombra alla loro relazione vi è la lotta tra bene e male che incombe, Dio li aiuta con segni quasi impercettibili e il male li ostacola in tutti i modi, non a caso il male sarà rappresentato oltre che dalla banda di nazisti xenofobi, anche dalla polizia. Ma non è una metafora quella dell’anticristo, Satana c’è davvero! E Alex De la Iglesia ce lo mostra già nella prima parte del film nelle vesti di un nero caprone, in una sequenza che rasenta la perfezione, capace di lasciare a bocca aperta.
Il coinvolgimento con le vicende è massimo, attraverso un montaggio serrato il film diventa fin da subito quasi ipnotico facendo divertire lo spettatore dal primo all’ultimo minuto.
Immenso film che non si può non vedere almeno tre volte, pena, la crocifissione!

di Davide Casale

CRIMEN PERFECTO di ALEX DE LA IGLESIA (2004)

Ogni film di Alex De La Iglesia è la conferma di un’idea che a molti può sembrare bizzarra, visti i tempi che corrono: ancora oggi è possibile fare commedie, considerando il termine nella sua accezione più ampia, facendo contemporaneamente cinema, buon cinema. Crimen Ferpecto è l’esempio ottimale per confermare questa tesi; divertire, fare ridere, è possibile non solo scadendo nella volgarità gratuita e soprattutto affidandosi a gag precotte, ma facendo propria un tipo di comicità, affidandosi ad essa, evolvendola nel tempo, cercando soluzioni sempre nuove. Alex De La Iglesia continua nel suo percorso dove la commedia si contamina, senza la paura di improvvisi salti da un genere all’altro: il ritorno alla carica del regista spagnolo è unq commedia nera dai risvolti surreali e condita da una scorrettezza politica di fondo che continua ad essere segno immutabile del suo modo di far cinema. Rafael Gonzalez, un brillantissimo e impomatato Guillermo Toledo, venditore al reparto di abbigliamento femminile di un grande magazzino sta per fare il salto di qualità: la possibilità di diventare capo piano gli sfugge però, improvvisamente, di mano. Donne sempre donne, sua croce e delizia. Delizia per tutte le notti passate in gran segreto nelle corsie dei grandi magazzini a strafare con commesse mozzafiato, croce quando si vedrà costretto a subire capricci e angherie del mostro di turno capace di irretirlo grazie ad un omicidio involontario che li vede maldestri complici. Contro un asso nella manica del genere Rafael si rivela impotente: costretto in uno stremante doppio gioco che lo vede da una parte assecondare la morbosa e repressa Lourdes nei più perversi meandri della sua intimità e dall’altra a salvare faccia e facciata con amici e colleghi che continuano a vederlo come calamita di procaci e affamate commesse. Ma l’ostinazione della nuova fidanzatina nello svelare la loro storia d’amore e nello sposare in diretta tv l’ormai malconcio Rafael sono letteralmente la goccia che fa traboccare il vaso. Se tutto questo è stato scatenato da un omicidio che si è rivelato perfetto (perfecto, ferpecto, in un geniale gioco di parole già nel titolo), tutto potrà tornare alla normalità con un nuovo delitto. Ancora una volta ferpecto. Colpisce in questa commedia surreale in prima istanza la scorrettezza del regista nel trattare il rapporto uomo-donna. Una scorrettezza che è tale per il realismo che porta dentro di sè. Nessun pelo sulla lingua nel narrare il rapporto tra la bella e la bestia. Il bello e la bestia in questo caso. Alex De La Iglesia rifiuta il buonismo del finale classico che vorrebbe il bello innamorarsi della bestia. La parola d’ordine resta liberarsene. Eliminandola. E l’improvviso cambio di strategia non è certo dettato dal brillare del fuoco di una neonata passione, quanto ad un sentimento di ancora più vera e sincera compassione, pena. Poi a giochi fatti, ancora un twist, uno scambio di ruoli in cui è impossibile stabilire chi sia il buono, chi il cattivo, chi il bello e chi la bestia. E nel mezzo tante risate, battute, gag surreali, umorismo nero per niente fine a se stesso. Una profonda riflessione sul difficile rapporto tra due mondi che incontrandosi non possono fare altro che scontrarsi messa in scena nel più leggero e divertente dei modi, una commedia che si tinge di noir, che spiazza anche per i suoi tempi azzeccatissimi: momenti ironici, nonsense, sprazzi di lirismo e visionarietà surreali, riescono a fondersi costringendo lo spettatore ad interrogarsi solo durante i titoli di coda, tanto contemporaneamente densi e leggeri sono stati i 90 minuti precedenti.

