Tuesday, September 25, 2007

FUNNY GAMES di Michael Haneke (1997)

Un film con le controballe, una di quelle chicche scovate sotto quintali di sterco in un edicola vecchia e fatiscente, pornazzi sparsi e commediacce di tutti i tipi e nel mezzo sto filmozzo dal titolo godurioso, lo prendo me lo guardo e penso: conosco il regista Haneke è quello della “Pianista”! Un po’ perplesso per l’acquisto torno a casa e lo guardo senza velare diffidenza mentre scarto il paccotto e clicco play. Che sorpresone mi aspettava,un film godurioso come pochi, forse non mi si attaccavano cervello e cervelletto cosi dai tempi di Kids di Larry Clark. La vita di una tranquilla famiglia anche un po’ tristina sul modello di genitori in blue jeans in versione austriaca composta da padre, madre e un figlio viene rallegrata dall’arrivo di due imbecilli laccatissimi e perbenistici con l’unico vizio di essere maledettamente sadici e amanti delle torture. I due sotto le sembianze di due ragazzi ultraeducati hanno l’indole del miglior serial killer, la cosa interessante è che i due non spaventano nessuno con il loro aspetto da chi ha fatto il liceo dai preti e questo permette al regista di articolare la paura con tempi molto dilatati e dare ai due villanzoni il tempo di diventare sotto gli occhi dello spettatore sempre più sadici e sempre più maledettamente reali ed agghiaccianti. Quello che spiazza lo spettatore è l’ambientazione e l’articolazione degli eventi strutturata in maniera realistica, la verosimiglianza con quello che potrebbe accadere a chiunque in qualsiasi momento a detta mia non era mai stata cosi vera sugli schermi di nessuna tv, neanche nelle ricostruzioni di documentari e simili. La possibilità di salvarsi per la famiglia sono tolte sin dall’ inizio dal regista che quindi mette subito in chiaro con chi guarda che dovrà assistere ad un calvario lungo e crudo, ci sono intermezzi metal nella colonna sonora che sono li ad urlare a detta mia la rabbia di chi vive l’inspiegabile e l’irrazionale follia dei due. Di tanto in tanto, uno dei due fetentoni si rivolge alla telecamera e dialoga con noi dietro lo schermo, un esperimento di metacinema che ci ricorda che siamo spettatori di uno spettacolo nel quale possiamo solo fare il tifo per l’uno o per l’altro, ma dove non c’è concesso intervenire, un modo come un altro per ricordarci che in quel caso come nella vita di tutti giorni noi siamo spettatori inermi di quel che vorremmo non accadesse. Straordinari tutti gli interpreti, film da vedere e possedere, ora lo stesso regista sta lavorando ad un remake dello stesso film per la macchina Hollywoodiana: non lo vedrò!

di Salvatore Ferraro

CAPTIVITY DIRECTOR'S CUT REVIEW di Roland Joffè (2007)

Che colpo vedere “Captivity” nella sua veste rimaneggiata e consegnata alle fauci del popolino assetato di “Non aprite quella porta” e Saw” vari. Si perché il film di Roland Joffè, pur non essendo comunque un capolavoro, aveva almeno una confezione dignitosissima, a partire dal prologo con voce over che segue la protagonista (una imbolsita Elisha Cuthbert star di “24”) per le strade di una città. Joffè gira bene, è attento ai tempi della suspence, non sbrocca mai verso l’effetto facile, ma anzi racconta una non storia d’amore di cavie chiuse in gabbia quasi con grazia. In “Captivity” poi c’è attenzione particolare per gli spazi, gli ambienti, tanto che un sotto plot investigativo diventa parallelismo per raccontare l’oppressione di una prigionia senza senso. Qualche pazzo certo potrebbe leggerci quasi un messaggio politico visto anche le radici impegnate del regista, ma la verità è che “Captivity” non ha velleità, è un compito ben svolto dal suo autore, con un certo stile autoriale, ma null’altro che mero esercizio di stile. Certo è che di questo film i più non hanno visto nulla, la produzione scontenta dell’operato di Joffè (però il suo nome è strillato forte nei flani) hanno ripreso in mano l’opera, l’hanno rimontata, rigirata, involgarendo il tutto. Nel girato originale non c’era una tale ferocia nell’accanirsi sulla protagonista, nessun beveroni di organi fatti trangugiare a forza, nessun barboncino in scena o motivazioni di traumi infantili per gli assassini. “Captivity” così vulgato è opera indecorosa, splendente in alcuni momenti, ma il più delle volte dilettantesca e sconclusionata. Joffè si discosta, ma il povero spettatore si deve solo adeguare in attesa del dvd unrated che porti giustizia al fattaccio. Pensare che qualcuno credeva che i tempi si un “Lisa e il diavolo” stuprato dai produttori fosse spettro del passato. Che schifo però.

di Andrea Lanza

Sunday, September 23, 2007

STRADA A DOPPIA CORSIA(Two-lane Blacktop) di Monte Hellman (1971)

Lungo la Route 66, The Driver(James Taylor) e the Mechanic (Dennis Wilson)sembrano vivere solo per la loro auto modificata,una '55 Chevy ,un' auto scassatissima a cui non daresti due lire,e con essa campano di corse clandestine. Lungo la loro strada incontrano una Ragazza(Laurie Bird) che si unisce temporaneamente a loro, se li scopa possibilmente, in attesa di trovare qualcosa di più interessante da fare. Un giorno incontrano G.T.O. (Warren Oates), un perditempo chiaccherone e pallonaro che, forte della sua Chevrolet 210 coupe,li sfida in una corsa. Two Lane Blacktop anticipa di diversi anni i protagonisti senza nome di un altro road movie d'autore, Driver di Walter Hill, spersonalizzando i personaggi ma in un contesto e con intenti diversi. Infatti Monte Hellman gira un road movie completamente antitetico ai valori del genere. Quella dei due protagonisti non è una corsa eroica verso la libertà a tutti i costi. Questo ideale che acquisterà sempre più valore in questi anni verrà smontato da Hellman che ne rivela il lato più malinconico. La vacuità della vita dei protagonisti che vivono seguendo nessun ideale se non l'automatica spinta a dimostrarsi meglio di quello che realmente sono. Il personaggio di Oates è emblematico in tal senso, cerca continuamente compagnia prendendo su chiunque e ad ogniuno racconta un evento diverso, disperatamente tragico e patetico nella speranza di trovare sè stesso. Così i protagonisti che vivono nella folle impresa di raggiungere una meta,di dare un senso alla propria vita con mezzi impossibili, una vecchia auto semidistrutta che diventerà la tomba per uno di loro. E la morte qui non ha il valore eroico di Easy Raider o Vanishing Point. Nonostante Two Lane Blacktop sia stato associato ai film del genere, nè è lo speculare perfetto. Il lato amaro,più realistico e tragico di una menzogna ripetuta con sé stessi. Che in mancanza di una personalità, una esistenza al limite possa essere riempimento. Dialoghi scarni e quasi nessuna colonna sonora, una vacuità dei movimenti e degli atteggiamente dimostrano la estraneità dei protagonisti a sé stessi. E di contro, a questa lentezza narrativa(paradossale in un film che parla di velocità) c'è una regia rigorosa,palpabile come è sempre quella di Monte Hellman.

