Wednesday, May 30, 2007

BLACK SNAKE MOAN di Craig Brewer (2006)

Blues. Come per dire triste. Triste come Laz,che ha ormai una certa età e Rose lo lascia di punto in bianco. Triste perchè è solo e follemente disperato come ogni uomo che è stato abbandonato dalla donna che ama e non riesce a farsene una ragione. Blues perchè è consapevole del suo peccato,di aver maltrattato quella donna e di averla portata via da sé,ed ora non cerca altro che la redenzione.
Cazzate a parte,Black Snake Moan era un film attesissimo per due motivi:il primo è che nel trailer Christina Ricci era incredibilmente HOT,il secondo è che Hustle & Flow,il film precedente di Craig Brewer(che entra uffialmente nella lista dei miei protetti right now!),era un cazzo di film con le palle! Con BSM è arrivato il momento di codificare lo stile di Craig,di capire di che parla veramente il suo cinema.Di perchè questo e perchè quello. Ed adesso è tutto più chiaro,anche H&F. Black Snake Moan è una preghiera,un canto di redenzione tra il sudore umido e puzzolente di una chiesetta legnosa nel Mississipi,lì dove Lazarus passa solo le sue giornate a zappare la terra e dannarsi l'anima. Lì vive Rae,selvaggia e fragile,che ha lasciato andare il suo Ronnie il guerra,il suo punto di riferimento,la sua colonna seppur trabalalnte,il suo equilibrio. Perchè Rae è ninfomane e lo è perchè è stata privata giovanissima della sua innocenza. Same old shit,se non fosse tutto così vivido. Rae si lascia scivolare nello scarico a peso morto e inevitabilmente finisce male,quasi morta. La raccoglie da terra Laz,come si raccoglie un pulcino caduto dall'albero e,nonostante le sue siano le cosce più bollenti che si vedono sullo schermo da molto,molto tempo(porno compresi),Laz vuole solo salvarle l'anima,a costo di incatenarla,per salvare la propria.
Black Snake Moan,il gemito del serpente nero(è il titolo di un pezzo di Blind Lemon Jefferson),non è riferito a Samuel Jackson,come si potrebbe pensare,ma a Christina Ricci,per il suo modo di contorcersi in quegli irresistibili spasmi sessuali. Mettiamo in chiaro che quella di Rae è l'interpretazione più intensa della carriera della Ricci,quella per cui verrà ricordata in futuro. La sua Rae è profonda e diafana,abbandonata alla sua disperazione ed alla solitudine come poteva essere la Tralala di Last Exit to Brooklyn(allora il broncio era quello di Jennifer Jason Leigh),e non domina di prepotenza la scena solo perchè la sua carne esplode sensuale in un paio di mutandine e poco altro,ma perchè Brewer ci mostra tutto il percorso in cui Rae si rende consapevole dell'abisso in cui è persa la sua esistenza e la Ricci lo esprime con il controllo di ogni muscolo della sua faccia. Il fatto è che BSM è anche uno delle migliori parti di Sam Jackson e va ad incastonarsi nella sua Top Five insieme all' Ordell di Jackie Brown,Elijah di Unbreakable e al Mr Garfield di 187. Perchè Laz è il tramite attraverso cui si esprime l'anima di questo film,che prima di tutto è un film sulla musica,quella nera,quella dei campi di cotone e sull'interpretazione di essa,come è chiaro dagli intermezzi,assolutamente disciolti dalla trama,di vecchie clip degli anni '30 con Son House,uno delle chitarre più ispirate del Sud,che spiega il senso di ciò che è "blues". E quindi è un film sul dolore e sulla sua riflessione,sul peccato e sulla redenzione da esso. Su un uomo(un essere umano)che cade e poi si rialza.

di Gianluigi Perrone

Tuesday, May 29, 2007

KNALLHART di Detley Buck (2006)

Berlino oggi. Da Zehlendorf a Neukoelln, cioè dal paradiso all'inferno. Inizia con questa premessa Knallhar (uscito anche con il titolo di Tough Enough, che è perfetto per il film); film tedesco del regista Detlev Buck, che prima di Knallhar si era solo dedicato esclusivamente alla commedia più becera. Va detto che questo film è la cosa più lontana che ci possa essere dalla serenità di un funny movie; sereno in questo film ci sono solo le primissime però malinconiche inquadrature di Zehlendorf, poi è tutta una discesa verso gli inferi.Il plot è semplice e veloce. Il giovane Michael e la madre Miriam vengono cacciati di casa dal ricco amante di lei e si ritrovano ben presto senza un becco di quattrino e con un solo posto dove andare, a “Neukoelln”, una specie di banlieue berlinese solo con molti più turchi. Mentre la madre cerca disperatamente di trovare un lavoro e si porta al letto il primo che è pronto ad offrirgli un'altra possibilità, l’indifeso Michael deve fare i conti con la piccola delinquenza che vige nelle strade di quartiere. Verrà rapinato, bastonato, torturato ed insultato, il tutto senza battere ciglio, come se il ragazzo sapesse che il destino ha un finale diverso per lui. Il destino gli propone una lunga e lenta discesa nell'attività criminale, che passa dal rapinare la casa del ex amante della madre fino a diventare un vero e proprio corriere per la mafia turca, il resto è solo sapere dove e fino a che punto si spingerà giovane.Duro come un calcio nelle gengive Knallhart è una delle sorprese gradite della stagione passata. La Berlino, grazie anche all'aiuto di una fotografia asettica ma concreta, è una discarica di carcasse umane vive. Una città dove non c'è spazio neanche per l'amore (bellissima la scena in cui Michael se ne convince) dove tutto vale meno della droga che porti nello zainetto e dove, se non ti fermi in tempo, verrà il giorno in cui esclamerai "o me o lui !".La faccia d’angelo del protagonista incarna perfettamente il tormento di una vita violentata, cominciata troppo tardi e senza preavviso. Forse non potrà piacere a tutti (troppo corto...il finale buttato così … tutto succede troppo velocemente... bla bla bla) ma Knallhart è un film che difficilmente non lascia segni. Bello e "abbastanza" duro (Tough enough).

di Daniele Pellegrini

Sunday, May 27, 2007

PERROS CALLEJEROS di José Antonio de la Loma (1977)

