Wednesday, July 18, 2007

SMOKIN' ACES di Joe Carnahan (2007)

Strano film questo Smoking’ aces. Inizia male, anzi malissimo, per diventare nell’ultima mezz’ora uno delle più interessanti pellicole d’azione degli ultimi anni. Merito a Joe Carnahan, autore di un del sottostimato “Narc”, e qui alla sua opera più vivace, dirompente e notevole. I difetti del film sono molteplici e tutti, come detto, inseriti nella prima ora di girato. All’inizio Smoking’ aces sembra un misto pane di tanto cinema, autori, culti moderni e passati. Tutto così tremendamente modaiolo e cool da generare imbarazzo se non confusione in una interminabile passerella di star che fanno il verso ad Altman e al suo cinema corale, calato qui in una dimensione di pulp tarantiniano. C’è davvero di tutto: dialoghi fiume come il buon vecchio Quentin insegna, umorismo e personaggi sopra le righe come nei film di Guy Ritchie, killer spietati contro killer spietati come in “Pistole sporche” di Albert Pyun, trasformismo alla James Bond, bad girl che fanno un baffo a “Nikita”. Il tutto shakerato così male da lasciare un senso di vertigine allo spettatore che si trova straniero in un mondo che non capisce e non lo appassiona. Poi magia della magia. Dopo qualche segnale di interesse rialzato (l’uscita di scena di Ben Affleck, la presentazione dei nazi killer) il film diventa adrenalina dirompente e comincia a far quadrare i nodi della vicenda in una catarsi drammatica e disillusa davvero inaspettata. Dopo una sparatoria in ascensore (“Get carter” con Sly?) in scena si scatena l’inferno con corpi maciullati dai proiettili, killer che si innamorano o per amore arrivano a sacrificarsi, ruoli che, senza bisogno di facili maschere, si scambiano. Chi è davvero il male o il bene? In questa orgia pulp deliziosa troviamo una sensuale Alicia Keys e un inaspettatamente bravo Ryan Reynolds. La parte del leone spetta però a Jeremy Piven, perfetto nel suo drammatico ruolo di vittima sacrificale, un personaggio dai toni altamente shakespeariani. Un applauso quindi a Joe Carnahan, che anche, e soprattutto. Stavolta ci regala un gioiello dalle molteplici sorprese. Sempre che avrete la pazienza di degustarlo come un buon vino d’annata.

di Andrea Lanza

CHALLENGE OF THE MASTERS (Wong Fei-hung yu Luk ah-choi/Huang Fei-hong yu Lu Ya-tsai) 1976