di Gianluigi Perrone

HALLOWEEN di Rob Zombie (2007)

L'ultima cosa che ci si sarebbe aspettati nella carriera di Rob Zombie era che a seguire The Devil's Rejects sarebbe arrivato un remake. Questo perchè siamo obnubilati dal bombardamento di rifacimenti a nastro che hanno inquinato il significato originale dell'idea di una autore di proporre ad un produttore l'idea di rivisitare un mito del passato. Questo perchè oggi sono i produttori che,diritti alla mano, sfruttano il nome e la storia già vincente del progetto (perchè per questi zucconi il film sta nella storiella) per affidarla al primo che passa. Stessa cosa deve essere successa per Halloween, sacra sindone di John Carpenter, ma con la differenza che è finito nelle mani di un cavallo di razza come Rob Zombie. Sicuramente è stata una scelta coraggiosa quella di Rob perchè stiamo parlando di una icona del cinema horror e, diciamocelo, il regista è stato un po' incosciente a esporsi così facilmente al pubblico ludibrio nel caso di esperimento non riuscito. L'intenzione di Rob, e qui è il caso di metterlo in chiaro una volta per tutte, era rileggere la sceneggiatura del film sotto una chiave diversa. Se è vero che nel cinema di Rob Zombie (e nel suo lavoro di musicista e sceneggiatore di fumetti) c'è un filo conduttore che fa capo ad una precisa visione dell'esistenza, il suo interesse era trasporre i propri temi nella storia di Michael Myers. Quindi non più il "pure evil" senza sé e senza ma. Semmai la recrudescenza di un malessere che si trasforma in furia inarrestabile, la stessa che genera i reietti votati al volere del diavolo. L'intenzione di raccontare l'infanzia di Michael Myers, e quindi di dare un motivo al male assoluto allontana immediatamente il prototipo dal modello originale. Michael Myers è diventato una icona mondiale, un simbolo della paura. Una immagine tanto familiare nell'immaginario collettivo,così come Homer Simpson o Paperino(!!!), da far fatica a pensare di non essere reale. Per cui ne immaginiamo una storia umana. Contemporaneamente Myers è accostabile a figure come Charles Manson,Ted Bundy,Ed Gein, serial killer superficialmente posti a rappresentare il male e la perversione tout-court. Naturalmente anche loro hanno avuto una infanzia quindi la vita di Michael Myers viene messa in parallelo con la loro e non sorprende che la situazione familiare del piccolo Michael ricordi molto quella di Henry Lee Lucas e Charles Manson(alcuni fatti le citano chiaramente). Peccato che, visto il film, non si riesce comunque a giustificare il giovane Michael perchè i traumi subiti non sono poi di tale entità da motivare la sua insaziabile fame di morte. Non tanto per la crudeltà degli stessi,dato che la sensibilità di un bambino non è universale, quanto piuttosto l'inutilità della figura di Sheri Moon, la madre di Michael nel film e nella vita la moglie di Rob, il cui personaggio è eccessivamente positivo. Quindi, nella volontà di verosimiglianza che c'è dietro al film, sarebbe stata la totale assenza di amore ad incidere maggiormente sulla supposta psiche del ragazzino. Peccato perchè l'esordiente Daeg Faerch è veramente bravo e intenso, si vede che registicamente c'è stato un grosso lavoro su di lui ma non supportato da quello in fase di script. Stranamente ci sono molti clichè che non ci si aspetterebbe da Rob Zombie , ancora di più nella seconda parte che difatti ha subito diversi rimaneggiamenti. Nel momento in cui si arriva all'età adulta di Michael, interpretato dal vichingo Tyler Mane, il film diventa uno slasher puro che stride troppo con la prima parte. Qui il film si avvicina pericolosamente al modello originale non potendone coprire la materia tanto più che a questo punto si trova totalmente spaesata e fuori luogo. Nel finale il film crolla in ginocchio in un evidente indecisione che lascia a bocca aperta per ingenuità. E' veramente inspiegabile perchè ci sia questo grave senso di irrisolto quando le premesse facevano auspicare un grandissimo film. Probabilmente la pressione di dover lavorare su un personaggio così caldo ha messo Rob nelle condizioni di trovare dei compromessi che non hanno permesso di sviluppare il tema con la giusta lucidità. Ci sono delle incongruenze tali da far supporre più di una intrusione della Dimension, il film sembra un accordo traballante tra una parte che voleva l'autorialità della pellicola in primo piano e l'altra che pretendeva il riscontro di pubblico. C'è però un paradosso non indifferente e cioè che il film cresce ad ogni visione. Il film oggi ha avuto il suo successo al botteghino e conferisce un potere a Rob Zombie decisamente superiore al passato. In attesa di una nuova prova continueremo a studiare le chiavi di ricerca dell'incubo americano di Rob Zombie.

di Gianluigi Perrone

UN UOMO SENZA SCAMPO(I Walk the Line) di John Frankenheimer 1971

Una voce gracchiante alla radiomobile continua a chiamare lo sceriffo, Il viso teso e stanco di Gregory Peck guarda verso la diga,e ,senza rispondere, risale sull’auto della polizia e riparte.Sullo sfondo le vecchie case ed i volti di una assolata provincia del Sud degli Stati Uniti,in sottofondo la voce di Johnny Cash scandisce, come un metronomo, .il tempo che scorre troppo lentamente nella sonnecchiosa ed apatica cittadina. Basterebbe questo inizio folgorante per promuovere “un uomo senza scampo”(o meglio “I walk the line”, il titolo originale che si ispira ad una delle più famose canzoni di Cash)come un grande noir americano. Frankenheimer sa raccontare una storia,semplice e senza troppi fronzoli,come la vita di uno sceriffo di provincia,impegnato tra un litigio per un albero su un confine e la ricerca di una distilleria clandestina . E’ proprio questa vita noiosa e ripetitiva che lo sceriffo Peck si vede stravolgere dall’incontro con una giovane e biondissima ragazza che ,finalmente, risveglia i suoi sensi di maschio,assopiti e incastrati tra un lavoro frustrante ed una famiglia infelice. La ritrovata vitalità sembra preludere ad una storia d’amore contrastata,ma le cose si complicano a causa dell’occupazione della famiglia della ragazza,ovvero la distillazione di puzzolente, schifosissimo e iperalcoolico Rhum,attività proibita e contrastata dalle leggi dell’epoca. A tutto ciò bisogna aggiungere i problemi con moglie, ispettore statale e ,soprattutto vice-sceriffo. Cosi,come per ogni buon noir che si rispetti, il dramma è dietro l’angolo ed il corso degli eventi precipiterà a tal punto che le cose non potranno più essere come prima. Gli scenari del polveroso Tennessee fanno da cornice ad una storia ,tratta dal romanzo “an exile” (1967) di Madison Jones ,che potrebbero richiamare uno Steinbeck o un Faulkner,ma nelle scene tra paludi e gialli campi di grano spuntano ombre di Lansdale o Flannery O’Connor e di tutta quella letteratura Sudista che trova il proprio specchio cinematografico in “deliverance” di Boorman.. L’approfondimento psicologico del personaggio di Peck ,strappato dalla passione alla austera imparzialità e dedizione ai valori morali tipici della provincia americana,capace di una escalation di atti ,via via, sempre più folli ,pericolosi e febbrilmente disperati,ne fanno una figura struggente di loser. Ed è proprio questo che ci fa amare questo personaggio,che sul lavoro sembra un redivivo John Wayne,ma che non ha il coraggio di rispondere alle insistenti domande della moglie,che si trova ad essere vittima del gioco “del gatto col topo” perpetrata dal suo vice,che, infine, mostra le proprie debolezze in modo tanto plateale e sorprendente da divenire uno zimbello,fragile e sconfitto,da compatire,ma allo stesso tempo da comprendere nella sua umanità.

