Sunday, September 24, 2006

OFFSCREEN

Folle ed interessante esperimento dell'artista danese Chrisoffer Boe,già autore dell'interessante Allegro. Il film,partendo da premesse vere(i nomi e i fatti sono realmente accaduti,fino a un certo punto,nella vita degli attori)si sviluppa da un'idea semplicissima.Nicolas decide di girare un film-documentario su se stesso.Decide di riprendere tutto ciò che fa 24 ore su 24 per un anno e in seguito montare il tutto per un film. "La Videocamera non mente" recita Nicolas e da quello che mostra si evincono tutte le debolezze e paranoie del ragazzo che,ossessionato dalla camera,comincia a dare di matto.A questo si aggiunge che la moglie,Lene, lo lascia(un pò troppo facilmente a dire il vero)e Nicolas cade nella depressione più totale.Come accade in questi casi la persona si estranea,si dispera,perseguita gli amici che non ce la fanno più di sentirlo lamentarsi,si ubriaca e colleziona una serie di patetiche figuracce nel tentativo di riconquistare la sua donna che intanto si è trasferita a Berlino.Tutto ciò sotto l'occhio vigile e spietato di una digitale che diventa parte inprescindibile dell'esistenza di Nicolas.Anche nei momenti più estremi Nicolas dovrà avere la sua camera con sè.Qui siamo ancora nel plausibile,nel sensato,nel quotidiano ma la situazione precipita quando la follia fa capolino nella mente di Nicolas,quando,spinto dalla disperazione,cerca a Berlino Lene e scopre che questa ha abortito senza dirglielo.L'ossessione di Nicolas diventa follia.Orribilmente divelta la sua mente si trasforma in orrore e amplifica tutto ciò che era stato.La sua casa vuota si riempie di camere e schermi,rivestita di plastica senza mobili e con le pareti nude così come Nicolas,grasso,nudo e impazzito con i capelli biondo platino ammazza a coltellate una giovane donna e danza come un orrido freak nella notte ricoperto di sangue fino alle estreme conseguenze mentre la camera va ancora senza pietà.Fantastico.

di Gianluigi Perrone

EXILED

Torna Johnny To in forma come non mai con un All Star Game degno dei migliori colossal di Hollywood.Diciamo subito che Exiled si pone tra i migliori film in assoluto di colui che forse è rimasto l'unico regista di Hong Kong a non essersi piegato e a rimanere fedele al genere noir.Quello che vorrebbe essere un ideale seguito di The Mission diventa l'opera più sentita e
epica di To,girata con una spensieratezza e una consapevolezza uniche che traspaiono dall'integrità dell'opera. Anthony
Wong,Francis Ng,Nick,Cheung,Simon Yam,Ritchie Ren e l'onnipresente Suet Lam sono i protagonisti di questo western metropolitano infarcito di parallelismi ocn un pò tutte le opere del maestro. Durante il passaggio di Macao da colonia portoghese a cinese,nel 1998,Wo è in fuga con la compagna e un bambino appena nato,dopo aver tentato di uccidere il
proprio boss ma gli vengono messi alle costole per ucciderlo i suoi migliori amici,il gruppo di the Mission capeggiato dal grande Anthony Wong.L'amicizia prevarrà e i "gangster dal cuore buono" tradiranno per scappare insieme all'amico alla ricerca di un bottino che gli permetterà di sparire. Da questo momento i protagonisti,spaesati e incoscienti del proprio futuro,si affidano al destino e prenderanno le proprie decisioni solo in base alla fortuna(tirando la monetina).Ed è questo il tema principale di Fanghzu,la cavalcata incosciente e coraggiosa di un gruppo di moderni avventurieri verso il destino ineluttabile.To pensa bene di citare il western più duro e intenso,cioè quello di Leone e quello di Sam Peckinpah(Il Buono,Il Brutto e Il Cattivo,Il Mucchio Selvaggio,Per Un Pugno di Dollari,Pat Garrett & Billy the Kid sono sempre presenti)e soprattutto nell'atmosfera epica che si respira nella pellicola.Un omaggio anche al cinema italiano ripetuto in molte scelte come nel "look" di una strabiliante Josie Ho che ricorda Anna Magnani e una scena dal respiro più rilassato in cui il gruppo di eroi intona in coro "Vaffanculo" in italiano. Dal punto di vista tecnico poi,Exiled è un continuo orgasmo con le migliori scene di sparatoria mai viste come quella iniziale e quella che chiude il film.To ci ha abituato a grandi cose,ci ha viziato e continua a viziarci con opere di incredibile magniloquenza.We just can't get enough!

di Gianluigi Perrone

SUMMER LOVE

Il primo western polacco,l'esordio del giovane e simpatico Piotr Uklanski.Per cui dopo lo spaghetti western e il vodka western di Jonathan degli Orsi questo cosa sarebbe?Che mangiano in Polonia?Vabbè,in attesa di dare una risposa a questo interessante interrogativo cerchiamo di capire perchè,nonostante una marea di difetti e mancanze,su tutti primo il titolo,questo Summer Love riesce ad essere comunque saporito(e ancora si parla di cibo). Piotr,polacco ma molto attivo a New York,è una artista di istallazioni di quelli di rottura,che ama le opere scandalistiche e provocatorie. Non meno,in questo suo primo
film,cerca di utilizzare il genere come palcoscenico della metafora del male puro,selvaggio ed unico insito negli uomini e della privazione idiota dell'amore.Questo non è che sia esplicito ma diciamo pure di sì. In un villaggio microscopico di due baracche di cartapesta arriva un bounty killer vestito di nero,l'attore Karel Roden noto per aver fatto Hellboy,15 Minuti-follia omicida a New York ed altro,e si porta appresso un criminale che gli frutterà una bella taglia,interpretato(se così si può dire)da Val Kilmer la star riportata a caratteri cubitali in locandina che si sarà prestato per fare una favore all'amico Piotr(e in efetti tenendo conto che Kilmer si diletta come artista visivo è praticamente certo).I bifolchi animaleschi che abitano lì però sentono odore di grana e decidono di sbarazzarsi del bounty killer e di prendersi il gruzzoletto.Da qui la storia ricorda Chato di Michael Winner e la presenza dell'ex capitano confederato che annusa le tracce fa pensare che comunque è quello che volesse citare Uklanski.Il regista ruba un pò a destra e a sinistra per ricreareuna trama western che gli permetta di interpretare i suoi sperimentalismi visivi.Molto spesso,e forse unico nel genere,si riconoscono immagini e sequenze da videoarte concettuale e forti rimandi simbolici.Il tutto però stride col fatto che probabilmente Piotr(e questo è sia un bee che un male)non si prende troppo sul serio quindi il tutto è infarcito da una forte ironia di fondo che sembra voler ammortizzare alcune scelte visive esagerate come a gustificarle con l'ironia.Chissà se Piotr farà un'altro film.In attesa riflettiamo su come abbia trovato i soldi per fare questo.Quindi l'arte paga?