Perros Callejeros ritrae la vita ai sobborghi di Barcellona alla fine degli anni ‘70, in cui si ebbero un’escalation di violenza e atti criminosi senza precedenti. El Torete e la sua banda, poco più che bambini, rispecchiano alla perfezione il mal di vivere indotto dalla povertà e dallo sbando a cui sono destinati per nascita, con inoculato un senso dell’onore da mantenere attraverso furti e piccoli espedienti e regolamenti di conti. La voglia di rivalsa accomuna questi giovanissimi che spesso si trovano contro una società ostile e dura e degli adulti che non guardano in faccia a nessuno. Ricordiamo che il dittatore Francisco franco era morto da soli due anni prima della realizzazione di questo film, e finché il caudillo era in vita in Spagna si era in pieno regime fascista e un film del genere a così poca distanza dalla dittatura ha senz’altro destato grande sorpresa per temi spesso anche scabrosi. Il film a tratti ricorda i polizieschi all’Italiana per i numerosi inseguimenti in auto e fughe dopo i furti come per l’atteggiamento della polizia diviso in due schieramenti: uno unicamente punitivo e uno attento alla rieducazione e al recupero. Col vestire e la parlata di questi giovani e i loro atteggiamenti ci troviamo catapultati in un mondo in cui scassinare un alimentari per rubare dei prosciutti era considerato ancora una gran furto, dove i piccoli criminali erano ancora “genuini”. Josè Antonio De La Loma con questo film nel 1977 riscuote un grandissimo successo che darà vita ad un sequel con toni metafilmici che però nemmeno si avvicina alla freddezza e brutalità di questo primo episodio, l’attore che interpreta El Torete all’epoca diventò una sorta di sex simbol nazionale. Film non facilmente digeribile per crudezza e soprattutto per un finale davvero brutale e senza speranze che probabilmente all’epoca voleva spingere la società verso una sorta di esame di coscienza..Guardando un film del genere viene da pensare che film come MARY PER SEMPRE debbano molto a Josè Antonio De La Loma.

di Davide Casale

ZONA DI GUERRA di Tim Roth (1998)

Si, Tim Roth ormai lo conoscono tutti, il fattorino schizofrenico ed esaltato di FOUR ROOMS, uno dei rapinatori in LE IENE o la sua parte da ladruncolo mentalmente disturbato e sfigatissimo in PULP FICTION. La sua recitazione stilisticamente è multiforme, interpreta svariati personaggi e dimostra una plasticità facciale non indifferente. Anche il suo primo film e attualmente unico da regista, ZONA DI GUERRA, rispecchia questa varietà di gusti che lo caratterizzano, l’imprevedibilità in tutto quello che fa. Conosciuto in tutto il mondo per atteggiamenti solitamente anfetaminici, qui dimostra il contrario nel suo primo lavoro dietro la macchina da presa, rimanendo dietro le quinte senza mettere il naso nel cast. ZONA DI GUERRA, film dal titolo inizialmente fuorviante, ma che durante la visione assume una connotazione drammatica, estremamente drammatica. La guerra non centra nulla nel soggetto, tratto da un romanzo omonimo di Alexander Stuart, o meglio è una guerra psicologica che attacca lo stesso spettatore con tematiche crude ma estremamente reali. Il tutto è ambientato in Gran Bretagna, in una casa isolata di un paesino isolato di un territorio isolato, per farvi capire siamo in luoghi molto simili alla brughiera di UN LUPO MANNARO AMERICANO A LONDRA. La camera segue per tutta la durata del film le vicende di una famiglia trasferitasi in mezzo al nulla da Londra, con i problemi ovvi di adattamento sociale che ne derivano, un padre che ha un lavoro in bilico e un’ unità familiare invidiabile forse dettata dall’amore e la fiducia della moglie nei confronti del marito, ma è tutto poco convincente, quasi artificiale. Solo il figlio maschio a differenza della sorella che sembra fregarsene di tutto, ha uno sguardo critico nei confronti della famiglia anche se sembra il meno preparato nel proferire critica alcuna. Si respira umidità guardando questo film, il cielo è sempre plumbeo, la nebbia è in agguato e la famiglia in questione non riesce a riscaldare l’animo sebbene ci provi in tutti i modi, vi è qualcosa che non va, di marcio, più della stesso territorio lugubre sebbene affascinante. Roth riesce a esprimere al meglio questa instabilità quasi impalpabile, ma comune percettibile, giocando con i tipici problemi adolescenziali dei figli per quasi tutta la durata del film, scoprendo poco a poco attraverso gli occhi del figlio maschio, quello che verso la fine sarà chiaro e che si sospettava con incredulità già varcando la soglia del secondo tempo. Un film molto curato, elegante nonostante la crudezza e che non ha paura di dire le cose come stanno e mostrare cose che colgono di sorpresa tutti, nessuno escluso.

di Davide Casale

Sunday, May 20, 2007

UNCLE'S PARADISE di Imaoka Shinji (2006)

Questo film fa parte del cosiddetto genere nato alla fine degli anni ’60 in Giappone e denominato Pink Film o Pinku Eiga per dirlo alla maniera del Sol Levante. I requisiti per delineare tale un film sono fondamentalmente tre: la durata di circa 60 minuti, un budget massimo di ventimila dollari che se non bastassero il regista deve aggiunge di tasca propria e il sesso come tema fondamentale.Uncle’s Paradise è un film delirante che vede le gesta, sessuali, di uno zio che si congiunge sessualmente con tutto quello che gli capita, in particolare con una donna degli inferi che gli appare in sogno e con la fidanzata libertina del nipote, la quale si accoppia con qualsiasi cosa si muova. Ovviamente il film non ha nulla di tragico, anzi, il tutto è demenziale e fa spesso ridere. Se ne vedono di tutti i colori, ingredienti come sperma, fellatio varie ed eventuali, sangue e amplessi di vario genere costellano l’operetta e la rendono deliziosa sebbene lontana dal valutarne qualsivoglia pregio stilistico. Questi film richiedono tempi di lavorazione pari a quelli di un filma luci rosse, una settimana al massimo. Molti registi diventati poi famosi hanno esordito proprio con i Pinku, in cui si può inserire qualsiasi tematica attenendosi alle tre regole fondamentali sopraccitate, spesso sono stati infarciti di critica socio politica, ovviamente a sfondo satirico. Brevi film dedicati a un pubblico scanzonato di erotomani, una sorta di commediola sexy senza infamie e senza lodi, volta ad intrattenere e nulla più. Questo Uncle’s Paradise, pressoché introvabile, merita comune una visione per vedere un po’ di soft core in stile Japan e delle gag talmente stupide che fanno morire dal ridere.

di Davide Casale

THE RESTLESS di Cho Dong-ho (2006)