Di Andrea Scalise

LA MACCHINA NERA di Elliot Silverstein (1977)

Il titolo originale The Car è molto più avvincente non c’è che dire, immaginiamocelo ripetuto all’infinito durante un trailer pacchiano con voce cavernosa. Il regista è Elliot Silverstein classe 1927, lo stesso regista di Un Uomo Chiamato Cavallo.
L’inizio del film è molto curato e avvincente, con musiche, un uso del grandangolo e una soggettiva che rendono alla perfezione, già dai primi secondi di visione, che quella non è una normale macchina e che il guidatore non può avere un’anima. I primi due omicidi con i quali LA Macchina Nera, titolo Italiano, ci si presenta, sono molto freddi e di una routine abbastanza impressionante. Una breve mattanza che non lascia nulla al caso. Di seguito ci vengono presentati i personaggi principali del film, quelli in carne ed ossa. Il protagonista è un poliziotto interpretato da James Brolin, il resto sono colleghi poliziotti, la sua ragazza e vari conoscenti del piccolo e polveroso paese della provincia Americana in cui la macchina semina il terrore.
La vera protagonista del film, con la sua particolare carrozzeria creata appositamente per la scena, è molto suggestiva, con dei fanali che sembrano quasi espressivi di un lucida ma determinata follia. La quattro ruote spunta dal nulla e dopo le sue scorribande omicide, accompagnate da un improvviso quanto sovrannaturale soffiare del vento, scompare nuovamente eludendo non si sa come tutti i posti di blocco che organizzano i poliziotti per arrestare la sua folle corsa.
La trama, al di là delle gesta della macchina, è parecchio banale bisogna ammetterlo. E’ la classica storia in cui un’ qualcosa irrompe nella pace di un paesino di provincia e tutti si organizzano per porvi fine. Struttura classica, già vista e che si vedrà un’ infinità di volte ancora. Sostituiamo la macchina con un pesce e abbiamo Lo Squalo, oppure dei mostri scavatori e abbiamo la saga Tremors. E’ uno slasher solo che l’assassino è un auto, come non a caso, nel recente Death Proof di Tarantino. Il fascino di questo film c’è ma si incentra praticamente solo nel design dell’automobile assassina, nel suono del suo clacson che è quasi un grido di rabbia. Per il resto la trama è piuttosto piatta e prevedibile, a parte un momento che si lascia ricordare perché fa davvero venire i brividi: ossia quando una vecchia indiana, testimone di un omicidio, dice che alla guida dell’auto non vi è nessuno. Il finale è assurdo non si può definirlo altrimenti, sembra di essere di fronte a un film epico in stile I Dieci Comandamenti, vedere per credere!
Dimenticavo, dove venderanno auto come quella del film?

di Davide Casale

PUNTO ZERO di Richard C. Sarafian (1971)

Vanishing Point è una delle prime e migliori opere di Richard Sarafian,un ottimo mestierante che si era fatto le ossa in tv con innumerevoli episodi di serie tv tra cui Bonanza,Batman e The Twilight Zone e si propone come una delle prime variazioni automobilistiche dal modello Easy Rider. In effetti il messaggio di libertà è lo stesso ed arriva molto prima di illustri successori come Convoy o Dirty Mary Crazy Larry(ok,una paragone un po' traballante). Nel personaggio del protagonista,Kowalsi,c'è pienamente la figura del cowboy solitario senza legge o del Ronin,il samurai senza padrone. Era un concetto topico in quegli anni e esplose repentino nella stragrande maggioranza delle pellicole dell'epoca. La storia è semplcie. Il protagonista Barry Newman(ma doveva essere Gene Hackman),Kowalski divora la strada dal Colorado alla California con la sua Dodge Challenger R/T del 1970 con un 440 cubic-inch V-8 montato sotto(insomma una tigre truccata),alla velocità di 85 miglia orarie(circa 170 kilometri di media)senza fermarsi mai,inarrestabile. Perchè? Perchè ci ha scommeso un pranzo con un amico. In realtà tramite diversi flashback scopriamo il passato di poliziotto troppo onesto per essere accettato e di stunt racer del protagonista,che evidentemente disincantato dalla realtà corre con la sua macchina contro tutto e tutti. Kowalski diventa simbolo di ultimo bastione della libertà nel momento in cui,senza alcun apparente motivo,sbaraglia tutte le forze dell'ordine,l'istituzione tanto avversata in quegli anni,facendogli mangiare la polvere con evoluzioni automobilistiche incredibili.Il nostro indian runner incontrerà tutta la popolazione newage possibile tra cui un biker e la sua centaura che cavalca la moto in abiti adamitici,una comunità di love & peace e un paio di rapinatori froci che fanno la parte dei cattivi perchè allora vigeva la mentalità che sesso libero sì ma prenderlo nel culo è ancora troppo. A voler esaltare l'epicità delle gesta di questo Ulysses on Wheels c'è il suo personale Omero,Super Soul,un dj radiofonico,non a caso cieco,che si schiera apertamente dalla parte di Kowalski e ne racconta l'avventura disperata sulle sue onde creando un caso mediatico. Ben presto moltissimi si uniscono alla causa di Kowalski,una causa puramente di libertà visto che alla fine non fa altro che correre ma è l'idea di ribellarsi alle imposizioni che lo rende un'eroe,talemente testardamente legato alla sua libertà da pretenderla fino alla morte. Nel film ci sono piccole apparizioni di John Amos(che le prende di brutto)e Charlotte Rampling in una scena tagliata ma visibile nella versione uncut.

di Gianluigi Perrone

DRIVER - L'IMPRENDIBILE di Walter Hill (1978)