di Gianluigi Perrone

Monday, September 18, 2006

WORLD TRADE CENTER

Pensando a cosa ci si potesse aspettare da un film sulla tragedia dell'11 Settembre da parte di Oliver Stone,ci si aspettava sicuramente un pò di pepe.Il regista ci ha abituato ormai alle sue invettive verso i grandi eventi degli USA e della sua popolazione liberale,democratica,contro il sistema costituito e sinistrorza. E purtroppo,come spesso succede,Stone dimostra che finchè c'è da manifestare,fare girotondi,indignarsi e lamentarsi sa mettersi in prima linea ma alla fine i suoi ideali non sono poi tanto diversi da quelli dei suoi nemici politici. WTC narra l'esperienza tragice dei due poliziotti americani John McLoughlin(Nicholas Cage!)e Will Jimeno(Michael Pena)rimasti per ore ed ore incastrati tra le macerie delle torri aggrappati alla vita con disperazione.Il film celebra l'eroismo del popolo americano con un tale patetismo e vittimismo da risultare urticante.Possibile che un regista del calibro di Stone non si sia reso conto della pesantezza di un film che rimane un'ora e mezzo fisso al buio sulle facce di due attori che fanno i mezzi morti?E' possibile che Stone non si sia accorto che la evidente commiserazione patriottica delle vittime non fa altro che scatenare(come se ce ne fosse bisogno)gli istinti vendicativi del popolo americano?I due poliziotti vengono mostrati,come in un film di Michael Bay,come i tradizionali padri di famiglia,cittadini medi,magari multietnici in cui il cittadino americano si identifica.Non è che Nicholas Cage sta lì per caso.E il film sembra dire "guardate cosa ci hanno fatto" senza dirlo esplicitamente.Alla fine la volontà non politica di Stone è più politica di quanto si possa immaginare.Perchè a parole sono bravi tutti ma non c'è nessuno in America che abbia il minimo remore per aver scatenato la guerra.

di Gianluigi Perrone

WHEN THE LEVEES BROKE:A REQUIEM IN FOUR ACTS

"Che cosa faceva il governo quando qui noi eravamo senza cibo e sanitari come nel terzo mondo?Ah dimenticavo.Era impegnato a esportare democrazia."Queste le parole più significative dell'ottimo documentario che Spike Lee ha voluto girare come evidenza delle disastrose conseguenze che ha avuto l'uragano Katrina sulla città di New Orleans.
Ovviamente si potrebbe obbiettare che l'uragano non ha nulla a che fare con i repubblicani e con la politica visto che è una disastro naturale tra l'altro tipico di quelle zone degli states.E infatti Lee parla(anzi fa parlare)di quello che è successo dopo.Sarebbe meglio dire:di quello che non è successo. Come è noto la popolazione di New Orleans è in gran parte di colore e,effettivamente,molti dei quali non hanno potuto evacuare la città erano neri(ma non tutti come si vedrà dalle testimonianze).Nel momento in cui una città viene letteralmente spazzata via e allagata con milioni di persone in panico sena sostentamenti e servizi igienici,ci si aspetta che lo stato più potente del mondo si preoccupi di portare le proprie super-armate a salvare i superstiti.Ebbene questo avveniva dopo giorni di agonia in cui la popolazione povera di New Orleans agonizzana e nei casi più tragici moriva. Intanto la Presidenza i preoccupava di cacciare la democrazia a forza nel culo degli Iraqueni a fora di bombe e Condoleeza Rice(che ricordiamo,pare essere nera)andava ad acquistare delle costose scarpe in uno dei negozi più costosi di Washington. Come nei documentari(o meglio dire rotocalchi)di Michael Moore George Bush ci fa la figura dell'imbecille ma a differenza degli osannati lavori di Moore,Spike Lee non sceglie la strada ruffiana dello scherno,della mezza verità e della denuncia forzata ma cerca testimonianze.When The levees broke non è altro che una lunga raccolta di interviste agli abitanti di New Orleans che hanno subito l'abbandono da parte del governo.Di ogni razza e ceto sociale(c'è anche Sean Penn)rilevano lo scandalo di una situazione del genere.E lo scandalo è semplice.Il governo attuale non ha la simpatia degli elettori di colore o delle classi minori,il governo ha interessi prioritari che non sono altro che la guerra quindi,citando la gaffe di un rapper ripresa in tv:"a Bush non gliene frega nulla della popolazione nera".
Spike Lee dimostra inequivocabilmente di non aver bisogno di sparare a zero ovvietà e per far riflettere su quello che succede oggi nella società Americana.

di Gianluigi Perrone

HOLLYWOODLAND

Ma fino ad adesso tutto quello che toccava Ben Affleck diventava merda.Adesso si becca pure un premio a Venezia come miglior attore per l'interpretazione di un attore fallito.Se non è ironia questa! Che interpretare Superman portasse sfiga fosse tutt'altro che una leggenda lo dimostra non solo la tragica fine di Christopher Reeve ma anche quella se vogliamo peggiore del suo quasi omonimo George Reeves che ironia della sorte,interpretò con successo il Superman televisivo.L'attore,che aspirava a ben altro che saltare da una parte all'altra in calzamaglia,fece una brutta fine e ufficialmente si sparò alla testa.Tuttavia pare che l'uomo avesse una liaison con la moglie Edward Mannix(Bob Hoskins),vice-presidente della MGM e uomo tra i più potenti a Hollywood.Si sa allora(esattamente come oggi)se avevi i soldi potevi far sparire chi ti pareva senza troppe noie.
L'unica maniera per smuovere un pò la sabbia è fare rumore.Hollywoodland in sostanza parla di come l'esistenza delle singole persone a L.A. nei 40/50 fosse legata esclusivamente a quante copie vendevano i giornali e quanto clamore la tua storia riuscisse a fare. Come nel classico degli hard boiled,il detective(divorziato,duro,testardo...)Louis Simo(Adrien Brody)si mette contro tutto e tutti per scoprire(per denaro e poi per principio)gli intrighi dietro la misteriosa morte di Reeves.Parallelamente vediamo come si svolgeva la vita di Reeves dalle aspirazioni,al successo relativo,all'inevitabile decadenza.Il film non osa dare un'opinione univoca ma ne dà tre diverse,tutte plausibili.Affleck in effeti non è male,simpatico come il suo personaggio e ingrassato per l'occasione.Il motivo principale per vedere il film è però Diane Lane(Toni Mannix),sensuale e lirica,vera vittima di un sistema ingordo e possessivo.