di Michelangelo Pasini

AZIONE MUTANTE di ALEX DE LA IGLESIA (1993)

Era il “lontanissimo” 1990, era agosto, faceva molto caldo e Alex De La Iglesia con il suo collaboratore attuale e futuro, Jorge Guerricaechevarrìa, erano appena usciti dall’esperienza del corto MIRINDAS ASESINAS il quale aveva riscosso un successo non indifferente. Insieme avevano scritto la sceneggiatura per un altro corto che si sarebbe intitolato “Piratas Del Espacio”. Il problema più vecchio del mondo in ambito cinematografico e non solo si presentò loro inesorabilmente, ossia l’assenza totale di fondi e si sa che ovviare a questo problema è la cosa principale da mettere come premessa alla realizzazione di un film. Ma la fortuna si nascondeva dietro l’angolo, anzi, dietro la cornetta del telefono! “Piratas Del Espacio” sarebbe diventato Acción Mutante, questo grazie all’improvvisa e inaspettata telefonata da parte della casa di produzione Madrileña “El Deseo”, gestita niente meno che da Pedro Almodovar e da suo fratello Agustin. Loro avrebbero finanziato il progetto, ma doveva essere un lungometraggio, avrebbe riscosso più guadagni. La cosa non schifa di certo il buon vecchio Alex che si vede praticamente piovere dal cielo la possibilità di girare il suo primo lungometraggio, una grande opportunità e una grande responsabilità si affacciano sul suo cammino. Se ve lo siete già dimenticati lo ripeto: grazie all’ interessamento della casa di produzione “El Deseo”Alex De La Iglesia aveva il via per realizzare, con la collaborazione di Guerricaechevarrìa alla sceneggiatura, il suo primo lungometraggio. Le porte del successo per De La Iglesia, ma anche per Guerricaechevarrìa stavano per aprirsi. La trama è molto originale, e sebbene il film non nasconda in alcuni punti il patrocinio del cinema di Pedro Almodovar, cosa tutt’altro che negativa, lo stile personalissimo di Alex De La Iglesia è già presente anche se in uno stato per certi versi embrionale. Acción Mutante ha personaggi e scenari assurdi, barocchi, caratterizzati da un brio quasi picaresco per utilizzare un termine caro alla letteratura Spagnola (il picaro è fondamentalmente un monello che vive di espedienti, un combina guai, se ne volete sapere di più leggete il libro “Lazarillo de Tormes”, la summa della novella Picaresca). Il cattivo gusto traspare un po’ ovunque ma con eleganza, con uno tecnica visiva peculiare che inizia a forgiare lo stile unico del regista Spagnolo. Il gruppo terroristico che da il nome al film è munito di protesi futuristiche che sono montate addosso ai corpi degli andicappati, eh si, sono tutti andicappati, mutanti per dirlo in stile del film. Dall’altra parte ci sono i pijos (fighetti, figli di papà), i loro nemici, gli odiati che Ramon espone e pone come obbiettivo da distruggere recitando i principi che regolano la loro associazione (a delinquere?), gli scopi e gli obiettivi. Questi pijos sono ritratti in maniera ovviamente eccessiva, kitchs nell’aspetto ed estremamente stupidi. Durante la sequenza in cui siamo a una festa di v.i.p, si vede questa estremizzazione al dettaglio, i cameo della scuderia Almodovar, rispettivamente la compagna di quest’ultimo, Bibi Andersen, e l’attrice sua musa Rossy De Palma, indossano dei vestiti che sarebbero eccessivi anche per una passerella prêt à porter. Buona parte del film si svolge sul pianeta Asturias, luogo in cui non esistono donne, ma solo minatori e coloni per la maggior parte deviati mentalmente per questa assenza del gentil sesso. Degli autentici maniaci sessuali allo stato brado per capirci, un po’ come la redazione di Cangaceiro. Il regista genialmente non si pone alcun freno e ce ne mostra di tutti i colori, come la scena ironica quanto delirante di due ragazzi che eiaculano contemporaneamente attraverso i pantaloni alla vista delle graziose forme della rapita (uno dei due è Santiago Segura, attore che si imporrà sulla scena spagnola con delle interpretazioni indimenticabili). Alex De La Iglesia ci mostra anche una scena di tortura con lametta da barba piuttosto estrema, sparatorie violentissime si limitano quasi a fare da contorno di fronte a certe sequenze in cui vengono affrontati argomenti brutali con una leggerezza che contrasta alla perfezione. Il regista prende per il culo alla grande le forze di polizia, cosa più che presente anche nella sua opera futura. Una delle sequenze indimenticabili dal film è quando si vede una pubblicità televisiva di Tripis, ossia dei cartoncini imbevuti di lsd contenuti in confezioni molto simili a quelle dei cereali Kellog’s. La pubblicità recita più o meno: “Fai colazione con Tripis, ogni colazione sarà un viaggio”. Eccezionale! Nella colonna sonora il tema principale dal titolo Acción Mutante è affidato al gruppo rap core arrabbiato DEF CON DOS, originari di Madrid. Come piace al regista, l’azione non manca di certo, continue fughe, imprevisti e sparatorie si succedono nel film e alcuni personaggi sono delineati appositamente per rivestire la classica figura del nemico giurato assetato di vendetta, esemplificativa è la figura del padre della ragazza rapita, un ricco industriale con l’animo del dittatore che rappresenta quella Spagna reazionaria ancora legata con la nostalgia al regime Franchista. Questo film può essere inserito nel filone horror-fantascienza per le scene estremamente violente e per la quantità non indifferente di emoglobina; sebbene non vanti un gran budget gli effetti di make-up e gli effetti meccanici delle scene gore sono impeccabili e per quanto riguarda l’astronave la cosa viene risolta semplicemente col non far mai vedere gli esterni della nave, ma solo gli interni e mettendo in mostra tubi e improbabili sistemi idraulici di comando, molto teatrali ma che non sfigurano in relazione ai toni semi grotteschi del film. Acción Mutante ha un suo stile e un’ originalità prorompente che lo elevano a classico del cinema moderno Spagnolo. Esordio in pompa magna per mister Alex De La Iglesia!