Con Challenge of the masters, secondo film come regista dopo il fortunato debutto di The spiritual boxer, Liu Chia-liang rende omaggio al personaggio “mitico” di Wong Fei-hung (1847-1924): eroe nazionale cinese, maestro di Kung fu, insegnante e guaritore. Sempre pronto a difendere i deboli e gli oppressi, esperto dello stile Hung Gar (proveniente da Shaolin del sud) insegnatogli dal maestro del padre, nonché creatore della la forma "tigre-gru" e delle combinazioni di combattimenti conosciute col nome "nove colpi speciali ". Purtroppo, a seguito della morte di uno dei suoi 10 figli si ritirò dal mondo delle arti marziali giurando di non insegnare più. La storia cinese è piena d’eroi che si battono in difesa dei più deboli: potrei citare le “10 tigri di Kwantung” combattenti che giurarono di vendicarsi dei Manchù e restaurare il dominio dei Ming (tra le 10 tigri vi era il padre di Wong Fei-hung). E’ normale quindi che un personaggio del genere potesse essere protagonista di decine e decine di pellicole, la maggior parte delle quali purtroppo andate perse. Liu Chia-liang -che in questo film si è ritagliato il ruolo di villain- ha imparato le arti marziali dal padre: allievo di Lin Shi-yung discepolo di Wong Fei-hung, quindi posso immaginare con quanto rispetto si sia avvicinato alla leggenda di quest’ultimo, cercando di non tradirne lo spirito e gli insegnamenti -per quanto sia possibile fare in un film-. Si parte alla grande, i titoli di testa scorrono mentre Gordon Liu e Chen Kuai-tai in uno studio bianco con ideogrammi sulle pareti, si esibiscono nel Kung Fu “Hung Gar”, comprendente le forme dei 5 animali: tigre, gru, serpente, drago e leopardo, e i 5 elementi, legno, acqua, terra, fuoco e metallo (penso sia uno degli stili più usati o quantomeno più famosi in questi film). Ad accompagnarli in questa danza marziale il tema musicale tipico di Wong Fei-hung, che già conosciamo a memoria grazie anche ai film Once upon a time in China di Tsui Hark, mentre una voce fuori campo menziona le peculiarità degli stili proposti dai due atleti. L’enfasi espressa sui volti dei due attori e lo sforzo fisico per eseguire al meglio le forme è notevole, così come il montaggio che grazie ad un uso d’inquadrature appropriate rende il tutto fluido e armonioso come l’acqua, ma allo stesso tempo impetuoso e potente come questo stile deve essere. Tutta la storia gira intorno ad un torneo cosiddetto “PAO” dove si sfidano tutte le scuole d’arti marziali: la vincitrice deterrà il “potere” e il prestigio di tale vittoria. Wong Fei-hung (Gordon Liu) è un giovane dal temperamento caldo, per questo motivo il padre non lo prende come allievo nella sua prestigiosa scuola. La vita non è facile per il figlio di Wong Kai-ying gran maestro d’arti marziali ed eroe popolare, un giorno dopo l’insistenza di un amico paterno, Wong Fei-hung inizierà l’apprendistato dal gran maestro, già istruttore di famiglia. L’ allenamento durerà 2 anni, nei quali il ragazzo crescerà sotto il profilo tecnico-fisico, ma soprattutto imparerà a conoscere se stesso e controllare i propri istinti. La conoscenza approfondita delle arti marziali porta ad una maggior consapevolezza delle proprie capacità e ad una comprensione maggiore degli altri, insegnamenti che trasformano il ragazzo in un uomo, tanto chè, al suo ritorno dopo aver scoperto dell’uccisione dell’amico paterno, decide di vendicarsi. Il duello è emozionante, si svolge in un bosco di canneti, lo stesso dove il killer (Liu Chia-liang) ha già ucciso l’amico del padre, lo scontro è furioso, nonostante lo stile dell’assassino Ho Fu sia letale, Wong Fei-hung riesce a sopraffarlo e a controllarsi prima del colpo letale, consegnandolo in fine alla giustizia. Questa è la netta differenza tra questo film e uno di Chang Cheh dove il sangue chiama sangue, dove la vendetta è 100 volte più atroce dell’atto dal qual è scaturito. Wong Fei-hung dà prova di aver imparato i precetti base dei suoi studi, e nel finale addirittura fa sì che il torneo del “Pao” finisca in parità, in modo così, da far riappacificare tutte le scuole. Un finale positivo e per una volta di speranza, in un futuro dove la convivenza è possibile, un futuro in cui la collaborazione tra i più forti porta alla stabilità (almeno così in teoria, come sappiamo la pratica è un’altra cosa). Liu Chia-liang è un regista vero, non un semplice coreografo di scene d’azione prestato alla regia, ha un suo concetto ben chiaro di rappresentazione, non solo per quanto riguarda i combattimenti, ma anche le così dette scene di raccordo tra una scazzottata e l’altra. Crea inquadrature visivamente affascinanti, quasi fossero dei quadri, dispone la telecamera in posti sempre differenti dando ricchezza a scene che altrimenti sarebbero sciatte, usa il montaggio in modo chiaro e lineare creando armonia in scene di lotta complesse, studia coreografie sempre diverse spiegando di che stile si tratta, facendone capire i pregi ed i difetti, insomma una gioia per chi ama questi film, ma anche per gli appassionati (come il sottoscritto) d’arti marziali. Liu Chia-liang è un vero maestro della filosofia del combattimento oltre che un ottimo regista d’indiscutibili capi saldi del genere, è un peccato che il suo nome non venga “quasi” mai menzionato al pari d’altri registi forse più discontinui, non dimentichiamoci che le coreografie dei migliori wuxia pian e gong Fu pian dell’epoca portano il suo indiscutibile marchio.

di Marco Figoni

Sunday, July 15, 2007

ATOLLADERO di Óscar Aibar (1996)