di Gianluigi Perrone

INFAMOUS

Caso più unico che raro,nel giro di meno un anno il grande schermo vede comparire due film sulla figura di Truman Capote.Anzi,i due film parlano dello stesso argomento:il periodo in cui Capote decise di trasferirsi in Kansas per analizzare il massacro di una famiglia ntera per una rapina,conoscerne i colpevoli,innamorarsi della vicenda e scrivere In Cold Blood,uno dei libri più significativi di tutti i tempi.
Il confronto con il film che è valso l'oscar(meritatissimo)a Philip Seymour Hoffman è d'obbligo e pare proprio che questa produzione indipendente abbia battuto il gigante di Hollywood. Douglas McGrath dimostra tutto l'amore che prova per la figura di Truman Capote immergendosi a fondo nelle vicende che portarono alla nascita del libro e alla disgregazione dello scrittore dovuta al grande impegno morale profuso nella scrittura.
A entrare nei panni dell'autore newyorkese è l'attore inglese Toby Jones che regala un'interpretazione sicuramente differente ma non meno intensa di quella di Hoffman.Il Capote di Jones è forse più macchiettistico,vezzoso e punta molto sull'omosessualità dello scrittore facendolo spesso sembrare,nella prima parte del film,una macchietta impazzita.Eppure era questa l'immagine pubblica di Capote e il suo essere omosessuale dichiarato negli anni 50/60,i suoi vezzi narcisistici,la sua aristocratica eccentricità facevano parte dell'uomo pubblico,spesso bugiardo e manipolatore come ammetterà egli stesso più volte.Eppure McGrath ci mostra anche il Capote più intimo,quando il film abbandona definitivamente i toni di commedia per diventare una tragica discesa verso una tragica storia di parole mai dette.A differenza del Capote di Bennett Miller,McGrath ci tiene a farci capire di come possa crearsi un contatto(non certo facile)tra un dandy moderno che frequenta i salotti bene e un reietto della società,l'assassino Perry Smith,che appartiene ai gradini più bassi della scala sociale.E qui va dato un encomio speciale a Daniel Craig,duro e ruvido da ricordare Johnny Cash,che pur non avendo il fisique du role(il vero Smith era mingherlino),spazza letteralmente via Clifton Collins jr che interpretava lo stesso ruolo nel film precedente. Il fatto che
Craig diventi il vero protagonista della vicenda ci fa un pò rimpiangere la sua decisione di diventare il nuovo Bond che allontanerà le sue doti da ruoli ben più complessi e meritevoli di nota.La maniera in cui un sicuramente brutale assassino che,inspiegabilemente accomoda le sue vittime ed impedisce al suo compare di violentare la ragazzina,porta a rivelare un animo gentile e artistico castrato dalla brutalità del destino mostra a Capote come siano le due facce di una stessa medaglia.Come la vita,che comunque aveva portato via degli affetti allo scrittore,era stata più cinica ancora con la sua controparte.Capote e Smith diverranno un tutt'uno,prigioniero della legge l'uno e della personalità dell'uno l'altro in una metaforica forma della sindrome di Stoccolma,dove alla fine chi sopravvive non riuscirà più a riprendersi.
Infamous vuol essere la dottrina del motto per cui l'opera dell'artista lo priva sempre più di qualcosa fino a rinchiuderlo in se stesso.Come avvenne a Capote.

di Gianluigi Perrone

CAPOTE

Truman Capote era già una star,un personaggio ambiguo ed amatissimo dal jet set newyorkese,già giovane autore di opere che sarebbero divenute immortali quando,tra il '58 e il '66,si apprestava a scrivere l'opera che non solo l'avrebbe consegnato alla storia della letteratura mondiale ma che avrebbe anche cambiato il modo di scrivere.E sicuramente non sapeva che "In Cold Blood",il suo successo sempiterno,sarebbe anche stato il romanzo che gli avrebbe rapito l'anima e lo avrebbe privato della propria dote.
A Sangue Freddo nasce come la cronaca di un evento di sangue avvenuto in Kansas.Un'intera famiglia massacrata da due balordi per pochi dollari.A Capote non interessava raccontare il fatterello in sè ma voleva catturare,nella sua infinita sensibilità,ciò che per quella comunità aveva significato un atto talmente feroce e primordiale. Quando Capote avrà modo di conoscere dal braccio della morte uno dei colpevoli,Perry Smith,scoprendone l'animo nobile nascosto dietro il brutale omicida,capirà che la faccenda richiede un maggiore respiro.Truman Capote donerà tutto se stesso per consegnare alla pagina l'intensità di quei giorni con Smith.
La vicenda di Capote è talmente affascinante che non necessita di particolari orpelli per essere raccontata. Eppure lo scrittore meriterà(ed avrà come vedremo)ben più che il biopic freddo che ha realizzato Bennett Miller.Il film si poggia esclusivamente sull'interpretazione di Philip Seymour Hoffman che è effettivamente nato per incarnare Truman Capote e che attraversa lo schermo in punta di piedi ma incredibilmente intensamente come ci ha sempre dimostrato fino ad adesso.Però "Capote" non sembra altro che il bel compitino perfettino che piace all'Academy e che non scava nell'anima dell'artista e da per scontati i perchè e per come.Alla fine abbiamo una serie di eventi passivi e spesso insensati perchè non permeati dall'essensa vispa,vibrante e vivida che era il senso di Truman Capote.