Mettiamo subito una cosa in chiaro sul titolo italiano. Non si tratta di Driver(virgola)l'imprendibile ma di Driver(sottotitolo)l'imprendibile. Driver è la qualifica e non il nome del protagonista interpretato da Ryan O'Neal(ma la prima scelta era Steve McQueen). Il protagonista non ha un nome...nessuno ha un nome in Driver,solo dei ruoli definiti nella vicenda. Il protagonista che "è solo quello che guidava" nelle rapine in banca con dei complici traditori e balordi,il piedipiatti che gli sta alle costole e la partner in crime,the Player,Isabelle Adjani,oscura ed enigmatica come sa essere lei. Ruoli che confermano quello che si sa già e cioè che ogni film di Walter Hill è un western anche se vengono cavalcate auto fiammanti invece di cavalli,ed infatti il protagonista taciturno(350 parole in tutto,c'è chi le ha contate)non è altro che un outlaw con dei valori e delle abilità:non veloce con la pistola ma con il pedale. Molti erroneamente pensano a Bullit come influenza di Driver,forse perchè Ryan O'Neal fa un po' troppo Steve McQueen,ma è Le Samurai di Melville il vero referente di Hill,considerato che è lampante nella scena del riconoscimento dalla polizia che determina lo stesso rapporto tra Alain e Nathalie Delon, gli ambienti scarni e opachi e il protagonista evanescente. Hill ci mette una regia sempre presente e vigorosa che si mantiene tale sia nelle scene statiche che in quelle dinamiche,esplodendo in quelle degli inseguimenti che sono clamorose. Esiste una versione di oltre due ore che fu proiettata solo una volta. Beato chi c'era.

di Gianluigi Perrone

LE MANS di Lee H. Katzin (1971)

Le Mans è un film che qualsiasi appassionato di formula uno non dovrebbe perdere. Se c'è un film in cui si respira l'aria della 24 ore e della competizione vera è propria è sicuramente questo. Basti dire che si racchiude in pochissimi dialoghi e tiene per 25 minuti la tensione sull'inizio della gara. Erano i tempi in cui le macchine avevano una forma tale da sembrare ancora tali,erano i tempi di Mauro Bianchi,di Henry Pescarolo e Jacky Ickx(che è presente nel film in qualità di driver),erano i tempi in cui le polemiche imperversavano perchè c'era chi si era gravemente infortunato e chi aveva rischiato la pelle(e chi,come sappiamo l'avrebbe persa). Era quello che c'era intorno a questa estenuante competizione ed ai suoi protagonisti(in questo caso Steve McQueen)che vivevano la gara come la loro vita reale e tutto il resto delle loro esistenze era un contorno."quando uno corre vive...e tutto il resto è attesa" recita Steve e lo si vive nel gioco irreale delle corse,coreografate a regola d'arte da Katzin,niente altro che uno buon shooter televisivo. Nel cast anche Luc Merenda che ha l'onore di lavorare con il mitico Steve in un cast di varie nazionalità nonostante sia solo una produzione americana. Poco da dire se non che nell'intera durata del film ci si proietta nell'abitacolo del guidatore lasciando lo spazio delle parole al rombo dei motori.Nei titoli di coda riporta cars driven by tanto per sottolineare chi sono le vere protagoniste del film.

di Gianluigi Perrone

WRONG TURN 2: DEAD END Joe Lynch (2007)

E ci risiamo. Squadra che vince non si cambia. Però a leggere i dati al botteghino sembra che “Wrong turn” non abbia incassato chissà che cifra esorbitante, eppure i produttori sono tornati alla carica con un sequel stavolta solo per il dvd. Il regista Rob Schmidt (in altre faccende affaccendato) viene rimpiazzato dall’esordiente Joe Lynch e il cambio, diciamolo senza problemi, è dei peggiori.
Il nuovo acquisto sfoggia senza dubbio un linguaggio dilettantesco, non una sola scena pecca di virtuosismo o di un minimo di stile, tutto è lasciato alla dea bendata degli artisti fortunati. Eppure “Wrong turn 2” non è alla fine un brutto sequel grazie anche ad un cast azzeccato e da un ritmo movimentato. Certo è che la sceneggiatura è brutta tanto quanto la regia, vecchia di almeno dieci anni come idee. Diamine l’idea del reality show che sfocia nel massacro da quante pellicole è stato abusato? La telecamera che segue i giovani attori non sa di “Blair witch project”? Non solo, gli autori di “Wrong turn 2” si divertono a riproporre pari pari al capolavoro hooperiano “Texas Chainsaw massacre” la cena a base di carne umana con la protagonista legata, in un omaggio che diventa un plagio fastidioso. Eppure, come detto non ce la sentiamo di bocciare a priori il film, il budello abbondante e sanguinoso c’è ( tra l’altro l’accoltellamento di una ragazza da parte di una mutante gelosa è molto d’effetto), non ci si annoia mai e gli effetti sono rozzi, ma fanno il loro dovere. La storia è sempre la solita, variante più variante meno, ma Erica Leerhsen per esempio è uno di quei volti che spaccano lo schermo (e la sua scelta sicuramente è data dal fatto che è interprete di “Blair Witch project 2” ne siamo sicuri). Poi c’è quel fottuto pazzo di Henry Rollin che gioca a fare il Rambo di turno in un mare di sangue non indifferente. E allora chi se ne frega della confezione o dell’originalità, nessuno candiderà all’Oscar “Wrong turn 2”, eppure fa il suo lavoro di horror più di tanti altri prodotti ricchi e meglio studiati.

di Andrea Lanza

Saturday, September 22, 2007

I FATTI DELLA BANDA DELLA MAGLIANA di Daniele Costantini (2005)

Terzo lungometraggio per Daniele Costantini preso da una sua piece teatrale sperimentale,il film racconta letteralmente il fatti della Banda della Magliana come vennero esposti ai magistrati a suo tempo. Idealmente una confessione del doppiatore/attore Francesco Pannofino che nei panni di Luciano Amodio spiega ad un giudice (Leo Gullotta che si vede solo nel finale) eventi e retroscena accuratamente riportati. A lui una serie di attori e veri detenuti del carcere di Rebibbia,dove il film è girato,che raccontano le loro vite e le loro morti in un vernacolo romanesco anche troppo sboccato e sgrammaticato, quasi irreale. Il film,che è costato 500 mila euro, risente un po' troppo di questa sua dimensione teatrale e della sua forma di racconto senza mostrare mai quasi nulla,tanto che vediamo quasi sempre i personaggi che raccontano senza che le immagini spieghino da sé gli avvenimenti. In qualche modo questa sarebbe la negazione del cinema ed in effetti è una pecca che non si riesce a perdonare per via della lentezza del film. Peccato perchè l'idea nel complesso è ottima e a causa di questa mancanza di dinamismo non è completamente vincente.

di Gianluigi Perrone

JESUS CAMP di Rachel Grady e Heidi Ewing (2006)