Atolladero è un paese di provincia, un buco dimenticato da Dio nel polveroso e torrido Texas. Siamo nel futuro, precisamente nel 2048 e gli Stati Uniti non sono più quelli di una volta. In seguito a scontri e problemi vari il paese ha deciso di isolarsi all’interno delle proprie grandi città, lasciando le province in mano ad una sorta di signorotti arricchiti che fanno il bello e il cattivo tempo. E’ un futuro che rappresenta l’involuzione e se pensate al medioevo ci avete azzeccato, nonostante il paesaggio sia post nucleare… Il film non è girato negli States, ma come tutto ciò che riguarda questo film anche le ambientazioni sono Spagnole sebbene ce le facciano passare per Texane, precisamente le location sono nella regione della Navarra e non come viene subito da pensare nel deserto di Almeria dove hanno ambientato decine di spaghetti western. In Navarra Alex De La Iglesia due anni prima ambientava il “planeta Aturias” del suo ACCION MUTANTE. Atolladero è il titolo di un fumetto di Miguel Ángel Martín e proprio ispirandosi a queste tavole il regista fa un film, riprendendo molte caratteristiche e tralasciandone altre come se fosse più che altro una sorta di story board. E’ abbastanza ovvio che le scene estreme partorite dalla penna del fumettista madrileño nel film non ci vengano presentate e che la linearità tipica delle opere di Martín qui perda mordente in funzione allo sviluppo di un minimo di canovaccio funzionale al film. Il fumettista disegna fatti brevi, lineari, ad effetto e contornati di un’atmosfera che rende il suo stile unico e inimitabile. Una trasposizione dei suoi fumetti sarà sempre un’opera a metà, per lo meno per quanto riguarda il lungometraggio. Quello che ingegnosamente fa Aibar è il dividere il film in capitoli per dare l’impressione di trovarsi all’interno del fumetto, ma a parte delle sequenze identiche alle tavole come carica emotiva siamo ad altri livelli, il regista ci spinge a vedere il villaggio di Atolladero, o meglio le sue quattro case, come se fossero l’inferno, un inferno di sabbia dove le speranze non hanno il permesso di abitare. Fin dai primi minuti di visione ATOLLADERO sembra un western e non solo per le location, in effetti man mano che ci si addentra nel film incontreremo sfide, saloon con mignotte annesse, whisky e tutti gli ingredienti basilari del genere polveroso per eccellenza. Personaggio fulcro del film, o per lo meno l’unico conosciuto a livello mondiale, è un crudele, cinico e completamente pazzo Iguana! Sto parlando del grande Iggy Pop, il quale oltre ad avere una delle parti principali confeziona la colonna sonora del film che è di conseguenza di grande fascino (non è questione di gusti). Il suo personaggio è Madden, la guardia del corpo, sicario e faccendiere del signorotto della cittadina di Atolladero, il vecchio giudice Wedley, che avendo più di un secolo è tenuto in vita da una serie di macchinari controllati continuamente da un medico alcolizzato e dal passato oscuro che gli fa da balia. Lo sceriffo del paese fin dall’inizio sembra il personaggio principale del film, uomo depresso e rassegnato ma efficiente nel lavoro, che non fa altro che eseguire gli ordini del giudice. Tutto sembra trascinarsi nella solita noia tra preti tossicomani, ninfomani pervertite e vecchi pazzi fino a quando l’aiutante dello sceriffo, il giovane e insofferente Lennie, non ottiene una convocazione a Los Angeles per un possibile trasferimento, praticamente la coronazione di un sogno per lui. Il ragazzo ha paura di rivelarlo allo sceriffo, ma soprattutto al più potente, al giudice. Lennie sa che non sarà facile, infatti appena comunica la sua volontà di lasciare quel buco desertico viene condannato a morte seduta stante ed inizia una caccia all’uomo spietata nei suoi confronti. Il ragazzo è l’unico che non si è rassegnato a vivere in quel posto dimenticato da Dio, tutti quelli che ci vivono sembrano aver perso ogni speranza, ogni impulso vitale, si trascinano in una quotidianità agghiacciante come se fosse una colpa da espiare. Non è solo la volontà del giudice a impedire loro di andarsene, ma l’assenza di altre possibilità o meglio una mente che rifiuta ogni altra possibilità. Si nasce o si arriva in un posto e ci si rimane. Per questo la caccia all’uomo nei confronti del giovane viene esaltata così tanto dai pochi abitanti. Atolladero è una sorta di maledizione, anzi, Atolladero è l’inferno, dove tutti stanno espiando una colpa, evidente o meno, ma dove qualcuno vi è finito per caso e vi sta male, il suo corpo la rifiuta. Un animo innocente non può vivere in un inferno. Prima opera del regista Óscar Aibar che diventa ben presto un piccolo cult movie, sicuramente costato poco non sfigura nemmeno negli effetti di computer grafica e il ritmo è sostenuto e incalzante come una corsa a cavallo con brevi pause scandite da una sorta di capitoli, più di nome che di fatto. Trama per nulla banale e la metafora di fondo sebbene sia sottile si lascia cogliere anche attraverso un finale liberatorio metaforicamente buio ed estremamente pessimista, ma nello stesso tempo libero, di una libertà on the road. Il futuro è incerto anche quando si scappa dall’inferno.


di Davide Casale

DRIVE IN 2000 (Dead End Drive In) di Brian Trenchard-Smith (1986)