di Gianluigi Perrone

BLACK DAHLIA

Quando ormai 20 anni fa James Ellroy diede alle stampe la sua personale interpretazione su quello che fu uno dei delitti più chiacchierati degli anni '50,la raccapricciante morte della 22enne Elizabeth Short,era già destino che la carta stampata divenisse materiale per Hollywood. Diversi nomi si era avvicendati alla regia,tra cui quello di David Fincher che alla fine si occuperà di un'altro caso insoluto americano,The Zodiac Killer,fino all'interessamento di Brian DePalma,concretizzatosi nell'enigmistico noir che trattiamo. Elizabeth Short era una giovanissima aspirante starlette di Hollywood che aveva una vita segreta fatta di sesso promiscuo e frequentazioni ambigue. Chi l'abbia torturata per giorni fino a sezionare in due pezzi il corpo,svuotarla delle viscere e sfigurarla in maniera agghiacciante non è ancora dato sapere e forse rimarrà un mistero per sempre. Fatto sta che una tale atrocità aprì,come spesso avveniva,uno squarcio nell'opinione pubblica che divenne morbosamente attirata dall'evento. La polizia di Los Angeles,fortemente interessata a guadagnare privilegi dal sensazionalismo dilagante,metterà i suoi migliori segugi sulle tracce dell'assassino.E poi nulla più.Ellroy,forse il miglior tessitore di noir vivente,dà la sua personale interpretazione dei fatti scavando nelle sordide vite dei poliziotti e degli indagati sui quali la tragica figura della Shorts aleggia eterea.
Chi ha letto il romanzo troverà,da parte di DePalma,una esatta riproduzione degli eventi narrati con una evidente dilatazione cronologica di alcune situazioni.La Dalia Nera di DePalma si aggira tra una serie a volte macchinosa di misteri e intrighi che macchiano le vite dei protagonisti. Su tutti i due poliziotti ossessionati dal delitto,soprannominati "Fire and Ice",Bucky Bleichert(un Josh Hartnett bravissimo nonostante troppo giovane per la parte) e Lee Blanchard(un ottimo Aaron Eckhart)che divisi tra donne misteriose,spietate e traditrici,consumeranno le proprie vite.
DePalma riprende letteralmente l'atmosfera dei noir anni 50(sarebbe stato curioso se il film fosse stato in bianco e nero)e la adatta al suo stile ed ai suoi virtuosismi.Lo stile è pacato e fumoso,dipanandosi verso vicende impreviste.L'unico neo è l'aver voluto abbandonare la vicenda della Dalia Nera,che nel libro aleggiava sempre presente come un fantasma silente,per occuparsi di snodi della trama abbastanza vacui.La scelta,probabilmente,è dovuta al fatto che il personaggio interpretato da Scarlet Johansson nel libro ha uno spazio marginale mentre nel film si è voluto far valorizzare l'attrice.A discapito della narrazzione che perde di fluidità e di atmosfera.Inoltre la Johansson deve lasciare scena sia a Hilary Swank,in un ruolo insolitamente sensuale e perfido,che soprattutto alle sporadiche ma significative apparizioni della Dalia,l'attrice televisivaMia Kirshner,che ircarna la vuota disperazione di Elizabeth Short,così giovane ma già così svenduta alle disillusioni sul mercato della depravazione della L.A. bene. Un'anima cannibalizzata la cui figura sfuggente è stata cannibalizzata dai media oltre la sua orribile fine,congelata per sempre in un osceno sorriso.

di Gianluigi Perrone

Sunday, July 23, 2006

AMERICAN SPLENDOR

Harvey Pekar,misconosciuto in Italia,è uno dei maggior irappresentanti del fumetto indipendente americano.Impiegato per 35 anni in un'ospedale di Cleveland,burberò e cinico,estremamente disincantato e pessimista,iniziò a lavorare nei comics dopo aver conosciuto Robert Crumb,una delle matite storiche del fumetto made in USA,con cui condivideva la passione per il jazz.La fama cominciò ad arrivare,per Pekar,quando Crumbs accettò di mettere in disegni le storie scritte da Pekar che si basavano in tutto e per tutto sugli avvenimenti della propria via.Non che la vita di Harvey avesse alcunchè di emozionante,anzi era proprio il commentare in maniera schietta e minimale fatti insulti la novità rivoluzionaria di American Splendor,il fumetto in questione.Shari Springer Berman e Robert Pulcini,lungi dal voler produrre un biopic
tradizionale,raccontano la vita minimale di Harvey come un semidocumentario dalla struttura a fumetti.Diversi spezzoni in cui compare lo stesso Pekar che fa da voce narrante per le parti di fiction che catturano perfettamente l'atmosfera cinica del
fumetto.Nonostante la poca somiglianza fisica,Paul Giamatti si trasforma letteralmente in Harvey modulando la caratteristica voce roca,il costante musone e i tic nervosi diventando sicuramente la colonna su cui si poggia American Splendor.Ottima anche l'interpretazione di Hope Davis nei panni di colei che diventerà la moglie di Pekar,l'attrice attivista Joyce Brabner e di Judah Friedlander nei panni del nerd Toby Radloff,l'incredibile individuo autistico che diventò una star grazie al fumetto di Pekar.Pekar rimarrà cinisco,scostante e arrabbiato anche dopo aver raggiunto quel successo che in America si regala a coloro che impersonano in qualche modo il "sogno".Famose le sue polemiche partecipazioni al David Letterman show e il suo ultimo fumetto,Our Cancer Year,in cui si racconta la disperata battaglia dell'autore contro il cancro e conseguente depressione.Un ottimo film indipendente dalla struttura inedita che conferma lo straordinario talento di Paul Giamatti,pronto per diventare uno dei nomi di punta del panorama attoriale americano.