La Corea del Sud recentemente ha investito denaro in nuove tecnologie per la realizzazione di effetti di computer grafica e compagnia bella. Questo è il primo film in cui i Coreani si affidano totalmente a loro stessi per confezionare roboanti effetti speciali e scenari interamente costruiti col computer. L’opera è costata parecchi soldi e mette in campo un soggetto fantasy ambientato nel XIV secolo. Si narrano le gesta di uno spadaccino quasi impazzito per la perdita dell’amata, che si ritrova in una sorta di paradiso popolato da creature bizzarre. Il problema di questo film, se così lo si può definire, è la sua totale inutilità, non ha una storia che sia degna di essere seguita per la banalità quasi scioccante che la caratterizza. Si vede che per gli effetti speciali ci hanno messo anima e corpo, ma si sono chiaramente dimenticati di curare tutto il resto a partire dalla sceneggiatura, pessima, che di conseguenza rovina recitazione e dialoghi dando sfogo al ridicolo involontario. La mania esterofila di Hero o La Foresta dei Pugnali Volanti ha decisamente stancato.Il prossimo giocattolone che produrranno sicuramente riceverà più attenzioni negli ambiti in cui un film va maggiormente curato, anche perché al botteghino in patria è stato un flop e perdere soldi non piace a nessuno. Da evitare come le peste.

di Davide Casale

THE MATRIMONY di Hua-Tao Teng (2007)

Una grossa produzione questo film made in Cina, lo si vede fin dai titoli di apertura creati con costosi effetti di computer grafica. Costosa anche la vita del ricco protagonista che fin dall’inizio lo vediamo inserito in un ambiente caratterizzato dal benessere, economicamente sopra la norma, un ereditiere fidanzato con una donna che ama alla follia. Purtroppo per lui a pochi minuti dall’inizio del film vediamo la ragazza morire investita da un’automobile. Una morte stupida e ingiusta che sprofonda il protagonista in un baratro di tristezza infinita, tramutata in rabbia e disillusione che sfoga sulla giovane moglie di rimpiazzo imposta dalla ricca madre di lui. Forse il suo desiderio per l’amata morta, o l’amore fortissimo che li legava, fa tornare la bella moglie defunta sotto forma di spettro. Sarà proprio la timida nuova moglie a farne la conoscenza per i corridori della grande casa in cui vivono tutti assieme. Questo film è un horror melò e diciamolo subito, della parte horror, sebbene non sia così incisiva, ci si poteva volentieri fare a meno. La ragazza morta inizia ad apparire alla giovane moglie spaventandola a morte con i soliti movimenti bruschi di camera, apparizioni improvvise e rumori di fondo che esplodono all’improvviso, insomma il solito baraccone horror delle giostre di paese. L’aspetto peculiare e affascinante del film è il fattore melò, il regista cura moltissimo la fotografia, i costumi sono ben realizzati e la visione è un piacere per gli occhi, inoltre grazie a recitazioni all’altezza della situazione, il triangolo di amore-odio che si crea tra i tre protagonisti arriva quasi a commuovere trasmettendo alla perfezione i sentimenti contrastanti e mutevoli dei personaggi. In definitiva un film che divide e si divide lui stesso tra il fattore melò e quello horror. Non si grida certo al capolavoro, ma una cosa è sicura, tralasciando l’aspetto horror probabilmente imposto dalla produzione, il film avrebbe lasciato il segno.

di Davide Casale

SUKOB di Chito Rono (2006)

Nasce un certo interesse nel conoscere la trama di questo film Filippino, paese in cui le persone sono molto superstiziose e l’incipit di questo horror, chiamiamolo così, è proprio una maledizione nata da alcune nozze celebrate senza gli opportuni accorgimenti. Detto questo il matrimonio viene maledetto e tutti gli invitati iniziano a morire uno dopo l’altro. Poi, guarda caso, iniziano a tornare sotto forma di spettri. E’ bene mettere subito in chiaro che questo film è orribile da tutti i punti di vista, la sposa fantasma è ridicolissima, appare con la faccia dipinta di nero col carboncino e fa morire le persone con cui viene in contatto, insomma il solito discorso iper riciclato dei vari Ringù e cloni vari. Vi è anche una scena senza vergogna in cui la sposa-carbonicino attraversa un balcone scimmiottando male le gesta della cara Sadako, ma lo fa in maniera così forzata che il tutto risulta ridicolo. Si, si tratta proprio di trash involontario, vi sono delle sequenze incredibilmente di cattivo gusto, per citarvene una all’arrivo dei fantasmi non si incupisce il cielo, non soffia il vento, ma le galline dei giardini si agitano! Si, davvero! Le galline legate al guinzaglio a degli alberi(!) si agitano. Dopo aver riso per le galline agitate si perde ogni benché minima speranza quando in seguito vediamo un muflone agitarsi per lo stesso motivo. Il finale del film è di quanto più patetico possa essere concepito, soprattutto perché va a citare, con un senso della molestia scandaloso, niente meno che LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE di Alfred Hitchcock. Se vi piace il trash involontario non fatevelo scappare!

di Davide Casale

THE UNSEEABLE di Wisit Sasanatieng (2006)

Brutta fine quella di Wisit Sasanatieng che, dopo averci dato due capolavori come Le Lacrime della Tigre Nera e Citizen Dog, con grande successo anche all'estero,non poteva che essere intrappolato nel giogo dell'horror asiatico. Per cui gli viene commissionata una classica storia di fantasmi con una serie di twist finali a cascata. Se ci si poteva aspettare una particolare resa scenografica simile ai lavori precedenti,si rimani delusi dalla piattezza di Unseeable che è decisamente convenzionale e derivativo. Vi sono tutti i luoghi comuni del j-horror:storpi,vecchiette,capelli,bambini inquietanti e alcuni plagi evidenti quali quelli a Phone(già una schifezza di suo)e a The Others di cui è idealmente il remake,come ambientazioni,tematiche e atmosfere. La storia è di una provinciale che va a vivere in una casa signorile dove pare sia successo qualche brutto affare. In realtà ne sono successi diversi e le presenze maligne sono parecchie anche se non quelle che sembrano,naturalmente. Dei temi di Sasanatieng rimane il confronto tra classi sociali,che compare in tutti il suoi film,e poco alto. La messa in scena è ottima,intendiamoci,e il film è stato un successone in patria. Eppure non ci va giù che un regista come Sasanatieng si presti a tali marchette. Speriamo che questo serva per lanciarlo più in alto e più liberamente.

di Gianluigi Perrone

AGENT X44 di Joyce Bernal (2007)

Agent x44 di Joyce Bernal è la classica commedia filippina fatta con due soldi. Qui scopiazzano da Austin Powers,con tanto di agente segreto idiota e nanetto sosia. La comicità è più demente che demenziale,un tipo di divertimento prescolare fatto di capriole,sberleffi e doppisensi. La storia è semplicissima. L'onnipresente Vhong Navarro è l'agente segreto sfigatissimo King Aquila,che chissà come si trova in prima linea per sventare un tremendo piano criminale atto a rubare una spada che trasforma l'acqua in petrolio. Geniale eh? Poi nella storia si vedono solo una interminabile serie di gag da terzo mondo che lasciano allucinanti e solo raramente si resuscita dal torpore. Ottima una scena di mimo che dimostra almeno una voglia di superarsi in fase coreografica,al contrario della poca accuratezza della sceneggiatura. E' un film fatto per divertirsi,se si divertisse anche il pubblico sarebbe il massimo.
di Gianluigi Perrone