Ne “La notte del Drive – In” quell’immenso scrittore americano che risponde al nome di Joe Lansdale immaginava una umanità costretta a vivere e sopravvivere all’interno dell’angusto spazio di un drive – in.
Stesso scenario ce lo offre Brian Trenchard-Smith in questo piccolo cult degli anni ’80.
Il punto di partenza,non è ,però, l’horror comico di Lansdale,ma il solito mondo post-atomico,sconquassato dal caos e dalla violenza.
In questo universo,popolato da punk,auto corazzate e luci al neon,si muove il protagonista, Crabs,un giovane mingherlino e sveglio.
L’incubo comincerà in una notte passata nello “Star Drive-in”,un posto colorato ed affollato alla fine dell’autostrada.
Qui, Crabs,in compagnia della sua ragazza,si ritroverà prigioniero,costretto da alti muri recintati e fili spinati e con l’alta tensione,insieme ad una larga giovane umanità che convive, obbligatoriamente,passando il tempo a guardare film e a ciondolare in giro.
Un lager controllato dalla polizia e da un uomo grassoccio e dimesso che bada che le bobine dei film vengano cambiate e che i ragazzi siano distratti da svariati “divertimenti”.
La sete di libertà di Crabs,però, lo porterà a cercare di scappare,prima ricostruendo la propria auto e poi,affrontando i propri carcerieri.
Il drive-in è metafora,per nulla celata, della società moderna,con, da una parte, lo Stato carceriere,rappresentato dai poliziotti e dall’altra parte una gioventù allo sbando, che accetta di buon grado di essere ghettizzata e reclusa in cambio della sicurezza di un pasto caldo e di un po’ di divertimento, offerto dalle droghe e dall’ alcool,elargito generosamente dalla polizia stessa.
La critica sociale è sempre presente quando viene rappresentata la tensione tra i diversi gruppi etnici all’interno del cinema-lager,con i prigionieri che pensano ad odiarsi tra loro per ragioni razziali,invece di ribellarsi contro chi li tiene in gabbia.
Per tutto il film si respira l’atmosfera degli anni ’80,tra assordanti canzoncine pop e un panorama desolato,quasi cyberpunk,ma, al tempo stesso, coloratissimo di luci e di graffiti.
Il cinema australiano ancora protagonista della fantascienza post-atomica,dopo il successo dei vari Mad Max.
In particolare il regista Trenchard-Smith ha nel proprio curriculum una filmografia tutta tesa a questo tipo di tematiche,sempre infarcite di umorismo e critica sociale,dal lungometraggio “Turkey shoot”, fino ad “atomic dog”.

di Andrea Scalise

Sunday, July 08, 2007

BREATH (Soon) di Kim Ki Duk South Korea 2007

Una donna, Yeon, scopre che il marito la tradisce (perdita della fiducia come perdita del respiro). Il desiderio di rivalsa si riversa tutto nella voglia di conoscere Jang Jin, un condannato a morte (l’attesa come apnea) che ha provato più volte a togliersi la vita, senza riuscirvi. Così l’incontro e la passione che nasce tra i due diventano pretesto di evasione: dall’incubo di una fine già decisa – e ritardata solo dai reiterati tentativi di suicidio – per l’uno; da una vita familiare spezzata dal tradimento e tenuta in vita solo dalla figlia, per l’altra.
La storia si svolge come una spirale per tornare al punto di partenza, e ancora una volta Kim Ki-Duk torna a parlare con i gesti e le azioni, misurate quanto impulsive, dei suoi personaggi. Ancora una volta i dialoghi si fanno vuoti e superflui, senza motivo di essere, e il regista torna sui fortunati registri di “Ferro 3” e de “L’isola”, lo sguardo riacquista il ruolo di protagonista e basta un campo e controcampo a far venire la pelle d’oca. Una spirale di sentimenti in cui ciclicamente si torna a respirare, ma è un respiro che torna dopo l’apnea di una vita che va a rotoli. È arduo il compito del regista, che si dimostra capace nel guidare per mano lo spettatore, coinvolgendolo nell’intrico di sentimenti persi, traviati, poi ricostruiti in una tempesta di colori, tra i due protagonisti e non solo, attraverso due diversi livelli di rappresentazione: il dentro e il fuori. La dimensione “interna” di una prigione, in cui i corpi stanno avvinghiati, per volontà (il rapporto omosessuale tra compagni di cella) o per necessità (il freddo dell’inverno che incombe), e che non offre possibilità di evasione, né materialmente né mentalmente; e la dimensione “esterna” in cui si muove Yeon, dove l’abbondanza di spazio si rivela inutile e quasi di ostacolo (come il lungo tratto di autostrada che la separa dalla prigione). Quando la donna comincia a tappezzare la sala visite del carcere con gigantografie di foto di paesaggi scattate in diverse stagioni (Primavera, Estate, Autunno e l’Inverno naturale che fa da cornice alla storia, in un’esplicita autoreferenzialità manierista), il confine tra le due dimensioni si sfalda e permette a entrambi di evadere dalle mura – ormai non più definite per via delle foto – della prigione verso un esterno fittizio all’interno di una storia di passione travolgente. Come le stagioni si succedono e si avvicendano con regolarità, così le fasi della storia d’amore si definiscono e si completano, per arrivare all’evasione ultima: un amplesso realizzabile solo in una prigione finzionale, in cui quando uno espira l’altra inspira e il respiro dei due diventa uno solo (ritrovamento del respiro). Tre fasi – perdita del respiro, apnea, ritrovamento del respiro – in una storia carica di simbolismi, che sono però appannaggio del solo spettatore, l’unico a cui è permesso dare un’interpretazione a ciò che vede. Spettatore con cui Kim gioca e di cui riveste anche i panni: da capo della sorveglianza, infatti, si trasforma ora in spettatore divertito e partecipe (ha la stessa curiosità dello spettatore del film e si lascia trasportare dalle performance canore della protagonista), ora in regista sotto gli occhi dello spettatore, selezionando le immagini del monitor di sorveglianza e inducendo a determinati comportamenti i protagonisti della vicenda. Un Kim Ki-Duk definitivamente ritrovato.