Ottimo documentario girato a due mani da Rachel Grady e Heidi Ewing che si occupa degli abusi di indottrinamento della folta comunità Evangelista americana. I documentaristi seguono il Kids On Fire School of Ministry e il loro campeggi per ragazzi condotti da Becky Fischer,convinta sostenitrice di tali metodi educativi. Vediamo fare un totale lavaggio del cervello a giovanissimi completamente obnubilati da una distorta dottrina religiosa,con comportamenti al di là della follia. Purtroppo alcuni casi sembrano irrecuperabili ed è tristissimo vedere questi incontri con scene di isterismo,pianti immotivati e un lavoro di misera auto-convinzione talmente forzato da divenire criminale. Una delle cose più bizzarre di questi avvenimenti è il fenomeno della glossolalia,overo di frasi incomprensibili dette durante le preghiere strillate a gran voce che dovrebbero essere la lingua madre dello spirito santo. Puro fanatismo. Vederlo fare a dei bambini è quantomeno inquietante. C'è una incredibile tendenza guerrafondaia negli insegnamenti che spingono i ragazzi in una specie di guerra santa. C'è un curioso rimando a comportamenti tribali e selvaggi che sembrano voler far regredire questa forma di cristianesimo al tolitarismo delle religioni più oltransiste che vengono prese come modello. Oltretutto la comunità ha un grandissimo potere politico ed ha una particolare venerazione per il Governo Bush che è supportato fortemente e in maniera poco onesta visto che a questi ragazzi non viene data possibilità di scelta e soprattutto non hanno una istruzione normale nelle scuole ma casalinghe,con una distorzione della reltà inaccettabile. Il documentario ha il pregio di non imboccare lo spettatore,come avviene per esempio in quelli di Michael Moore,ma semplicemente osserva i fatti e ci si può fare una idea propria del fenomeno che,a meno che non essere malati di mente,può essere solamente una. Purtroppo tali comportamenti al limite del crimine sono accettati in nome della libertà di religione quindi non si può provare che odio per tali misfatti compiuti in nome di Dio.

di Gianluigi Perrone

Thursday, September 20, 2007

NON VIOLENTATE JENNIFER di Meir Zarchi (1978)

Uno dei rape & revenge per antonomasia se non IL rape & revenge visto che il film sta tutto lì. In effetti cinematograficamente I Spit on your grave non dà veramente nulla. La sua fama di film ipercensurato deriva dalla lunghissima ed estenuante scena di stupro che deve aver provato parecchio la povera Camille Keaton. La ragazza,Jennifer appunto,è una scrittrice e viene iperviolentata dal classico gruppo di balordi. Credendola morta la abbandonano come un pezzo di carne ma lei in realtà torna e li uccide ferocemente,ormai divenuta una macchina di vendetta. Sicuramente un film shockante che deve tutta la sua fama al tema ed alla maniera in cui viene proposto.Ottima l'idea di non mettere alcune commento sonoro. Il film negli intenti ha una indole femminista,infatti si doveva chiamare Day of the Woman ed ha raggiunto un grande successo anche perchè il critico Roger Ebert lo ha sempre definito il peggior film mai realizzato. Una curiosità riguardo al titolo originale, I Spit on your grave che pochi sanno. Il produttore,che volle togliere l'infruttuoso titolo scelto da Zarchi,copiò quest'ultimo da un film francese del '59 di Michel Gast,J'irai cracher sur vos tombes,innocuamente chiamato in Italia,Il Colore della Pelle.

di Gianluigi Perrone

UN VIOLENTO WEEK-END DI TERRORE di William Fruet (1976)

Inizia con una rocambolesca corsa tra automobili, Death Weekend di William Fruet,quindi molta azione che purtroppo poi viene sfiaccata. Tra l'onta che vediamo subire a dei balordi,irritati
dall'essere stati battuti da una donna al volante,Brenda Vaccaro,e la loro effettiva vendetta ce ne passa. Vediamo un dentista playboy portare una modella alla sua casa al lago per fare un po' di mambo degli orsi. La ragazza dimostra sin da subito ben più personalità di lui,anche di fronte al gruppo di aguzzini che ha le intenzioni che tutti si aspettano.Fruet mette lo spettatore in aspettativa, nell'attesa che avvenga il fatto che avviene sì ma in maniera moderata. Ci può essere un rape & revenge moderato? Insomma,la ragazza dimostra di avere le palle e dà del loro ai depravati. Il film è recitato bene ed ha degli ottimi dialoghi,anche la regia non lascia affatto a desiderare, eppure c'è un senso di vorrei ma non posso che alla fine stanca. Come leggere un po' ovunque,spiazzante il finale in cui la ragazza ripensa con affetto a uno degli stupratori. Mah,sarebbe da chiedere al rl regista cosa gli passava per la testa.

di Gianluigi Perrone

LA CASA SULLA COLLINA DI PAGLIA di James Kenelm Clarke (1976)

Non propriamente un rape & revenge questo House on the Straw Hill aka Expòse aka Trauma,nonostante ci sia sia il tema della vendetta che quello dello stupro ma non conseguenza l'una dell'altro. Il film di James Kenelm Clarke ha qualche spunto interessante che però viene utilizzato in maniera imbarazzante ed unicamente ad uso delle scene di sesso. La storia è quella dello scrittore Paul,Udo Kier, che si ritira in campagna dopo il successo enorme del primo film per scrivere il secondo libro che,come si sa, è sempre il più difficile nella carriera di un artista. Richiama una dattilografa per aiutarlo nella scrittura del film,di cui si innamora. La ragazza viene violentata da dei balordi ma la cosa è assolutamente ininfluente nella storia. A tal proposito il film voleva sfruttare il successo di Cane di Paglia di Peckinpah e Last House on the Left di Craven(tant'è che il titolo non è che un mix) e aggiungerci una storia plausibile che alla fine è la cosa più interessante. Soprattutto per la figura di Udo Kier che sembra quasi un precursore del Jack Torrence di Shining per le assurdità che scrive se non fosse che il suo personaggio non impazzisce ed ha anche una giustificazione per non avere talento. Il rapporto tra Paul e la dattilografa Linda(Linda Hayden)infatti non è affatto casuale. Quasi tutto il film comunque si prosciuta tra scene di masturbazione e sesso promiscuo tra i personaggi,compresa la fidanzata del protagonista,la porno attrice Fiona Richmond,che è messa lì per fare solo quello,una delle facce più volgari che abbia mai scrutato dallo schermo.La fama del film si deve al fatto che fu bandito per la scena di stupro che contiene nel Regno Unito. A vederla non si direbbe.

di Gianluigi Perrone

BLACK CHRISTMAS di Bob Clark (1974)

Black Christmas di Bob Clark è considerato (a torto o meno) il capostipite del genere slasher insieme ad Halloween ma 4 anni prima. Sicuramente il film di Bob Clark ha avuto una grandissima influenza del genere e a rivederlo ancora oggi è fresco ed efficace. Banalmente è la storia di un protagonista che semina vittime in una “sorority house” dopo averle perseguitate telefonicamente come il maniaco che è. Il film ha un sacco di elementi veramente audaci per il 1974,con queste giovani ragazze che si esprimono in maniera oscena e sono alquanto disinibite (soprattutto il bellissimo personaggio di Margot Kidder, la cui morte è uno dei momenti più belli del film). A questi divertiti momenti di pecoreccia volgarità si aggiunga un senso del macabro decisamente innovativo, magari oggi un po' vetusto ma ai tempi doveva essere agghiacciante. Bob Clark ha una maniera di girare fuori dal coro, modernissima con delle soggettive del killer che faranno scuola.