A DIRTY CARNIVAL di Yoo Ha (2006)

Il sud koreano Yoo Ha,ritorna in mezzo alla rissa con A Dirty Carnival,dopo le rappresaglie studentesche di Once Upon a Time in High School. Sono assolutamente rimarchevoli i combattimenti di strada che,in A Dirty Carnival,riprendono una dimensione reale e concreta,se escludiamo la letalità dei colpi inferti. E' interessante vedere come Yoo abbia scelto di introdurre una tale dose di violenza in un plot che ha solo la cornice del noir ma che in realtà è un percorso umano nitido e chiaro.
Byung-doo è un gangster da sempre,lo è perchè le circostanze lo hanno portato lì,ma si trova a fronteggiare i bivi che lo hanno portato a scegliere una vita sopra le righe in luogo di una esistenza comune, una chimera irraggiungibile. Due diversi nuclei familiari, quella "normale" nella sua banalità che persegue un matrimonio con l'unica ragazza amata sin dall'adolescenza, e quella della gang che è presente sempre e ci viene anche mostrata nei suoi lati positivi,nelle feste a base di karaoke in cui Byung-doo sembra essere felice(indimenticabile il ciccione con i suoi tatuaggi osceni). Il ragazzo diventa cosciente della sua esistenzaquando il suo migliore amico,che si era fatto raccontare le sue vicende di quotidiana criminalità, dirige un film con successo ispirato ai veri fatti vissuti da Byung-doo.Ben sceneggiato, A Dirty Carnival rimane nella mente per alcune bellissime scene di rissa urbana a base di mazze e coltellate, ma soprattutto per l'equilibrio delle parti. Seconda parte di una trilogia sulla violenza,ci fa ben sperare sul futuro di Yoo Ha.

di Gianluigi Perrone

EYE IN THE SKY di Yau Nai Hoi (2007)

Buon debutto per la Milkyway di Yau Nai Hoi, pupillo di Johnny To nonché sceneggiatore di A Hero Never Dies, The Mission, Expect the Unexpected, i più recenti Throw Down ed Election., tra gli altri. Il problema del film è purtroppo l'anonimato e la convenzionalità che lo fa perdere in troppi prodotti occidentali del genere,anche riconducibili ai prodotti televisivi.
Eye in the Sky è la solita storia del novellino,in questo caso Kate Tsui,Piggy,che entra nel selezionatissimo corpo di Sorveglianza di Hong Kong e viene messa alla prova dal capo Dog Head,un ottimo Simon Yam,che le dà nelle mani un caso scottante:deve seguire un gruppo di rapinatori di gioielli e arrestarne il capo. Con le tecniche di telespionaggio non dovrebbe essere difficile se non fosse che il villain della situazione,Sahn(Tony Leung Ka-fai),è un fine conoscitore delle tecniche della Sorveglianza.Eye in the Sky è forse un po' troppo artificioso e poco personale anche se produttivamente ottimo. La regia sembra quella di una puntata di The Shield,con continui zoom e macchina in costante movimento,purtroppo ingenuamente poco calibrato ed invasivo. Non si ha il cuore di puntare il dito su Yau che comunque è alla prima prova. Si spera in un futuro più personale ed incisivo.

di Gianluigi Perrone

MEMORIES OF MATSUKO di Nakashima Tetsuya (2006)

C'è una maniera di esporre il dolore,l'umiliazione,la miseria in maniera delicata,spumeggiante ,colorata?C'è,è l'ossimoro estetico su cui si basa Memories of Matsuko,bellissimo quarto film di Nakashima Tetsuya,che dopo il successo di Kamikaze Girls,fa il salto di qualità e gira la sua opera più ambiziosa. La Matsuko del titolo è la zia mai conosciuta di Shou,che scopre della sua esistenza dopo che il padre gli rivela questo congiunto scomparso. Sappiamo sin dall'inizio che Matsuko è stata trovata morta,uccisa non si sa come,ma Shou è deciso a scoprire il colpevole e da qui comincia a unire i tasselli che ci portano a conoscere la vita della donna. Quella di Matsuko è la tragica storia di una ragazza mai accettata,nemmeno da sé stessa,che non ha il diritto di soffrire nemmeno in pace perchè ha una sorella malata che le fa continuamente da controaltare,che le ricorda sempre che qualcuno sta peggio di lei e le dà il tacito senso di colpa di chi deve resistere. Matsuko vive una vita umiliata da uomini che la maltrattano,la sfruttano e abusano di lei;balordi a cui lei si lega per disperazione e che la portano lentamente una overdose di sopportazione del dolore,che le fa perdere la testa. Eppure lei voleva solo essere amata. Memories of Matsuko è la riflessione sulla vita e la morte di un reietto,di chi ha perso la sanità e dei motivi toccanti perchè questa gente arriva ad annullarsi. La storia di una sensibilità portata alle estreme conseguenze. Del disperato bisogno di attenzione. Un film tragico e commovente che incredibilmente Nakashima decide di girare nella maniera più convenzionale possibile. Come un musical colorato e pieno di gioia,una storia completamente nell'ombra raccontata con il canto,la gioia e i colori della felicità. Così come ci aveva provato Sasanatieng ma arrivando ancora più in alto,perchè i toni sono più duri,perchè è una storia che tocca sul serio l'anima. Memories of Matsuko è uno di quei casi che indubbiamente fanno parlare di capolavoro,senza temere l'abuso del termine.

di Gianluigi Perrone

CURIOSITY KILLS THE CAT di Zhang Yibaiz (2007)

Curiosity Kills The Cat di Zhang Yibaiz è un mainlander atipico per quanto riguarda la produzione. Il regista mostra una notevole accuratezza di regia,scrittura e scenografia. I simbolismi raffinati e frequenti sono il punto di forza di Curiosity,così come la struttura temporale inedita e il respiro corale.Un marito e la sua amante rompono il loro legame ma lei non ne vuole sapere. La moglie sembra essere ignara di tutto e subisce strani segnali sotto forma di scherzi stupidi. Una guardia scopre la verità ma si vende per pochi denari. Dietro una storia di tradimento e la conseguente vendetta da esso c'è l’enorme divario tra i pochi ricchi e i molti poveri della Cina Centrale del 21esimo secolo. Girato bene e denso di riferimenti aulici e finezze stilistiche, sarebbe una produzione standard in occidente, ma da quelle parti è quasi un miracolo. Ottime vibrazioni.

di Gianluigi Perrone

DORORO di Shiota Akihiko (2007)