di Davide Beretta

DJANGO IL BASTARDO di Sergio Garrone (1969)

Immaginate il classico villaggio semi-abitato spazzato dal vento del deserto, avvoltoi che volano in un cielo plumbeo girando in circolo nell'attesa di un buon pasto.
In questo paesaggio funereo si fa strada un uomo di nero vestito, avvolto in un mantello più scuro di una notte senza stelle, il suo passo è deciso, niente lo turba.
Si ferma davanti ad un saloon, accende un mozzicone di sigaretta e subito il volto s’illumina del colore della vendetta, dà uno sguardo in giro, estrae dal mantello una croce in legno con un nome inciso sopra, si concede una boccata di fumo e la pianta a terra.
La sparatoria a seguire dimostra l’assoluta superiorità di Django nel dispensare morte, capacità che nel corso della vicenda diventa quasi arte “funerea”.
Inizio folgorante per questo western dalle tinte gotico-horror, interpretato da Anthony Steffen protagonista d’innumerevoli western; partendo dai Django apocrifi, ai vari Sartana e Sabata, Shango, Garringo, Apocalisse Joe e persino Arizona!
Girato con mano esperta da Sergio Garrone, abile mestierante del western e non solo, sono famosi (decidete voi se per meriti o demeriti) gli ormai classici eros-svastika: SS lager 5: L’inferno delle donne (1977) e Lager Ssadis Kastrat Kommandantur (1976).
Fortunatamente in questo caso -a differenza dei sopraccitati- Garrone svolge un lavoro più che ottimo riuscendo nel difficile intento di unire le atmosfere del cinema gotico con quelle Western, andando ad arricchire quel sottofilone crepuscolare nato con Django (1966) di Corbucci e portato alla perfezione sempre dallo stesso con Il grande silenzio (1968).
Le l'atmosfere plumbee, la messa in scena di simbologie funeree fanno di Django il bastardo un western sui generis, il lato “crepuscolare” cede ben presto il passo ad atmosfere addirittura horror.
Il protagonista si muove solo di notte, appare dalle ombre (tanto che tutti pensano sia un fantasma) e scompare tra di esse in un batter d'occhio. A conferma della sua presenza rimangono solo cadaveri con a fianco una croce!
La trama, che ovviamente è solo un pretesto per la carneficina, racconta di un tradimento durante la guerra di secessione da parte di tre ufficiali e il conseguente massacro. Django, unico “sopravvissuto”, riapparirà dalle ombre come un fantasma per vendicarsi.
Plot non dissimile da High Plains Drifter (1973) di Clint Eastwood, conosciuto da noi col nome di Lo straniero senza nome, anche se il tema della vendetta (con le sue varianti) è uno dei temi cardine del Western.
In conclusione: lasciatevi cullare dall'atmosfera e godetevi il rito mortuario!

di Marco Figoni.

Saturday, July 07, 2007

I Tenacious D,o The D per gli amici,sono la band di Jack Black e del suo mentore ed amico Kyle Gass. Jack non ha mai nascosto il suo amore per la musica rock e per tutto l'universo che vi orbita intorno tanto che spesso i suoi personaggi hanno una spiccata vena rock,primi il maestro di School of Rock e il commesso di Alta Fedeltà. Dopo essere apparsi in uan breve trasmissione televisiva ed aver calcato un bel po' di pachi negli States(i Tenacious D hanno due album all'attivo)arriva l'atteso e quasi scontato debutto cinematografico. Se guardando l'inizio musicale del film con un giovane J.B. con papà bigotto Meat Loaf e una serie di innesti animati ci si può solo aspettare grandi cose,purtroppo il film non regge il ritmo dell'ora e mezzo nonostante le trovate siano spesso divertenti ed azzeccato. Qualora il film sia scritto bene non lo è quindi girato perchè perde di mordente spesso e volentieri. La storia dei due aspiranti rocker scalcinati trasuda amore per la musica ed è quasi commovente nella sua demenzialità ma comincia a scemare quando inizia la fantomatica ricerca del famoso plettro ricavato dal dente del diavolo,che i nostri affronteranno(e che interpreta nientemeno che Dave Grohl). Kyle Grass è fine a sé stesso e non fa altro che spalleggiare Jack Black che invece è una risorsa inesauribile di follie e smorfie. Non a caso si sottolinea il suo rapporto con John Belushi citando più di una volta i Blues Brothers,la primissima fonte ispiratrice di Tenacious D. I BB però,nella loro demenzialità,si prendevano dannatamente sul serio,a differenza dei D che a volte sono un po' troppo parodistici. Alcuni camei non sempre riusciti(quello di Ben Stiller è ottimo mentre Tim Robbins forse farebbe meglio a ritirarsi)appaiono qua e là. Poteva essere molto meglio,poteva decisamente divenire un cult.