di Gianluigi Perrone

Tuesday, September 18, 2007

IL GUARDIANO DI NOTTE di Ole Bornedal (1994)

Affascinante film danese, lovecraftianamente necrofilo ma allo stesso tempo denso di ironia intelligente, Nightwatch ha una struttura ed un plot classicissimo ma equilibrato per dialoghi,situazioni e regia straordinariamente lineari. Martin è uno studente in giurisprudenza che inizia a saltare il lunario facendo il guardiano di notte all'obitorio. Molto viene giocato sulla naturale avversione che si avrebbe trovandosi in un ambiente del genere ma senza falsi e facili brividi ma ricercando l'atavica paura per i morti. In contemporanea c'è un serial killer che ama possedere sessualmente le sue vittime. Martin è al limite tra una vita equilibrata e gli eccessi del suo migliore amico Jens. La situazione diventa sempre più oscura mentre la strada del serial killer incrocia quella del giovane con inaspettati risvolti. Sulla carta il film potrebbe sembrare aevere delle forzature invece tutto fila e quello che non dovrebbe è comunque funzionale all'insieme. Essenziale e sufficiente. Dal film lo stesso Bornedal ha tratto il solito remake/fotocopia americano con attori famosi e finale più edulcorato.

di Gianluigi Perrone

THE RECKONING di Paul McGuigan (2003)

Nell’Inghilterra nel XIV secolo un giovane prete interpretato dal bravissimo Paul Bettany, attore che il regista Paul McGuigan utilizza nuovamente dopo la sua grande prova in GANGTER N°1, si ritrova in un momento terribile della propria esistenza. Ha ceduto alla tentazione ed è andato a letto con una donna del paese, oltretutto sposata, e scoperto durante il fatto dal marito della donna fugge da quel luogo e dal villaggio iniziando a vagare per i boschi come un fuggiasco. Incontrerà una compagnia errante di attori i quali vivono grazie a rappresentazioni messe in scena di paese in paese. Nicholas, il prete fuggiasco, chiede loro di entrare nella compagnia e dopo che il capo di questi, un ombroso uomo interpretato da Willem Dafoe, lo ha accolto nel gruppo, giungono in un paesino governato da uno strano signorotto, niente meno che un misterioso e disturbato Vincent Cassel.
Nel paese è appena successa una tragedia, un bambino è stato ucciso e la madre sordo muta è stata incolpata del crimine; aspetta la forca. Parlando con la donna il capo del gruppo capisce che qualcosa non va, che non può essere stata lei, così anche Nicholas se ne convince e sarà lui a tentare di scagionarla, identificando il salvare la donna da ingiusta condanna come la propria espiazione personale.
Vedremo le indagini svolte dal giovane prete e dai suoi compagni di teatro all’interno di un paese del tardo medioevo, con le maldicenze, le superstizioni e la paura che caratterizza quell’epoca. La paura che derivava dal potere dei signorotti che alleati al potere temporale della chiesa spadroneggiavano dettando legge su ogni anima che si muovesse attraverso i loro possedimenti.
La storia è intrigante svelando poco a poco dettagli che spingono verso la verità, cosa non proprio sorprendente visto che a metà film già la si intuisce, ma il pregio sta più che altro nella cura che il regista dedica alle ambientazioni, alle scenografia. Il buio medioevo, il villaggio pieno di segreti e vergogne, paure e malefici è rappresentato alla perfezione anche nei volti del cast che emanano inquietudine e malcontento attraverso lo sguardo e le movenze, quasi un peso che recano sul capo.
L’espiazione del prete avviene inconsciamente, si nasconde nel suo ardente desiderio di salvare la donna accusata ingiustamente e di scoprire quindi il vero assassino del bambino. Alla graduale scoperta dell’infanticida si vedrà emergere nel dettaglio anche il gravissimo peccato di cui Nicholas si è macchiato, vi sono quindi due storie parallele, sebbene quella del prete sia quasi tutta incentrata nelle sue intenzioni esageratamente impulsive e nelle rivelazioni del finale, le quali si intersecano per giungere ad un epilogo drammatico ma forse più realistico rispetto a certe libertà di indagine che si prende il protagonista rispetto all’epoca in cui siamo.
Un film che non vanta certo una particolare originalità, ma si lascia apprezzare per la buona fattura.

di Davide Casale

THE ACID HOUSE di Paul McGuigan (1998)