Ci si aspettava di più da questo pomposo blockbuster made in Japan, presentato con delle immagini che lasciavano presagire per lo meno una fotografia suggestiva. La trama anch’essa dava molte speranze: un uomo fa un patto con un demone per ottenere potere, ma in cambio dona il suo primo genito, il quale nascerà senza 48 parti del corpo tra cui gli arti. Abbandonato il pargolo in un fiume verrà ripescato da un vecchio inventore-alchimista il quale ricostruirà artificialmente le parti mancanti del corpo del piccolo. Una volta adulto il ragazzo inizia, come spinto da un dovere innato, ad andare a caccia di tutti i 48 demoni che rappresentano le sue parti organiche mancanti. Ad ogni demone ucciso la parte corrispondente gli spunte letteralmente nel corpo. Con un soggetto del genere, tratto da un manga di Osamu Tezuka, è lecito aspettarsi grandi cose, ma invece il regista rovina tutto. Dororo risente in primis di un montaggio pessimo, in cui i tempi delle sequenze sono incredibilmente mal gestiti, lasciando lungo spazio a episodi inutili e brevi cenni ad importanti evoluzioni della trama. Un film fantasy solitamente mette in campo molti effetti speciali, infatti in Dororo ve ne sono parecchi, ma la cosa fastidiosa è che partono con una qualità altissima per degradare in effetti da due soldi e qui sorge spontanea la domanda! Erano forse finiti i soldi? E’ stato gestito male anche il budget? Questa disorganizzazione darebbe anche credito al discorso precedente riguardo il montaggio, sul fatto che le cose siano state fatte fondamentalmente a caso.Ogni mostro che l’eroe di turno uccide, accompagnato da una sciocca ragazza che si è invaghita di lui, da luogo alla stessa medesima morte e qui abbiamo una buona dose di trash involontario. I mostri appena vengono colpiti a morte fanno “badabooom!”. Esplodono in mille bolle di sangue fatte con un effetto in computer grafica orribile, in stile videogame sparatutto. Il film perde ogni minima speranza quando verso la fine abbiamo l’ultima esplosione, la quale rovina un momento che avrebbe dovuto essere come minimo d’atmosfera. Evidentemente il regista ha preferito far saltare tutto in aria piuttosto che tentare di risollevare le già incrinate sorti della prima parte del film.

di Davide Casale

DOG BITE DOG di Soi Cheung (2006)

Soi Cheang, regista di Hong Kong, ama stupire ritraendo sentimenti in contrasto, violenza psicologica e non ultimo violenza fisica. Caratteristiche che si fondono e vanno di concerto a una resa visiva volutamente grezza che esula dalla bellezza delle forme per colpire dritto allo stomaco di chi vede i suoi film. Dog Bite Dog segue la storia di un giovane poliziotto dalla vita difficile che si trova a braccare un immigrato Cambogiano mandato a Hong Kong per uccidere, personaggio cresciuto negli ambienti della lotta clandestina e abituato a uno stile di vita quasi disumano, un ragazzo che sa solo uccidere oltre che ad avere un ventaglio di emozioni e reazioni dettate unicamente dall’istinto.L’inseguimento costante è contornato da vicende che rendono il tutto estremamente drammatico, i personaggi del film si feriscono, muoiono, le carni si lacerano e il regista celebra il dolore, lo rende palpabile, ci ricorda costantemente che la vita è dolore come è dolore la nascita. La dualità espressa dal titolo stesso è rappresentata direttamente dai protagonisti come lo era nel film precedente HOME SWEET HOME, dove il tema è sempre il dolore, la smarrimento di ogni speranza e i protagonisti si muovono spinti da un comune istinto, quello di raggiungere un obbiettivo che rappresenta la vita a prezzo della sopraffazione. Nulla è calcolato nelle storie di Poi-Soi Cheang, ma tutto è una conseguenza, una reazione continua che passa attraverso una brutalità che lascia a bocca aperta e che riconduce l’uomo alla sua connotazione bestiale. L’Homo Homini Lupus di Hobbes è esplicativo di questo film, i personaggi di DOG BITE DOG cadono nello stato di natura e vi arrivano da due punti diversi, chi ci scende da una vita apparentemente normale e chi, come il Cambogiano del film, ci sale direttamente dall’inferno.
Non bisogna stupirsi se durante i primi dieci minuti del film accade di tutto perché continuerà ad accadere di tutto durante tutta la durata, le gabbie sono aperte e tutte le frustrazioni passate e future dei protagonisti diventeranno gli artigli per una lotta senza fine, un’ autodistruzione e una presa di coscienza che mette in gioco tutto e tutti. Il regista prende letteralmente a pugni la platea e ci riesce in pieno attraverso dolore, sacrificio e sangue, tutto trascinato da una volontà bestiale ma perfettamente riconducibile all’uomo

di Davide Casale

DEATH NOTE di Shusuke Kaneko (2006)

La prima caratteristica che salta all’occhio durante la visione di questo film è il poterlo inserire nel filone Giapponese dei “seishun eiga” (film per un pubblico giovane). Tratto da un famoso manga di Obata Takeshi vede le gesta di un ragazzo come tanti che trova per terra un quaderno che reca in copertina la scritta “death note”, il quaderno al suo interno è in bianco e poco dopo al giovane appare un demone dai tratti spaventosi che spiega lui il potere che quell’oggetto gli conferisce: scrivendo il nome di una persona avendone presente il volto, questa morirà nel giro di dieci secondi di arresto cardiaco. Scrivendo anche le modalità della morte, luogo e azioni che precedono questa, si potrà guidare la vittima predestinata a compiere determinate gesta secondo la propria volontà. Il ragazzo che trova il quaderno è figlio di un poliziotto e entrando in possesso di quest’arma micidiale decide di colmare il lavoro irrisolto della polizia, ossia giustiziare assassini impuniti o ancora ricercati. Il ragazzo è giovane e non ha il senso della misura, in pochi giorni l’opinione pubblica è turbata dalle improvvise morti di molti pregiudicati che muoiono per arresto cardiaco senza nessun motivo. Lo stesso poliziotto padre del ragazzo, viene incaricato di costituire una sorta di task force per contrastare questo assassino anonimo, si trova così ad avere a sua insaputa lo stesso figlio come obbiettivo delle sue indagini. A collaborare con la polizia entrerà in gioco un altro giovane ragazzo, coetaneo del proprietario del death note, e dotato di una fervida intelligenza. Presto si aprirà una sfida tra i due giovanissimi ragazzi, i quali affronteranno il duello come stessero sfidandosi in un gioco di strategia, mettendo in mostra sottili ragionamenti e organizzando continui tranelli uno nei confronti dell’altro. Il giovane protagonista col dono della morte non eviterà di ammazzare anche dei poliziotti per mantenere nascosta la sua identità barcamenandosi da eroe a carnefice a seconda dei punti di vista. Il film può interessare per come viene organizzata la sfida tra i due protagonisti, ma non è altro che un giocattolone per ragazzi che oltre a tener viva l’attenzione durante tutta la durata del film non è di certo un prodotto che esce dall’ambito dell’intrattenimento fine a se stesso.