di Gianluigi Perrone

GAS di Luciano Melchionna (2006)

Interessante esordio di Luciano Melchionna, classe '67, che traspone un suo lavoro teatrale di successo per il grande schermo, modificandolo radicalmente. Si tratta di una storia di giovani (ma non giovanissimi)alle prese con l'impossibilità di esprimersi e l'incapacità di vivere la propria esistenza degnamente. Detta così sembrerebbe la solita minestrina ma Melchionna è furbo e intelligente e mette in scena il film in maniera tutt'altro che canonica,con una attenzione particolare per la messa in scena. Un voluto manipolo di "wannabe" Arancia Meccanica si scatena ai danni di uno qualsiasi in uno scantinato diroccato e fuori dal mondo. Un elemento che sembra ritrito ma non perde di attrattivas perchè Melchionna è stato attento ai dettagli e questo gli fa onore. Le scelte attoriali in primis sono notevoli,dal chi l'avrebbe mai detto figlio di Venditti,a Lorenzo Balducci e tutto il resto del cast che vede anche una piccola parte per Paolo Villaggio e Loretta Goggi,una scelta ispirata perchè nell'abuso di personaggi televisivi nel cinema Melchionna ne sceglie uno che proviene dal tempo in cui la tv era ancora fatta bene,il che non è da mettere in secondo piano. Fino al tutt'altro che aspettato twist finale,entriamo in contatto con le vite dei ragazzacci e del loro vuoto esistenziale,dei personaggi squallidi che popolano le loro esistenze,in maniera fredda,senza voler giustificare la loro idiozia. Ben utilizzato anche l'elemento queer,non fine a sé stesso come troppo spesso accade. Melchionna adesso è all'opera con L'Odore,tratto da Rocco Familiari. Speriamo rimanga una voce fuori dal coro stonato del cinema italiano come ha già dimostrato.

di Gianluigi Perrone

Friday, July 06, 2007

HOT FUZZ di Edgar Wright (2007)

Tre anni di attesa perché quel geniaccio di Edgar Wright partorisse il suo nuovo successo annunciato. Sì, perché questo giovane inglese ha talmente sbalordito con quella commedia horror a tema zombesco quale è Shaun of the Dead (in Italia è orrendamente L’Alba dei Morti Dementi) che non ci si poteva aspettare che un altro grande film, infatti il signor Wright, con Hot Fuzz, spacca letteralmente il culo!
I protagonisti sono ancora loro due, quello coi capelli rossi e quello grassottello coi capelli neri, quello che crea i casini. Il rosso è Simon Pegg e il moro è Nick Frost, il primo è un agente di polizia coi controcazzi, ma nella vita uno sfigato totale, personaggio che vive solo per il suo lavoro e lo fa maledettamente bene, al punto di suscitare invidie ed imbarazzo anche tra le alte gerarchie del corpo di polizia. Proprio per questo i capi della polizia di Londra decidono di trasferirlo in campagna, in un paesino che rappresenta la noia totale, un villaggio che vince da anni il premio del luogo perfetto. Non vi è crimine a Sandford ma non vi è nemmeno vita, solo noia. Infatti colui che va a completare la coppia perfetta, Danny ,il figlio del capo della polizia del villaggio agreste, si appiccica subito al nuovo arrivato mettendolo di continuo in imbarazzo tra sbornie, guai e un modo di fare sull’orlo della demenza.
Ci sono poliziotti e ci saranno delle morti misteriose, mica si tira indietro il regista, anzi, confeziona un intreccio classico nello stile, sebbene molto originale nei fatti e ci spinge dentro la delirante storia attraverso caratterizzazioni esilaranti e sopra le righe.
Si sprecano strizzate d’occhio a classici dell’action movie recenti o meno. Ogni momento del film è una citazione a successi di qualsiasi genere. Riconoscerete film come Point Break, Terminator II, Commando, Arma Letale II, Bad Boys, Cobra e molti altri, ma forse la citazione più geniale è proprio quella verso il finale a Last Action Hero, in cui si svela chiaramente e con un elegante inchino quello che il film è: la parodia della finzione che caratterizza gli action movies. Hot Fuzz è tutt’altro che una semplice parodia, ed è molto di più di un semplice film comico, non solo per gli inserti di splatter estremo ma per il montaggio perfetto, per le location che lasciano a bocca aperta, per l’atmosfera che riesce a creare il regista, che è unica, come unico è il trio dei due protagonisti e del regista. Un cult movie!

di Davide Casale

Thursday, July 05, 2007

BLACK SHEEP di Jonathan King (2006)