Due anni dopo la trasposizione cinematografica di TRAINSPOTTING e il successo derivatone, si tenta di battere il ferro ancora caldo con la trasposizione di 3 dei 21 racconti raccolti in ACID HOUSE, sempre dello scrittore scozzese Irvine Welsh. Il risultato al botteghino è stato molto scarso, ma si sa che incassi e qualità del film viaggiano su binari autonomi. Il film si divide in tre parti. La prima, tratta dal racconto “La causa del Granton Star” vede la storia di un ragazzo che è il prototipo della nullità, si arrende davanti al minimo sforzo e indirizza la sua vita verso la più pura apatia. Ci troviamo inseriti esattamente nella giornata in cui il giovane fa i conti con tutto e tutto gli si rivolta contro: viene cacciato da una patetica e sfigata squadra di calcio, la ragazza lo molla perché non si impegna nemmeno mentre la scopa e non la fa mai venire, i genitori lo cacciano di casa per poter fare i loro giochini sessuali in santa pace e come ciliegina sulla torta gli appare Dio! Un Dio chiaramente ubriacone e frequentatore di luridi pub che infastidito dal suo comportamento lo trasforma in una mosca, in un lurido e inutile insetto quale è. Vedremo quindi il nostro protagonista mangiare merda e svolazzare in giro per le case di chi l’ha appena mandato a quel paese.. “Il tenerone” è il titolo del racconto da cui è tratta la seconda parte, con protagonista Johnny (interpretato da Kevin McKidd, presente anche in TRAINSPOTTING,), il quale è il prototipo dell’uomo senza palle, completamente incapace di reagire di fronte alla benché minima minaccia. Si farà inguaiare da una zoccola ninfomane da quattro soldi la quale ha già un figlio di chissachì, lui la sposerà e andranno a vivere a assieme. Dopo poco la coppia entra in crisi e lei lo tratta come una cacca, andando spesso fuori a ubriacarsi e a venderla per strada a due soldi. Un bel giorno arriva un vicino di casa narcisista, ubriacone e sfotticazzi che inizia a sfruttare Johnny in tutti i modi, sfrutterà anche il culo di sua moglie, sodomizzandola alla grande praticamente davanti al marito che ovviamente soffre in silenzio in maniera patetica. Nel terzo e ultimo episodio, tratto dal racconto forse più bizzarro che da anche il titolo alla raccolta e al film “The acid house”, abbiamo Coco Bryce, Hooligan tutto d’un pazzo, drogato, sfacciato e che vive alla giornata fottendosene di tutto e tutti, anche dell’ oca della sua ragazza. E’ interpretato da una faccia già nota da TRAINSPOTTING in cui interpretava l’ indimenticabile Spud, si tratta di Ewen Bremner. Questo Coco Bryce lo vediamo al bar con la ragazza e nel cesso si mangia un acido, poi va fuori come un cavallo e delirando in un parchetto del quartiere viene colpito da uno strano fulmine, il quale trasferisce la sua coscienza all’interno di un bambino che sta nascendo, figlio di un borghesuccio politically correct, la summa di quello che il protagonista odia. Vedremo l’ultrà neonato che si eccita succhiando le tette della madre e che si fa le seghe mentre i “genitori” tentano di scopare. Contemporaneamente la fidanzata oca tratta il Coco col cervello da poppante come argilla da plasmare secondo la sua volontà! Ma Coco Bryce è uno con le palle…Questo film è l’esordio alla regia per McGuigan, il quale gira un film esteticamente curato nella sua crudezza, i personaggi di Welsh sono allo sbando, sporchi nell’animo, violenti, sessodipendenti, rappresentano la feccia del genere umano dal punto di vista della persone per bene, insomma un po’ come la redazione di Cangaceiro. Il regista mette in scena tutto ciò con uno stile che esalta queste caratteristiche, ma lo fa in maniera elegante, stilosa, i fermo immagine che spesso fa su personaggi che non centrano nulla con le storie, ma sono semplicemente persone che vivono in quelle realtà, ci mettono di fronte a quello con cui vuole ci identifichiamo nella visione. Segue alla perfezione il senso profondo di Irvine Welsh che vuole fare vedere una Scozia senza filtri, la vera e pulsante scozia della classe lavoratrice, la working class del luogo che riempie i quartieri periferici delle città. I controsensi e la brutalità in cui nasce e di cui si nutre la penna dello scrittore scozzese sono le basi della società, sono frutto dell’uomo nella sua versione più vicina all’istinto. E’ purezza lavata dalla birra e pisciata giù dagli scarichi dei pub. Ci si esalta in certi momenti! E i tre racconti hanno un energia che implode, rappresentando la costrizione dell’uomo in esistenze da cui vuole fuggire, la rabbia di chi ha poche valvole di sfogo, il finale dell’ultimo racconto ne è esplicativo, viene voglia di ubriacarsi e spaccare tutto spalla a spalla con Coco Bryce, attore che nessuno si immaginerebbe come ultrà spacca culi, ma proprio la sua faccia assurda rende il tutto più avvincente e inaspettato! I personaggi di Wesh sono schietti, la realizzazione di vita per molti di loro è un buco caldo in cui infilarsi di tanto in tanto, un buco umano, e un pub in cui ubriacarsi tra amici con cui divertirsi e di cui sospettare, si perché i l’essere umano in Welsh è infame. Il tossico tipo nelle storie di Welsh non è uno che ruba perché è schiavo della droga che l’ha rovinato, ma è semplicemente un tossico che si diverte a sbumballarsi il cervello e a cui non gli frega un cazzo di fare infamate. Puro e crudo. McGuigan rende tutto questo alla grande, il messaggio è chiaro e siamo di fronte a un film più realistico di TRAINSPOTTING, soprattutto per quanto riguarda l’estetica dei quartieri, dei dormitori in cui si svolgono i fatti, vi è una cura per i dettaglio estrema, cosa che il regista amplificherà nelle sue opere future e che in questo ACID HOUSE si fa notare come perfetto sfondo a dei personaggi scomodi, fastidiosi, brutti, ma made in Welsh e quindi affascinanti.

di Davide Casale

ALIEN 3 di David Fincher (1992)

Il termine claustrofobia caratterizza la serie degli Alien, certo è abbastanza ovvio considerando che ci si trova all’interno di navi spaziali e di basi sperdute in pianeti infestati da mostri ammazzatutto. Se da una parte il piccolo alieno, partorito dalla mente perversa e geniale dell’artista H.R.GIGER, si farà una bella corsetta all’aria aperta in ALIEN VS PREDATOR, in questo ALIEN III sembra ancora più sotterrato e nascosto negli anfratti di questo sporco mondo, anzi di questa sporca galassia. In questo film si raggiunge il livello massimo di claustrofobia e non solo per le strutture in cui si svolge l’azione. Ci troviamo in un pianeta sperduto adibito a prigione, con pochi contatti col mondo esterno e dei prigionieri piuttosto pericolosi, tenuti al giogo da una sorta di religione che il carcerato più sveglio ha deciso di instaurare. In parole povere il pianeta in questione è idealmente fermo al medioevo e se prima era solo l’inferno dei peccatori a far paura, con l’arrivo della nostra amica Ellen Ripley (Sigourney Weaver), direttamente dalla nave di ALIENS SCONTRO FINALE, la paura del peccato dei prigionieri aumenterà in vista delle sue natiche e un piccolo ospite è inoltre sbarcato di nascosto sul pianeta, uno di quegli esseri che danno il titolo al film e alla serie. Il regista David Fincher confeziona un capitolo diverso dagli altri, in un certo senso fuori dal coro, infatti rispetto alla serie si trova tra due fuochi: ALIENS SCONTRO FINALE che è la versione action- guerrafondaia per eccellenza, molto anni ’80 e videoludica nella struttura, e il quarto capitolo ALIEN LA CLONAZIONE in cui si gode da quanta azione e momenti cool ci vengono propinati senza pietà attraverso le gesta di un cast da mille una notte a Parigi (il cast è in parte francofono). Questo alien è un momento di riflessione, una pausa malata che esaspera l’angoscia dei personaggi. La bravura degli attori, tutti molto ben calati nelle parti, rende il tutto coinvolgente nonostante gli eventi non vantino certo imprevedibilità, ma non è questa l’attrattiva del film, è l’atmosfera cupa e opprimente che rabbuia l’animo ad essere evocata alla perfezione. La trama non riserva particolari sorprese, ma è tutto incanalato attraverso solide pareti d’acciaio come quelle della stessa fonderia dove si consuma buona parte del film. La Weaver è in stato di grazia, passa dall’essere una donna emotivamente distrutta all’inizio del film ad una incapace di provare nulla se non determinazione dettata dalla disperazione, è davvero eccitante vederla vestita da carcerata e mischiata ai prigionieri, come una tanica di benzina vicino a delle torce accese. La figura della protagonista inizierà da questo film un percorso verso la disumanizzazione, per raggiungerla quasi del tutto nel quarto capitolo.
Un film che è stato molto sottovalutato, ma d’altra parte il pubblico a cui è rivolta la serie è vastissimo e siamo all’interno dell’ambito blockbuster, appena si cerca di creare qualcosa di lievemente diverso dai soliti canoni, o di lievemente più arguto, il palco si incrina e rischia di cadere fragorosamente. Senz’altro un buon film da recuperare, e guardandolo nell’insieme degli altri capitoli è stato una sorta di cambio di registro necessario alla vitalità di tutta la serie. Primo capitolo a parte, questo ALIEN III è senz’altro il più intelligente tra i film sui mostri sputa acido by H.R.GIGER.

di Davide Casale

TAXIDERMIA di György Pálfi (2006)