di Davide Casale

DEATH NOTE - THE LAST NAME di Shusuke Kaneko (2006)

Girato lo stesso anno del precedente DEATH NOTE grazie al grande successo da questo riscosso in patria, questo secondo capitolo della durata di 140 minuti, si concentra sull’aspetto che ha reso interessante il primo capitolo, ossia la sfida tra i due giovani ragazzi, rispettivamente chi possiede il potere del death note e l’arguto ragazzo che cerca di fermarlo. Si parte direttamente dalla fine del primo film e per non rovinare la visione a chi deve ancora vederlo dirò solo che i due personaggi instaurano un legame sempre più stretto. Siamo di fronte a una sorta di partita a scacchi tra i due, ogni mossa ha delle conseguenze e delinea la contromossa dell’avversario, appare chiaro come la componente videoludica del film rimanga tale, se non addirittura prevalga rispetto al primo. La parte dell’eroe e del cattivo di turno si fondono nella stessa persona che continua a possedere lo strano quaderno e rimangono tali, forse è l’unico aspetto innovativo di tutta l’opera, ma alla fine stanca, soprattutto per la durata eccessiva che mette in chiaro come l’opera sia rivolta quasi esclusivamente agli appassionati del fumetto da cui è tratto. Certo, l’arguzia delle mosse dei due protagonisti rimane ad alti livelli, ma in definitiva non vi è nulla di nuovo rispetto ad altri numerosissimi film in cui si assiste alla sfida poliziotto assassino et similia.

di Davide Casale

Wednesday, May 16, 2007

SUBLIME di Tony Krantz (2007)

George Grieves vive il Sogno Americano. Si ricovera in clinica per una colonscopia di routine dove avviene uno scambio di persona. Finisce sotto i ferri al posto di Jorg Grieves per una banale operazione al sistema simpatico, qualcosa però va storto e ha inizio un calvario.
Come in un racconto di Buzzati, ha inizio una caduta nel vuoto, interminabile, senza possibilità di risalita. Passato e presente si mescolano in una narrazione continuamente frammentata per lasciar spazio al vortice dentro al quale, impotente, si trova George.
Assistiamo allo sgretolarsi di una vita perfetta per mezzo di esami clinici, test, operazioni superflue, amputazioni e recisioni varie. Tony Krantz abbandona il serial 24 per dedicarsi a questo discreto horror/drammatico, che tocca temi già trattati ma in modo piuttosto singolare e quasi mai banale.
Il film è prodotto dalla Raw Feed, costola della Warner Home Video, che ci ha già regalato quel Rest Stop di John Shiban (qui in veste di produttore esecutivo) da dimenticare. I limiti dei due film sono in sostanza comuni : regia anonima, stile assente e script non particolarmente originale nè incisivo.
Uscito a marzo direttamente in dvd negli Usa e prossimo anche in Inghilterra, sta riscuotendo un buon successo di vendite.

di Alberto Viavattene

Monday, May 14, 2007

I QUATTRO DELL'APOCALISSE di Lucio Fulci (1970)

Intensa esperienza con il western quella di Fulci,soprattutto in questa pellicola del '74 dove esprime il proprio modo di girare in un elemento differente da quello che lo avrebbe reso celebre. Eppure gli elementi ci sono tutti. La regia intensa e importante,colma di pathos,densa che sarà il suo marchio di fabbrica. I personaggi sembrano giganteschi nei film di Fulci e non ne è eccezione I 4 dell'Apocalissa. Fabio Testi è un baro professionista che arriva in una città dove si unisce ad una prostituta in stato interessante,un ubriacone perso e un sognatore di colore. Sfuggono ad una strage causata da feroci banditi e vagano nel deserto fino ad incontrare uno strano individuo,Chaco,che li accoglie amichevolmente,poi li droga col peyote e violenta la ragazza,uccidendo uno di loro. Il film di Fulci è profondamente proiettato nella
mentalità anni '70 delle comuni e degli ideali di pace. Gli elementi della compagnia sono molto hippie,nella loro banalità:l'uomo e la donna che finiranno per fare sesso,il simpatico ubriacone,il nero(tanto per dare esoticità al gruppo)e il loro vivere insieme come un tutt'uno è significativo,soprattutto quando liberi da inibizioni si spoglieranno dai vestiti. A loro viene contrapposto il personaggio di Tomas Milian,sadico e feroce,uno dei più neri della sua carriera che prendeva ispirazione,a detta dello stesso Milian,da Charles Manson,il lato oscuro
del movimento di libertà degli nni '70. Oltre alla inconfondibile regia,di Fulci si evidenzia la ferocia visiva,il dettaglio sul cruento(come il tizio che viene lentamente scuoiato)e il rosso vivido del sangue. Elementi che faranno da anticamera al suo futuro più noto.

di Gianluigi Perrone

VAMOS A MATAR COMPANEROS! di Sergio Corbucci (1970)

Vamos a Matar Companeros è uno dei tanti capolavori che Sergio Corbucci ha regalato al genere western. Grazie ad una regia a dir poco eccezionale questa pellicola mantiene sempre attuale la sua bellezza. Voler mettere a confronto due personalità come Milian e Franco Nero sullo stello livello deve aver generato fiamme sul set ma è sicuramente servito a stimolare gli attori a dare il meglio di loro.
Vince su tutta la linea Tomas Milian,senza ombra di dubbio,che nei panni dello scanzonato El Basco, ignorante,rozzo,selvaggio,dispettoso ma estremamente furbo e capace di riconoscere l'onore quando lo vede. Tuttavia anche Nero fa la sua parte,anche se spesso sopra le righe,fa un grande effetto nei panni de "lo Svedese". Sullo sfondo del caos della rivoluzione post-zapatista,i due si trovano loro malgrado a dover incrociare le proprie strade,anche se si vedrebbero volentieri morti,per poi unirsi ad un gruppo di studenti rivoluzionari a capo del professor Vitaliano Xantos(Fernando Rey)che professa la pace ad ogni costo.Temi molto in voga in quegli anni,sicuramente. Tuttavia la pace non servirà a molto perchè alla fine sarà l'azione a prevalere,soprattutto contro un cattivo di lusso,Jack Pallance,che ruba la scena a tutti,le poche volte che entra in campo. Pochi come Corbucci sapevano valorizzare i propri attori;tra le innumerevoli scene cult ci sono tutte quelle in cui vi è un confronto tra i due protagonisti,i due faccia a faccia,all'inizio ed alla fine e la scena di Nero impiccato in cui un impagabile Tomas Milian,trovandosi l'attore avversario legato come un salame,improvvisa e comincia a stuzzicarlo prendendolo in giro per gli occhi blu,da sempre vanto esagerato di Franco Nero. Come se non bastasse,colonna sonora requiem/carmina/western di Morricone e la mitica mitragliatrice!