Beh,non si poteva iniziare a parlare di Black Sheep in maniera molto diversa. Finchè ci saranno cineasti di cinema "de paura" che esordiscono sul grande schermo con quella che comunemente viene definita horror comedy alla Peter Jackson,pensando a Braind Dead e Bad Taste,non si potrà mai dire prosciugato il fiume di sangue che grottescamente riempirà i proiettori. Sto pensando ad Undead dei fratelli Spiering,che forse,dopo 5 anni,stanno raccogliendo i frutti del loro lavoro,tanto esaltato all'inizio quanto denigrato in seguito. Chi scommette che succederà anche con Black Sheep?
Oppure il britannico Evil Aliens o lo spagnolo Mucha Sangre(più "DeLaIglesaino" che altro)che però risentivano di un budget troppo basso.
Jonathan King,neozelandese come Jackson,sembra premurarsi di ricordare quello che molti,almeno a quello che si legge in giro, dimenticano. Peter Jackson,a sua volta,non ha fatto altro che omaggiare il lavoro del vero vate della horror comedy e di quella regia frenetica e grandangolare,Sam Raimi,che , nella trilogia di Evil Dead, ha dettato i canoni del sottogenere. E King lo stracita continuamente(come continuerà a farlo l'ingombrante Jackson,di fatto Le Due Torri è una enorme citazione de L'Armata Delle Tenebre)e nessuno pare accorgersene. Vabbè(beeeeehhh),chi se ne frega. King non cerca il colpo di genio,prende l'idea stuzzicante e la evolve nella maniera più classica. Quindi il solito protagonista traumatizzato da piccolo(è ovinofobo,naturalmente) torna al paesello dove il fratello, per puro lucro, sfrutta la ditta di famiglia (un allevamento di pecore) per arricchirsi. L'idea è di mischiare dna umano con quello di pecora. Quindi, quando due ambientalisti fricchettoni rubano una pecorella sott'aceto diffondendo il dna a destra e a manca succede quello che ci sia aspetta. Pecore carnivore, pecore mannare, pecore zombie, pecore a pecorina... Va da sè che un plot del genere necessita di molta ironia e King non lesina nello scrivere battute sagaci e provocatorie,che non dispiacciono per nulla anzi sono l'humus vero su cui si coltiva il film, insieme ai classici effetti splatter della Weta Workshops che fa come al solito un ottimo lavoro, anche se qui si vede molto bene che si sono arrangiati come potevano. Poi King omaggia senza pietà a destra e a manca: L'Armata delle Tenebre, Romero, L'Ululato (mi pare il minimo), i succitati film di Jackson e probabilmente altri 600 classici che ad una prima visione non sono saltati subito all'occhio. Poi il finale svacca con scoregge a profusione e dà la sua soluzione alla inflazione di motoseghe negli horror, cercando uno dei tanti possibili sostituti. La fortuna di Black Sheep è che è quello che vuole essere. Intrattiene e diverte,scorre piacevolmente e non annoia. Questi sono i classici film cazzata che se ne parli bene hai esagerato e se ne parli male hai esagerato uguale.

di Gianluigi Perrone

Tuesday, July 03, 2007

DEAD SILENCE di James Wan (2007)

Ecco che tutti i nodi vengono al pettine. Devo una birra a tutti coloro che avevano detto,all'uscita di Saw,che Wan e Whannell erano dei culallegri. In Dead Silence tentano di replicare la furbata che aveva portato Saw a 4 seguiti(scommettiamo pure 5?)e non ci riescono. Eppure scrivono bene,i seguiti di Saw li hanno sceneggiati loro. Qui invece hanno un sacco di soldi,come preventivato,mezzi mostruosi e una storia idiota. Intendiamoci,non che Dead Silence faccia schifo. E' semplicemente insipido e sconclusionato . Storia di poco conto. Direttamente dagli anni 80 nel senso negativo del termine. Qui c'è il pupazzo di profondo rosso,quello che spunta nell'ufficio di Glauco Mauri e si fa sfasciare la testa. Una maniera come un'altra per dire che Dario Argento è fico(ricordiamoci che Wan è mezzo asiatico). Per chi non l'avesse capito ci mettono pure la musichetta gobliniana. E poi la storia di questo pupazzo che strappa le lingue,posseduto dall'anima di questa ventriloqua che,senza starci troppo a pensare,ha fatto la fine di Freddy Krueger. Ora che mi viene in mente,sta tipa potrebbe essere la ragazza di Freddy. Comunque,la storia è così,con il twist finale come in Saw che però capisci subito. Poi il contorno è strafigo. Girato sontuosamente,con una fotografia speciale e ricercatamente gotica,scenografie ottime e idee che prese singolarmente sono interessanti ma tutte mutuate da altra roba. Il citazionismo è infatti spintissimo. Quello che non va è l'insieme delle cose. Un patchwork sgangherato e sgraziato che si muove a scatti proprio come il pupazzo protagonista. Così non si va da nessuna parte...
di Gianluigi Perrone

Monday, July 02, 2007

SEVEN MUMMIES di Nick Quested (2006)