di Davide Casale

Tuesday, April 01, 2008

The mist di Frank Darabont (2008)

Che “The mist” sia un bel film horror non ci piove. Come non ci sono dubbi che il racconto dal quale è tratto è un Signor racconto, uno dei migliori uciti fuori dalla penna del maestro del terrore del Maine. Ma è altrettanto vero che “The mist” è anche un film che alla fine ti lascia un grande vuoto di insoddisfazione soprattutto alla luce di un finale sì crudele, ma tremendamente inutile. Qui il confronto tra la controparte letteraria (il racconto breve “La nebbia” nell’antologia “Scheletri”) e quella cinematografica diventa quindi un obbligo. Stephen King tende alla sottrazione, non spiega il perché arriva all’improvviso questa nebbia portatrice di mostri e non ci tiene a fornirci un finale consolatorio o meno, ma fa finire la vicenda in una sospensione dell’azione, un po’ come il grandissimo ending di “Zombi” di Romero. Tarabont, già autore di un meraviglioso “Miglio verde” kinghiano, invece affronta la materia di petto mostrando quello che era immostrabile con l’ausilio di effetti speciali sofisticati, rende ancora più King quello che in Stephen King non c’era calcando la mano sul versante religioso mistico e cade dove avrebbe dovuto giocare la carta vincente costruendo un finale ad effetto molto ingiustificato. Ma possono dieci minuti di pessimo girato trasformare un buon film in un brutto film? No di certo, ma non aiutano comunque nel giudizio finale e nel ricordo di un film che fino a quel momento era una goduria unica. Curioso poi come il film sia molto più debitore del videogame “Silent hill” che della sua ispirazione letteraria. Certo il gioco è a sua volta ispirato da Lovecraft e da “La nebbia” di King, ma è evidente come la scelta di inserire una predicatrice fulminata dalla folgore di Dio o di un simil pterodattilo sia puramente “Silent hill”, anzi per assurdo “The mist” è molto più speculare al gioco come atmosfere e scenari del (bellissimo) film omonimo di Christopher Gans. Il reparto attori è ottimo così come la regia di Tarabont, pur senza guizzi eccessivi, è degna di nota. Sicuramente un film discreto, ma lontano dall’essere quel grandissimo horror che prometteva. Tante comunque le scene da ricordare, tra tutte la gita nella farmacia vicina con un gruppo di ragni dalla ragnatela mortale. Da divertirci comunque ce n’è.
di Andrea Lanza