di Gianluigi Perrone

Sunday, May 13, 2007

I'M A CYBORG BUT THAT'S OK di Park Chan Wook(2007)

Dopo il successo della trilogia della vendetta era naturale chiedersi dove sarebbe andato a parare il regista koreano più in voga del 21esimo secolo. A riprova che troppo spesso la sua poetica è stata spesso travisata,più voci hanno trovato fuori luogo la presunta leggerezza di I'm A Cyborg and that's Ok,mettendola in parallelo nella natura di genere dei tre precedenti film. In realtà,chi conosce a fondo il lavoro del regista sa che non gli appartiene nè il compiacimento della violenza,nè tantomeno interessa provocare verso sentimenti feroci. Il cinema di Park è pacifista. Ad oggi,sin da Joint Security Area,aveva dimostrato come il male(la violenza,la vendetta,la guerra)sia umano ma inutile,vacuo. In I'm a Cyborg sottolinea e rimarca il concetto della vanificazione della violenza in luogo dell'amore,molto più efficace del freddo e brusco mezzo razionale. La storia è quella della malattia mentale della giovane Young-goon,ricoverata in un centro di igiene mentale perchè convinta di essere un automa,un cyborg appunto. Park non è nuovo all' interesse verso il mondo della patologia mentale e dei sanatori ,non è dato sapere se è per diretta sperienza familiare,ma sappiamo che già in N.E.P.A.L.(segmento di If You Were Me)raccontava le vera storia delle traversie di una immigrata nepalese per gli istituti di Seul ed lo stesso regista ha più volte detto di amare particolarmente Shocking Corridors di Samuel Fuller. Non si fa neanche troppa fatica,in un carosello di patologie bizzare,ritrovare diverse citazioni,implicite come Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo o esplicite come da La Nona Configurazione. E proprio dal film di Blatty,Park prende i toni scanzonati,assimilabili alla commedia anche se,in fin dei conti,I'a Cyborg commedia non è. In un istituto di igiene mentale che sembra più un asilo delle meraviglie Park cerca di penetrare la patologia dal punto di vista del malato nella sua assurda convinzione. Non è certo raro che un malato di mente non mangi e invece della compassione si cerca di razionalizzare l'irrazionale. Young goon cerca il senso della sua esistenza e l'amore e la molla per trovare i compromessi sottesi per continuare a vivere. E' Il-sun che ruba le capacità agli altri matti,ad aprire letteralmente(nel suo immaginario)il cuore alla ragazza. Con leggerezza Park spiega che la violenza (l'elettroshock) è dannoso ed inutile e la delicatezza con cui Il-sun,inconsapevolmente,riesce a far mangiare Young goon con un compromesso è geniale e folle. In I'm a Cyborg,rispetto al passato dove i cattivi erano intercambiabili,confusi,relativi,non ci sono proprio. Stilisticamente è lui,scenograficamente e visivamente immenso, e la "violenza pudica"(ricordiamo che il cinema di Park è fortemente cattolico,non bigotto ma tradizionalista)dove c'è spazio "dell'idea" di una strage ma non dell'esposizione di essa mette indelebilmente la firma del Nostro. I temi di Park tornano tutti. Il pacifismo quasi ingenuo ed utopico,traslato da toni meno netti,meno incisivi,più terreni e diversamente puri. Fino ad ora i "sani" si confrontavano coi propri istinti negativi,fino ad ora il cinema di Park ha insistito sull'inutilità del male,adesso passa alla indispensabilità del bene con gli occhi sognanti di un eterno illuso:un pazzo,appunto.

di Gianluigi Perrone

Saturday, May 12, 2007

LA RESA DEI CONTI di Sergio Sollima (1967)

Sollima è stato uno dei più grandi a mettere mani sul western qui in Italia e,bontà sua,oggi l’età non gli permette di girare altri capolavori. Gli permettere però,a distanza di 40 anni,di poter ventare un’opera come La Resa dei Conti che ha dettato le basi di un genere. Jonathan Corbett(Lee Van Cliff,è un famoso e stimato gunfighter dai solidi principi ed un profondo senso della giustizia. Quando viene violentata ed uccisa una ragazzina di 12 anni,viene messo alle costole del presunto colpevole,Cuchillo(Tomas Milian),un ladruncolo messicano che entra ed esce continuamente di galera,abilissimo con il coltello e astuto come una faina. Più di una volta Corbett sarà sul punto di acciuffare il lestofante ma questi si dimostra spesso più furbo di lui e rivela un insospettato senso dell’onore che rivela al bounty killer la verità sul tremendo infanticidio. La regia di Collima è inconfondibile,di largo respiro e incisiva,il suo senso del ritmo è attanagliante. La Resa dei Conti è il primo film in cui Collima sfrutta il personaggio di Cuchillo,la classica simpatica canaglia dalla battuta pronta che Tomas Milian impersonerà decine di volte. La caratteristica di non usare armi da fuoco ma un semplice pugnale lo rende incredibilmente letale e più veloce di molti pistoleri,così come avviene nel fantastico duello finale in cui fredda l’avversario con un colpo di lama micidiale.

di Gianluigi Perrone

MANHATTAN WARRIORS di Peter Manoogian (1987)

Manhattan Warriors è un film sulle gang che nasce in linea con classici del genere come I Guerrieri Della Notte, Wanderers I Nuovi Guerrieri et simila. Il solito impiegato bianco, in questo caso un assicuratore, finisce in un quartiere di neri malfamatissimo per far firmare una polizza a una vecchietta e ritirare il premio in contanti. Un bianco in giacca e cravatta in un quartiere malfamato all’imbrunire già lascia presagire il peggio e infatti per sua sfortuna, arrivato in uno dei palazzi del complesso popolare ha un leggero alterco con un ragazzino membro della gang dei Vampires, guarda caso dominatrice incontrastata del palazzo. Il fanciullo, poco più di un bambino, informa della mancanza di rispetto gli altri membri della banda e questi reclamano vendetta. Profittando della notte che sta scendendo stringono d’assedio il povero assicuratore che sarà soccorso da un tecnico anch’egli casualmente all’interno del complesso, in realtà aveva un appuntamento a luci rosse con una ragazza.. La fuga dei due protagonisti è avvincente e piena di colpi di scena, contornata dai soliti cliché del genere e con ingredienti tipici del cinema anni ’80. Non può quindi che esserci un reduce del Vietnam paraplegico che vive barricato in una casa-bunker piena zeppa di armi, alcuni effetti speciali che ammiccano al gore, i fucili a pompa e le lupare onnipresenti negli action movie di quei tempi e la demonizzazione delle zone malfamate nelle città Americane. Degli anni ’80 fanno anche parte alcune caratteristiche al giorno d’oggi facenti parte del cosiddetto trash involontario, come il saluto che si scambiano i membri dei Vampires: le dita indice e medio messi a uncino per simulare i canini dei succhiasangue e il verso “fsssss fssss” ad accompagnare il gesto simulando il risucchio del sangue.L’aspetto positivo di questo film è che intrattiene dal primo all’ultimo minuto e sebbene alcuni “riti” della gang risultino ridicoli, i giovani criminali sono delineati abbastanza bene anche grazie alla figura del loro leader, un povero pazzo che confonde la realtà con la finzione arrivando a credere di essere davvero un vampiro. Il finale che accompagna l’alba dopo una notte di violenze ci libera dalla morsa claustrofobia che incute il complesso residenziale e dal braccaggio che subiscono i protagonisti durante la notte. Da guardare e poi avere paura di andare a trovare sconosciuti.