di Gianluigi Perrone

Saturday, July 22, 2006

PROJECT GRIZZLY

Project Grizzly merita il titolo di documentario più assurdo mai girato.Il rotocalco canadese segue l'assurda vicenda di Troy Hurtubise,un individuo che definire esaltato è un sottile eufemismo.Il tipo in questione,originario di Ontario,Canada,ha una mania pazzesca per gli orsi bruni grizzly e coltiva il sogno di poterli studiare da vicino.In realtà non sembra essere capace di studiare alcunchè ma comunque desidera affrontare degli orsi da vicino.Naturalmente un grizzly sarebbe capace di staccargli la testa con una zampata per cui il folle pensa bene di trovare un espediente per difendersi.Costruisce un'armatura indistruttibile che possa resistere agli attacchi degli orsi.Questa armatura,che sembra una via di mezzo ra un tuta spaziale di un sci-fi movie di serie b e la corazza di Gordian,si chiama UM VII(cioè Ursus Mark VII perchè non è neanche il primo esperimento del folle verso questa direzione)ed è l'attrazione principale del documentario e l'arma con cui Hurtubise affronterà la spedizione verso le montagne rocciose per andare a rompere le scatole ai grizzly.Che ci sia un folle capace di una tale follia non è sorprendente quanto il fatto che l'individuo in questione non solo ha trovato chi se lo è sposato e si è riprodotto pure ma ha anche una folta schiera di amici e sostenitori che appoggiano la sua impresa,un gruppo di bovari allucinati vestiti spesso in maniere ridicole.Quindi vediamo la preparazione di Hurtubise, che è un pazzo ramboide dalle abitudini esilaranti tipo accendersi le sigarette con la fiamma ossidrica o farsi la barba con il machete,il quale si fa scaraventare contro degli alberi,si fa pestare ferocemente dai suoi amici esaltati,si da fuoco(perchè come è noto i grizzly sputano fuoco dopo il periodo di letargo),si fa investire da un camion per testare l'industruttibilità della sua armatura.Hurtubise già di suo è un personaggio incredibile,che va in giro vestito con uno di quei giacchetti indiani con i filacci,una paio di guanti mai visti di pelle di daino senza dita,un basco rosso e un pugnale sempre pronto sulla spalla come se da un momento all'altro dovesse spuntare Predator dalla giungla.Per non parlare della sua oscena pettinatura.Praticamente un esaltato che dà la misura di che razza di gente si può incontrare in Nord America(e i Canadesi sono quelli normali,pensate cosa ci possa essere negli USA)con il mito del machismo,della sopravvivenza e del fanatismo ad ogni costo.Addirittura sull'armatura viene
posto un tubo affianco alla testa come fosse un cannone ma che non ha alcuna utilità.La scena in cui si allena la mattina mezzo nudo sulla neve è quanto di più ridicolo si sia mai visto e a maggior ragione perchè è involontario.Infatti non credo che nelle intenzioni del regista Peter Lynch ci fosse l'intenzione di deridere Troy Hurtubise(che già si deride da sè).O se voleva farlo non lo da a vedere.Il risultato è un continuo sbellicarsi dalle risate per i comportamenti allucinanti del personaggio.La cosa più incredibile è che dopo essere andati sulle montagne armati fino ai denti come se dovessero far estinguere i poveri orsi che se ne stavano per fatti loro,alla fine non riescono a fare nulla è l'UM VII rimane abbandonato sotto un albero.Tanto Troy sarà contento lo stesso,ne siamo certi.

di Gianluigi Perrone

Thursday, July 20, 2006

IL CLAN DEI BARKER

Bloody Mama è sicuramente uno dei maggiori successi di Roger Corman in qualità di regista.Sia a livello di critica che di pubblico raccolse favori un pò ovunque e fu il capostipite di una serie di film ambientati durante la depressione del 29 prodotti dalla New World.A cavallo tra gli anni 20 e 30,il crollo della borsa di New York fece migliaia di vittima non solo ovviamente tra gli uffici di wall street ma se possibile,molte di più tra la popolazione americana più povera,soprattutto al sud. Intere famiglie di,fino ad allora contadini,si ritrovarono improvvisamente poverissimi e costretti a vivere di espedienti. Come si sa la miseria genera mostri e molti disperati,senza una via di scampo,si davano al crimine per avere una rivalsa economica e sociale.Fu il caso di Bonnie e Clyde,fu il caso di Dillinger e quello di Baby Face Nelson,tutti casi di celebri criminali che sfidavano la legge,allora violenta e corrotta,con spesso l'approvazione del popolo.Tra questi casi ci fu quello di Alice Barker e dei suoi figliocci,che formarono una vera e propria associazione a delinquere di famiglia che seminava il terrore un pò ovunque.Corman rintraccia in questo una forte influenza materna che nel film è quasi morbosa.Il film fa risalire l'attitudine a delinquere di ma Barker in una violenza di gruppo subita da bambina,passata nell'indifferenza collettiva.La donna crescerà i suoi figli come un gruppo di segugi pronti a difenderla e vessati da un forte complesso di Edipo.La donna,incapace o riluttante a riconoscere e a condannare la violenza dei figli,li tratta come dei bambini che si accaniscono contro la brutalità della vita,un sentimento molto umano e realistico.I Barker scorrazzeranno in lungo in largo sostentandosi con rapine e rapimenti.Consci di avere qualcosa di ineluttabilmente oscuro nella propria personalità,ricercano la figura paterna negli occhi di ogni uomo forse perchè oppressi dal dovere verso la madre.Il film si poggia molto sulle interpretazioni degli attori,su tutti Sheley Winters ,veterana di Hollywood e nota perfezionista.La Winters,che notoriamente era una seguace del metodo Stanislawsky,pare si fosse immedesimata talmente nel personaggio di Ma Barker da avere serie crisi di disperazione per la morte dei figli anche al di fuori della macchina da presa,tanto da creare lo sgomento tra la troupe.Pare che la donna ebbe una particolare ammirazione per un giovane attore altrettanto dedito alla recitazione come immedesimazione totale,un certo Robert DeNiro,che,interpretando il figlio tossicodipente e mezzo matto,perse molti kili entrando completamente nella parte e meravigliando al stessaShelley Winters.
Roger Corman si è più volte detto fiero di quest'opera che,nel suo filone,rimarrà unica come qualità.