Un villaggio sperduto nel deserto ai confini del Messico custodisce il tesoro perduto dei Tumacacori. Tonnellate d'oro sepolte insieme ai sette gesuiti che ne difendevano la proprietà. Ora, dopo 500 anni, un gruppo di galeotti in fuga per la libertà sta per avventurarsi in quei territori, accecato dall'avidità e dalla sete di ricchezza.
La maledizione delle sette mummie si abbatterà su chi oserà profanare il riposo dei gesuiti. Orrore e morte (o qualcosa di simile) bagneranno di sangue l'oro delle Guachapa Mountains.
Ok, siete daccordo con me che la trama è interessante, io speravo in una sorta di galeotti avidi d'oro vs mummie in stile resuscitati ciechi, invece il film è un brutto incrocio tra Vampires 2 (nemmeno il primo) e Dal tramonto all'alba (sempre il sequel).
La recitazione è scarsa, i dialoghi ridicoli, la fotografia è quello che è (ma c'è un direttore della fotografia in questo film?) e gli effetti speciali sono ridotti al minimo sindacale.
Girato molto male con un montaggio che spesso ignora le regole basiche della messa in scena, confonde lo spettatore e smorza qualsiasi voglia di continuare la visione. Lo ammetto stavo quasi per mollare, ma c’era la voglia di arrivare fino in fondo e vedere queste tanto sbandierate mummie.
E quando appaiono cosa fanno?
Schizzano da una parte a l'altra volando come in Matrix, tirando mazzate alla Van Damme, estraendo dal cilindro delle fottute mosse di Kung Fu che nemmeno uno Steven Seagal strafatto di crack si sognerebbe di notte! (per i puristi: Steven Seagal è in realtà un maestro di Aikido).
Mi sarei voluto vedere allo specchio in quel momento!
Ora, il wirework lo usano anche in pubblicità e il kung fu è praticato da tutti, ma se ci sono un luogo e situazione meno appropriati è proprio questo il caso.
Ennesima delusione e questa volta è davvero un peccato, l'ambientazione
western sposata con l'horror potrebbe rivelarsi in mani sapienti qualcosa di
assolutamente affascinante.
Speriamo che un giorno qualcuno colga la sfida.
Solo per gli irriducibili amanti del trash!

di Marco Figoni

FRANKENFISH di Mark Dippè (2004)

Torna l’eco-vengeance e lo fa in modo divertente e molto splatter, sembra di esser tornati ai tempi in cui cani idrofobi scorrazzavano per le città, coccodrilli giganti cresciuti nelle fogne seminavano il panico, conigli giganti devastavano fattorie, squali bianchi infoiati molestavano i bagnanti e le orche avevano l’hobby dell’omicidio. Insomma, la rivolta della natura contro un uomo che si crede padrone!
Frankenfish è figlio di questo filone che negli anni ritorna puntuale con una manciata di film sempre interessanti. Questa volta i protagonisti sono i pesci: modificati geneticamente da ricchi cacciatori senza scrupoli, pronti a tutto, anche a sovvertire le regole della natura, (il monito è chiaro) pur di realizzare i propri sogni di caccia.
Il bello di questo genere è che riesce sempre a cavalcare le paure e le ansie del momento.
Luogo: Paludi della Louisiana, location affascinante e claustrofobica, dove la natura cresce selvaggia e l’uomo è un ospite che puzza come il pesce dopo pochi giorni.
Protagonisti in ordine di apparizione:Un medico legale di colore (l’eroe della situazione), una biologa asiatica (il pelo giallo tira ultimamente), una coppia di hippy strafatti, un reduce del Vietnam convinto ancora di essere in guerra (affronterà un pesce mutante armato di machete e fucile a pompa mangiandogli il cuore dopo averlo abbattuto), una vecchia esperta di Voodoo, la figlia (fighetta di colore uscita direttamente da un video rap) più un altro paio di tizi nel ruolo di mangime vivente.
Mostro:Pesce serpente - carnivoro, modificato geneticamente, in grado di respirare e uccidere fuori dall’acqua, la grandezza media è di cinque metri, ma il boss finale è almeno sette.
Questi gli ingredienti del film di Dippè già “regista” del film Spawn, che per non smentirsi ci regala un’altra regia piatta ai limiti di un Beautiful e una fotografia in stile Bim Bum Bam (i più vecchi se lo ricorderanno). La recitazione è nella media di questi prodotti, gli effetti speciali in digitale animatroni compresi, sono realizzati discretamente: Dippè nasce artisticamente come addetto agli effetti speciali.
La suspance è accettabile e la durata influisce in modo positivo: 81’ minuti, perfetta per questi film.
Piccola sorpresa questo Frankenfish, tanto splatter in C.G.I. e secchiate di sangue a manetta, certo il deja vu è dietro l’angolo e la cagneria del regista è preoccupante, ma ciò nonostante il divertimento non manca.

di Marco Figoni