Promozione per György Pálfi che, dopo essersi palesato con Hukkle, produce un film di budget sostanzioso come Taxidermia e diventa un punto di riferimento per la cinematografia Ungherese. Taxidermia è un film incredibile per coraggio e sfacciataggine stilistica. Il regista ha piacere a firmare la miserai e l'umiliazione, l'ingordigia e il vizio. Un cinema del basso ventre quello di Pàlfi, dove l'anima è postposta ai corpi cavernosi. Taxidermia racconta la storia generazionale della famiglia Balatony, dal nonno,generale schiavista che durante la Seconda Guerra Mondiale vive recluso in mezzo alla steppa con la famiglia e il servo Morosgoványi, infoiato sperimentatore delle più astruse forme di autoerotismo. Il figlio Kàlman diventerà un campione mondiale di "ingozzamento agonistico", una palla di lardo capace di ingurgitare qualsiasi cosa con incredibile maestria. Questa zona del film potrebbe essere normalmente riferita a qualsiasi disciplina sportiva e si sviluppa tuttavia in maniera classicamente umana. La particolarità è che ci troviamo di fronte a personaggi che vomitano sconsideratamente e ritornano a mangiare senza fermarsi, fieri della loro bravura. Infine,ai giorni nostri, il dramma di Lajoska, deludente figlio di Kàlman, che essendo magro e mingherlino non ha potuto seguire le orme del padre ed è diventato imbalsamatore, utilizzando tute le proprie forze per mandare avanti la vita del padre ormai diventato un enorme budino. Il ragazzo ha però velleità artistiche talmente strampalate da diventare autolesioniste. Quella di Pàlfi è la storia della modificazione dei corpi e del loro abuso totale anche a costo del proprio disfacimento. Il lato consumistico al di là della cortina di ferro. La storia generazionale dell'Ungheria e del mondo portata avanti da corpi svuotati dall'anima e divenuti involucri organici fini a sé stessi.

di Gianluigi Perrone

AND SOON THE DARKNESS di Robert Fuest (1970)

La caratteristica di questo thriller inglese del 1970 è la sua collocazione temporale all'interno di un periodo di grandi cambiamenti per il cinema horror. La storia è molto semplice, addirittura classica se non fosse che allora la formula non era stata sfruttata. Due ragazze anglofone vanno in vacanza in Francia,nella zona rurale. Una di loro scompare e l'altra,per scoprire che fine abbia fatto l'amica, si ritrova a rischiare la vita. Probabilmente il principale referente di Fuest è Hitchcock ma l'atmosfera del film è incredibilmente moderna. C'è una fulgida crudezza nel film e nonostante non vi siano elementi particolarmente cruenti, la messa in scena sembra anticipare la iper-violenza degli horror a venire come Last House on The Left o Texas Chiansaw Massacre. Uno slasher senza il bodycount,altrimenti sarebbe già conosciuto come un capostipite, ma che ne ha le caratteristiche intrinseche. Nella seconda parte il film si sposta molto più sul giallo e sulla soluzione finale ma l'aria malsana di delirio in zone sconosciute dove si è completamente abbandonati a sé stessi è una caratteristica ancora fresca oggi. Il film in Italia è conosciuto come Il Mostro della Strada di Campagna.
di Gianluigi Perrone

SPOORLOOS di George Sluizer (1988)

Vi è mai capitato di perdere qualcosa dentro casa, in una stanza magari,sapete che è lì ma non la trovate e siete coscienti che non può essere sparita. Dopo un po' il vostro cruccio è scoprire dove sia finita al di là della sua utilità,solo per svelare il segreto della scomparsa di quell'oggetto. Unico, vero successo del franco-fiammingo George Sluizer, tanto da girarne egli stesso il remake americano con più soldi ed attori di nome, quel Vanishing con Kiefer Sutherland e Jeff Bridges, Spoorloos entra nella storia come uno degli horror-thriller più atipici per via delle sue caratteristiche peculiari. La semplicità della vicenda è straniante per la possibilità di essere comune a chiunque se riflesso di una follia anche essa neanche troppo rara da trovare. Rex e la sua ragazza Saskia sono due olandesi in vacanza in Francia. Si fermano ad una stazione di servizio e,semplicemente, Saskia scompare nel nulla. Attraverso dei suggerimenti sappiamo che il suo rapitore è Raymond Lemorne, un buon padre di famiglia, un insegnate di scienze del Liceo, un uomo comune. Quello che ci rimane ignoto però è il perchè,il come e soprattutto che fine abbia fatto Saskia. Intanto Rex,passati 3 anni,è perseguitato dal ricordo della ragazza e ancora indice campagne per trovarla. Questa ossessione non gli permette di crearsi una nuova situazione sentimentale nè di pensare ad altro. Mosso da compassione o da follia, Raymond decide di rivelare tutto ma in maniera tutt'altro che semplice. Spoorloos è quella che si dice una ottima sceneggiatura e l'uovo di colombo. Un bilanciamento tra narrazione ed ironia che ci racconta di come l'ossessione inspiegabile verso qualcosa piò portare la gente a compiere azioni immotivate. E' questo il succo che permette al film di non avere forzature. A questo si aggiunga la scena più claustrofobica della storia del cinema, tanto terrificante da essere ripresa da Tarantino (ma non diciamo altro).

di Gianluigi Perrone

Monday, September 17, 2007

DJANGO di Sergio Corbucci (1966)

Nonostante si tenda ad indentificare, ed a ragione, Sergio Leone come padre putativo dello spaghetti western forse il film per antonomasia è Django, del virtuoso Sergio Corbucci, dove collimarono decine di elementi fortunati:la sceneggiatura di Rossetti,fantastica a dir poco,la scelta del protagonista azzeccata che lanciò Franco Nero nell'olimpo,finanche alle trovate dell'aiuto regista Ruggero Deodato che contribuì ha dare crudezza al film. Un western oscuro e spettacolare con colpi di scena e immagini spettacolari e già cult prima di venire messe in pellicola. Django prendeva il nome da Django Reinhard, di cui era appassionato Corbucci ma poi è diventato un nome simbolo e riutilizzato nel genere western all'italiana.

di Gianluigi Perrone

Tuesday, September 11, 2007

10000 DOLLARI PER UN MASSACRO (1967) di Romolo Guerrieri

Western romantico di Romolo Guerrieri ed ennesima storia sul personaggio di Django ma crepuscolare, basata sul pentimento del bounty killer che si è stancato della violenza che lo circonda. Django cerca l'uomo che gli ha ammazzato la donna ma quando scopre che il suo avversario viene pianto a sua volta dalla propria amata decide di appendere la colt al chiodo. Gli elementi melò fanno del film un prodotto unico nel suo genere. Solida la regia del sempre ottimo Romolo Guerrieri.

di Gianluigi Perrone

UNA RAGIONE PER VIVERE E UNA PER MORIRE (1973) di Tonino Valerii

Strano ibrido tra western e film di guerra, Tonino Valerii gira questo lavoro con mano leggera e semza troppa convinzione, con un cast di tutto rispetto grazie alla co-produzione con l'america ma senza riuscire a risolvere i problemi con gli attori, soprattutto con James Coburn. Grottesco ma divertente.

di Gianluigi Perrone