di Gianluigi Perrone

Wednesday, July 19, 2006

REVOLVER

Guy Ritchie ci riprova e purtroppo per lui ancora con risultati negativi.Almeno per quanto riguarda la reazione della critica che ha bollato Revolver come peggior film della sua annata.Dopo il disastro del remake del film della Wertmuller con la moglie madonna,Ritchi ritorna al crime action dei suoi precendenti successi Lock &Stock e the Snatch,cercando di calibrare meglio le proprie armi.A differenza degli altri film,infatti,Revolver ha avuto una gestazione più matura e meditata,evidente dallo script sicuramente più complessoJake Greenè un noto giocatore d'azzardo,evidentemente dalle terga notevolmente sviluppate,che pare vincere senza barare molto spesso.L'uomo si trova al tavolo verde insieme a Dorothy Macha(è un uomo eh),un temuto boss della mala che non la manda certo a dire.Anche Macha non perde mai al gioco ma solo perchè tutti lo metono e cercano di non farlo innervosire. Green invece,non solo lo batte ma lo insulta e lo umilia.A questo punto inizia la caccia all'uomo che si svilupperà come un gioco ad incastro dichiaratamente basato sugli scacchi,come viene mostrato nel film.Green elencherà le regole principali che un giocatore deve seguire esplicandole nelle azioni fino a colpire il proprio nemico rendendolo vulnerabile proprio in ciò da cui prende la sua forza,la paura della gente. C'è da ammettere che con Revolver,Guy Ritchie ha cercato una maturazione artistica notevole,lavorando di fino sulla sceneggiatura,sulle inquadrature,sul lavoro con gli attori e sui innumerevoli dettagli.A sto punto c'è da chiedersi se non sia allora proprio poco portato per la regia perchè nella prima parte Revolver è incredibilmente macchinoso e prolisso.L'errore di Ritchie è che si dilunga dove deve sintetizzare ed è stringato dove l'azione merita un maggiore respiro.Per generare la struttura complessa della sceneggiatura diventa narrativamente caotica e presenta scene in rallenty assolutamente inutili a livello contenutistico.Alta pecca è che non riesce a non farsi influenzare da Tarantino.Qui si potrebbe intuire più un legame con lo Scorsese di Casinò e Quei Bravi Ragazzi visto l'ambiente in cui si svolge l'azione e la presenza di Ray Liotta,però è indubbio che la lingua batta dove il dente ha sempresentito dolore. Anche se fossero casuali,l'accostamento con Tarantino che Ritchie ha già fatto da sè dovrebbe cercare di essere evitato.Invece ci sono gli inserti a cartoon(inspiegabili tra l'altro)e la presenza "orientale" come in Kill Bill.Puzza troppo per non dare sospetti.E se Ritchie voleva essere commerciale o cavalcare l'onda,non era sicuramente questo il momento giusto per lui,in quanto aveva da dimostrare lasua personalità.Ecco cosa manca a Ritchie:la personalità.Senza voler insinuare che Mr Madonna ne sia privo anche nella vita privata,è stato sempre un suo cruccio non riuscire a delineare il proprio stile senza che avesse rimandi troppo evidenti a dei suoi contemporanei tanto da farlo sembrare non un emulo o un citazionista ma un imitatore.Certo questa è sicuramente l'opera migliore di Ritchie e,se riuscisse a non farsi prendere dallo sconforto per le critiche,potrebbe dare buonissimi risultati.Già il fatto di aver eliminato una scena con la moglie dimostra una certa volontà. Ritchie sta imparando a scrivere emglio e le cose migliori di Revolver compaiono tutte nella seconda parte per cui si può dire che il film va in salita,il che non è poco.Se si fosse evitato il terribile spiegono finale sarebbe stato quasi perfetto.Purtroppo Ritchie non è capace di rendere il memorabile,l'epico.Non è nel suo dna cinematografico o non lo è ancora.Per adesso Ritchie viene rimandato a settembre,poi si vedrà.

di Gianluigi Perrone

JARHEAD

Lo stesso regista di AMERICAN BEAUTY si cimenta in un film di guerra permeato da una critica pungente ma non troppo. Con un inizio che vuole richiamare /citare FULL METAL JACKET e con le immagini di APOCALYPSE NOW a metà film, si vuole mostrare quanto la guerra sia uguale nella sua ciclicità e quanto la si veda attraverso stereotipi da qualsiasi angolazione la si osservi, anche dall’interno (è dall’interno, in prima persona, che ce la mostrano qui). Mendes ci ricorda, non ci fa capire ma ci ricorda, quanto la guerra possa essere noiosa vista dall’interno, o per lo meno diversa da come viene mostrata. Questo vale sia nel caso una guerra sia cruentissima sia nel caso sia di stazionamento. I soldati descritti in questo film sono le prime linee durante il conflitto che vede impiegati gli Stati Uniti in difesa del Kuwait, nome che si può tranquillamente sostituire con “petrolio”.
E’ proprio il fatto che il regista "ci ricorda" a non far a mio avviso decollare il film come avrebbe potuto, molte cose che si accinge a "svelare" non sono poi affatto stupefacenti, sono cose intuibili e proprio per il discorso della ciclicità in parte risapute, sebbene alcuni spunti siano architettati in maniera molto intelligente, come quello sulla globalizzazione, reso a metafora con un soldato che descrive il suo pasto come spaghetti alla marinara piccanti, e siamo in mezzo a un deserto.. Tolta la narrazione scanzonata e accattivante, però già vista in precedenti film del regista, non abbiamo poi tanto di cui impressionarci o da ricordare.
Non un film da evitare, anzi, ma nemmeno da tesserne tante lodi e di sicuro da non inserire nell’olimpo dei film di guerra. Il problema di Mendes è che continua a tentare di girare dei film "indipendenti" quando non lo sono affatto, oltre all’essersi impantanato in una sorta di manierismo...

di Davide Casale

Sunday, July 16, 2006

THRILLER-A CRUEL PICTURE

Conosciuto anche come They Call her one eye(La chiamavano occhio solo)Thriller è stato recentemente sdoganato(insieme
a molti altri)da Tarantino in Kill Bill attraverso il personaggio di Daryl Hannah.In realtà il tema della vendetta viene esposto in questo film del regista svedese Bo Arne Vibenius(che qualche anno prima fu assistente alal regia nientemeno che in Persona di Bergman) in maniera molto diversa.La delicata Christina Lindberg interpreta Madeleine,una ragazza muta con un passato di abusi sessuali in età infantile.Il destino sembra accanirsi su MAdeleine quando viene rapita da un uomo apparentemente affabile che la droga,la riduce in schiavitù e la tiene a lavorare come prostituta.Inoltre per punirla delle sue disobbedienze la priva brutalmente di un occhio.Madeleine subirà ogni tipo di umiliazione fisica e psicologica fino a coltivare un rancore cieco e senza via d'uscita.Presto Madeleine plasmerà il suo corpo per imparare a combattere ed a uccidere per cercare quella vendetta che pare essere l'unica sua ragione di vita. Vibenius decise di produrre questo film quasi per disperazione,cercando di ammortizzare le perdite del suo primo film,senza immaginare che in realtà questo sarebbe stato il suo film meglio ricordato.In effetti Thriller ha tutte le caratteristiche di un exploitation movie e apparentemente potrebbe essere considerato un normale rape and revenge.Tuttavia ci sono delle caratteristiche,volute o meno,che conferiscono al film una vena autoriale.La totale mancanza di colonna sonora e l'agghiacciante freddezza,asetticità delle immagini conferiscono un
valore fortemente cinico e,come da titolo,crudele alla pellicola.Purtroppo il film perde durante la seconda parte del film in cui Madeleine trova la sua vendetta a causa di un uso sconsiderato ed incomprensibile del ralenty.Ogni scena di violenza viene dilatata all'infinito e totalmente privata del suo senso tanto da far supporre che questa scelta sia servita a sopperire alle probabilmente scarse capacità della Lindberg di affrontare realmente dei combattimenti.