di Davide Casale

800 BALAS di Alex De la Iglesia (2002)

Apparentemente è un western, anche i bellissimi titoli di apertura rispecchiano alla perfezione il genere, ma per non rimanere delusi è bene sapere che non si tratta affatto di un film che rientra nella categoria. E’ ambientato nel deserto di Almeria in Spagna, tra le location dei più noti spaghetti western e i protagonisti sono vestiti da cow boy, ci sono i cavalli, i revolver ma…. Gli eroi, o meglio antieroi, di questo film sono un manipolo di comparse e stuntman che vivono nel passato, in un passato in cui il lavoro, il loro lavoro, non mancava e le occasioni di partecipare a film di successo erano all’ordine del giorno.Alex De La Iglesia confeziona un film estremamente nostalgico che trasuda passione per il genere. Il cast è al top, e le facce note nella filmografia del regista non mancano, a cominciare dalla bravissima Carmen Maura. 800 Balas è un film triste, crepuscolare e ben recitato, un omaggio al cinema che fu, che segnò grandi traguardi ma che ora, sebbene ogni tanto qualcuno ne recuperi i fasti, sembra andato perduto per sempre. Il gruppo di protagonisti si abbandona all’alcool e alla disperazione, a traffici illegali e a piccole truffe per tirare a campare, resta loro soltanto uno spettacolo da presentare ai pochi turisti che passano per la loro cittadina ricostruita ad imitazione di quelle del lontano west Americano, una sorta di finzione nella finzione se consideriamo che anche gli spaghetti western simulavano il territorio Americano. Un bambino, nipote del personaggio più ancorato al passato, farà loro visita scappando di casa e la storia prenderà una piega inaspettata.Quasi una piece teatrale, una tragedia agro dolce in pieno stile Alex De La Iglesia che come sempre tocca vari generi attraverso il suo personalissimo filtro che rende il tutto molto sopra le righe e a tratti grottesco. E’ meglio vivere nel proprio mondo, sebbene sia fittizio, ed essere felici oppure uscire allo scoperto e giocarsi il tutto per tutto?

di Davide Casale

ALIEN AUTOPSY di Johnny Campbell (2006)

E’ la storia dei due giovani Inglesi che hanno creato un filmato finto dell’autopsia del famoso alieno di Roswell, immagini che hanno tenuto in scacco l’opinione mondiale di esperti e non e che ancora dividono molte persone riguardo la veridicità o no della pellicola. I ragazzi continuano nell’affermare che sebbene il filmato sia falso, lo hanno fatto pari pari al quello originale di cui sono entrati in possesso, ma hanno guarda caso nascosto. La storia risulta già di per sé comica e inverosimile, infatti il film, sebbene inizi come un documentario, già dai primi minuti diventa una frizzante commedia a tinte demenziali, con personaggi al limite della demenza e una colonna sonora che delinea alla perfezione la stupidità della cantonata ideata e messa a segno quasi per caso dai due protagonisti. Arricchirsi vendendo aria è il sogno di molti, alcuni ce la fanno, ma nessuno era riuscito a diventare miliardario con un manichino e un po’ di frattaglie. Sbalzati nell’olimpo delle celebrità senza averne il benché minimo merito (cosa tutt’altro che rara) i ragazzi gestiscono la cosa e lo fanno al meglio, ma solo per una sorta di fortuna. Scelgono le carte giuste per le loro azioni, dato che è la casualità, come ci spiega il film, a governare il tutto. Esilarante il lavoro precedente alla truffa di uno dei due: vende statuine e memorabilia di Elvis Presley a Londra. Proprio durante un viaggio nella terra natale di Elvis The Pelvis i due entreranno in contatto con l’autentico, o presunto tale, filmato dell’autopsia.. Un commedia realtà che diverte e fa sorridere ma che non serve a nulla se non a farsi un paio di risate a denti stretti. Tecnicamente il film è ben realizzato e le caratterizzazioni sono azzeccate. Da guardare a tempo perso.

di Davide Casale

THE CASE

Dalla Cina un film che ha tutte le caratteristiche per essere grottesco e infatti proprio di cinema grottesco allo stato puro si tratta. Al centro della storia vi è una valigia ritrovata casualmente con all’interno dei pezzi di cadavere congelati. Viene raccolta da un signore con problemi di cuore che assieme alla premurosa moglie gestisce una sorta di Bed & Breakfast, quest’ultimo oltre ad essere teatro del bizzarro ritrovamento ospiterà una misteriosa quanto affascinante donna che sembra essere comparsa dal nulla. Ingredienti chiave per un intreccio dai tratti sfumati e interpretato da personaggi di una normalità che risulta comunque sopra le righe. Il fattore valigia unito al fattore cadavere e non ultime alcune situazioni riguardanti la stessa, ricordano non poco il film NERO di Giancarlo Soldi tratto dall’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi. La cosa fa pensare, dato che la distribuzione, praticamente nulla, rendono infime le probabilità che il regista, Wang Fen, sia entrato in contatto con libro o lungometraggio. Il film si gioca i personaggi con disinvoltura, inserendo delle brevi sequenze di intervallo che ci mostrano con piglio documentaristico insetti intenti a mangiare, oltre alle varie fasi di costruzione di una ragnatela da parte di un ragno. Simbolismo che esplica l’isolamento dell’uomo di casa trattenuto dalla moglie la quale lo soffoca di attenzioni con la scusa del suo cuore debole. L’uomo troverà uno sfogo mentale nella misteriosa valigia che lo spingerà ad osare anche nei confronti della nuova arrivata. Varie sensazioni contrastanti si provano durante la visione e l’aspetto migliore è l’atmosfera che si respira, un misto di drammaticità in salsa rosa con dei toni agrodolci e dei bruschi passaggi nei toni. Il tutto condito da una svogliatezza narrativa che comunque è sempre voluta e con un fine spiazzante rispetto ai fatti. Un’ opera elegante e sorprendente di quel genere che si ama o si odia.

di Davide Casale