di Gianluigi Perrone

CHI UCCIDERA' CHARLEY VARRICK

Incredibilmente pulp la vicenda di Charlie Varrick,ex-acrobata dell'aria,disinfestatore e rapinatore a tempo perso.L'ultimo degli indipendenti non si scompone mai,mangia dei chewing gum invece di fumare sigarette e pianifica tutto nei minimi particolari.Il gioco ad incastro che innesca il film di Don Siegel è tra i più riusciti tra i crime thriller degli anni '70.Charlie e la sua band compiono una rapina in una piccola banca del sud ovest per tirare su un pò di bigliettoni.La sopresa che gli aspetta è che la rapina ammonta a 750.000 dollari.Charlie capisce subito che la banca è una copertura e che i soldi sono della Mafia.Da adesso metterà su un piano per liberarsi del fastidioso complice,della polizia che ha alle calcagna e della Mafia che gli ha messo alle costole un pericoloso killer.
Charlie Varrick è uno di quei classici fatti di mestiere e sapienza nel dosare le parti.Ottimi interpreti e una regia,quella di Siegel,sempre puntuale,attenta,ritmica e inconfondibile.Basti guardare l'assurdo rodeo finale tra un'automobile ed un biplano per rappresentare l'amenità di questa pellicola.La sceneggiatura è sapientemente pepata da dialoghi surreali,personaggi esasperati come Joe Don Baker nella parte del trucidissimo Molly,cafonissimo e antipaticissimo,John Vernon come Maynard Boyle,un banchiere mafioso dai modi raffinati o Sheree North,una fotografa a dir poco sensuale e da situazione divertenti e amorali come il protagonista che non si scompone più di tanto difronte alla morte della moglie e che architetta tutto stoicamente per battere da solo,indipendentemente,tutto il sistema.Sicuramente più di un regista moderno ha preso da Siegel queste magnifiche intuizioni(si parla naturalmente di Tarantino ma anche di Bryan Singer che per i Soliti Sospetti deve aver tenuto ben conto di questo film)e ne ha fatto tesoro.Walter Matthau immenso come sempre.

di Gianluigi Perrone

ANNO 1929-STERMINATELI SENZA PIETA'

La prima esperienza cinematografica commerciale di Martin Scorsese(quindi sucessiva allo studentesco Chi sta bussando alla mia porta?)fu sotto l'ala protettrice di Roger Corman,allora nel cuore del suo successo produttivo e mecenatistico verso giovani talenti. In quel periodo Corman aveva avuto un notevole successo di critica e pubblico con Il Clan dei Barker e quindi si mise a produrre una serie di film ambientati durante la grande depressione degli anni 30 negli Stati Uniti tra cui questo Boxcar Bertha e Big Bad Mama.Con un budget di 600.000 dollari(standard per la New World Production)Scorsese tirò su un film in pure stile cormaniano che molto poco aveva a che fare con quelli che saranno i temo e gli stilemi del regista newyorkese.
La storia di "Boxcar" Bertha Thompson(Barbara Hershey),pare essere vera e racconta la storia di una giovane ragazza rimasta incidentalmente orfana del padre aviatore,che si trova catapultata nella vita proprio nel momento in cui gli abitanti degli Stati Uniti stavano diventando improvvisamente poveri e,spinti dalla miseria,inesorabilmente selvaggi.Bertha si trova a diventare in fretta adulta e a scendere in qualche moda la china.Per amore di Big Billy Shelley(David Carradine),un attivista di sinistra,diventerà una bandita,come spesso avveniva quegli anni,per sopravivere e,in questo caso,per combattere in qualche modo il sistema.Scorsese ci tiene a sottolineare la ferocia contro cui il governo si scagliò contro "i rossi" tanto che il personaggio di Carradine diventa un vero e proprio perseguitato che,in un tragico epilogo,verrà paragonato a un cristo morente.
Al di là delle implicazioni politiche,che vedevano sia Scorsese che Corman sicuramente d'accordo,la pellicola risente di alcune forzature di trama e ingenuità stilistiche.Scorsese oltre a non essere maturo sicuramente non si trovava a suo agio con una storia che vedremo non essere nelle sue corde,anche se regala dei momenti intensi soprattutto nella parte finale del film.Ovviamente come richiesto dal protocollo produttivo abbonda la violenza(sparatorie ogni 5 minuti)e il sesso,che,pare,sia stato tutt'altro che finto tra David Carradine e Barbara Hershey.Scorsese giustamente non rinnegherà mai questo suo passaggio attraverso la exploitation anche se probabilmente in quel periodo la sua vena artistica era concentrata più verso la propria realtà,tant'è che di lì a poco comincerà a rivoluzionare il cinema con Mean Street.

di Gianluigi Perrone

ZOZZA MARY,PAZZO GARY

Non ci è dato sapere chi diavolo sia questo Gary che si becca del pazzo nel titolo italiano di "Dirty Mary Crazy Larry" ma di sicuro farebbe fatica a superare la testa bollente del personaggio interpretato da Peter Fonda,che già di suo non aveva tutte i venerdì. La "zozza" Mary(Susan George),invece.è la ragazzina svampita,tendenzialmente ladra ed un pò puttanella che non ci sta a farsi mollare nel letto da Larry dopo una botta e via e non perde tempo per inseguirlo. Peccato che non sapesse che lui ha organizzato quella mattina un grosso colpo col il suo meccanico Deke(Adam Roarke):mentre Deke tiene in ostaggio la moglie e la figlia di un direttore di un ipermercato,lui si farà consegnare dall'uomo l'incasso per poi raggiungere la frontiera. A questo punto,senza rendersi bene conto di quello che fa,Mary si troverà a condivideere la fuga disperata dei due rapinatori.
Dirty Mary,Crazy Larry è uno dei classici car chase road movie americani incentrati dalla fuga dalla legge. Da un racconto di Richard Unekis John Hough(American Gothic) trae il film che forse contiene le migliori scene si corda in macchina della storia del cinema.L'ingenua sfacciataggine di Mary,la sfrontata e spaccona libertà di Larry frenati a malapena dal buon senso di Deke si riversano su un manuale di come non si dovrebeb mai guidare un'automobile.Le scene sono particolarmente emozionanti non solo per la qualità delle acrobazie azzardate,anche se mai esagerate ed inverosimili come potevano essere quelle di Hazzard,ma anche per la perizia registica di Hough che ci fa entrare direttamente nel cuore dell'azione. Doveroso citare lo stunt coordinator Al Wyatt Sr. che avrà fatto venire una bella serie di infarti alla troupe tentando scene di impatto pericolosissime e inseguimenti mozzafiato. Su tutti l'inseguimento con l'elicottero che è veramente da definire "on the edge". Per orchestrare tutto questo la produzione ha "sacrificato" ben sei Dodge Chargers color giallo-lime,sfruttandole fino all'osso.Un tipico cult anni '70 che con gli anni è invecchiato benissimo acquistando in valore.

di Gianluigi Perrone

Tuesday, July 04, 2006

THE PROPOSITION

Se c'era qualcuno oggi di mettere della poesia in un western crudo e sanguinolento quello non poteva essere che Nick Cave.
Se c'era qualcuno che poteva tradurre in immagini la potenza narrativa dello script di Cave,quello non poteva essere che John Hillcoat. I due Australiani avevano già collaborato insieme per Ghost of the Civil Dead e in diversi video musicali di Nick
Cave e continueranno a farlo anche nell'imminente Death of a Ladies Man. La grevità raggiunta dalla simbiosi dei loro talenti in the Proposition però,sarà forse irraggiungibile.
Siamo agli inizi del diciannovesimo secolo,nella polverosa e selvaggia Australia rurale. La banda dei fratelli Burns ha sterminato una famiglia e violentato una giovane donna incinta. La polizia,a capo del Capitano Stanley è riuscita a catturare
due dei banditi:il giovane Mickey e il taciturno Charlie. Stanley però ha altri interessi. E' ossessionato dal capobanda Arthur Burns e fa l'estrema proposta a Charlie. Entro nove giorni dovrà scovare e uccidere Arthur altrimenti il giovane Mike,nel giorno di Natale,penderà dalla forca.
Nonostante l'atmosfera e l'intero film possano essere visti come una trasposizione in immagini di tutto l'universo(musicale e non)che circonda la figura del bluesman australiano,Nick Cave,si possono ricercare nell'opera echi del cinema western di
Sam Peckinpah. La sceneggiatura di Nick Cave e la regia sincopata e sofferta di Hillcoat sanno dare a the Proposition quello che Peck sapeva dare ai suoi western:il sapore della leggenda.
La sofferta storia dei Burns,eroi balordi in un mondo peggio di loro,si muove tra un ambiente di ferocia,disumanità,sadismo,ipocrisia e soprattutto dispresso razziale verso gli aborigini leggittimi proprietari di quelle terre. Gli interpreti sono tutti estremamente intensi da un algido Guy Pierce al selvaggio Danny Houston fino a una breve ma significativa parte di John Hurt. Dall'altra parte opposta della barricata l'indispensabile candore femminile di Emily Watson si oppone al bravissimo Ray Winstone,il Capitano Stanley,forse vero protagonista del film. Un mastino feroce e fanatico che diventa un agnello al cospetto della moglie rivelando le proprie intime debolezze emblema di una terra che usciva le unghi e i denti per difendere la propria meschinità.The Proposition è la voce roca e rasposa di un passato che ritorna mostrando le proprie dita insanguinate,verso un destino allora ancora incerto. i dialoghi stupendi carichi di significati semantici si fondono un tutt'uno con la colonna sonora come un'unica interminabile ballata scura e polverosa. La nenia infantile nella voce di una bambina che osserva stupita il nascere di una nazione su fondamenta bagnate di sangue e violenza.

di Gianluigi Perrone

Thursday, June 15, 2006

ISI DISI - AMOR A LO BESTIA

Una ripresa aerea apre il film, attraversiamo delle candide nubi come all’ inizio di BEETLEJUICE SPIRITELLO PORCELLO, arriviamo planando verso un quartiere mentre una voce soave e disincantata ci presenta quello a cui lentamente ci avviciniamo. Un grande quartiere appare ai nostri occhi. Palazzi di altezza media in rossi mattoni a vista, il quartiere di Leganes, sobborgo di Madrid. Chi ci parla è Isi (Santiago Segura) che presenta il suo barrio (quartiere) come fosse il centro dell’universo. Ci spinge fra le strade di questo “paradiso” fino a farci conoscere il suo amico del cuore Disi (Florentino Fernandez). Vediamo una strada che si chiama come lo storico gruppo Hard Rock australiano AC/DC. I due amici si chiamano appunto Isi e Disi che sarebbe la pronuncia Spagnola del gruppo sopra citato. Sono entrambi Heavys, nome con cui si identificano i metallari in terra Iberica e la loro vita scorre a gonfie vele tra il loro locale preferito “La campana del inferno”, da “Hell Bells” storica canzone del gruppo Australiano, e tra i mille divertimenti che Leganes offre loro. Irrompe in questo paradiso “borchiato”, turbando la pace e il quieto vivere, l’amore. Isi infatti si innamora di una studentessa universitaria che frequenta un corso nel distaccamento universitario di Leganes. Lei è una ragazza seria nell’accezione comune e di sani principi, ma Isi, sebbene provengano da ambienti differenti, non si da per vinto. Santiago Segura ci narra il suo amore e la sua storia in maniera disincantata quasi scimmiottando a tratti FORREST GUMP e a tratti AMERICAN BEAUTY. Dimenticavo di dire che il film è comico, a tratti demenziale. Tutta la storia è condita di un grottesco quasi fiabesco e ne accadono di tutti i colori. Si spazia da schizzi di sperma a maltrattamenti nei confronti dei nerdz, a rocambolesche fughe per le strade del quartiere a stelle cadenti che avverano desideri. Non c’è limite ai casini che combinano i due e Segura torna a vestire i panni che già lo caratterizzavano ne IL GIORNO DE LA BESTIA, del metallaro appunto.
ISI DISI non è un film di grandi pretese, non è di un umorismo pungente come TORRENTE, è quasi ingenuo nella sua comicità, si ride come durante una gag di torte in faccia, senza tenere collegato il cervello. Le vicissitudini narrate nel film compiono un percorso circolare e il messaggio finale ci fa sorridere perché sembra quasi dirci che qualsiasi cosa stiamo facendo è la cosa giusta, basta seguire il cuore e va tutto bene. Da segnalare il cartoon che compone i titoli di coda, sorprendente per originalità e inventiva.

di Davide Casale

Sunday, June 11, 2006

FASTER PUSSYCAT KILL!KILL!

Probabilmente Faster Pussycat Kill !Kill! è l'opera migliore di Russ Meyer perchè concentra in sè tutti gli stilemi che hanno reso
cult uno dei registi più ananrchici che abbia operato in territorio americano. La carica iconoclasta dell'opera contro la tradizionale mentalità maschilista e fallocratica della società è tutt'oggi ancora viva ed attuale. Quando MEyer prende a cazzotti nello stomaco la supremazia dell'uomo sulla donna generando personaggi femminili grotteschi ma dirompenti nel corpo e nell'anima,inarrestabili e inplacabili come non se ne erano mai visti.
Faster Pussycat è l'epopea selvaggia di tre spogliarelliste criminali a bordo delle loro fiammanti macchine sportive che cavalcano le polverose vie del deserto Mojav in cerca di libertà ed emozioni forti. Le tre donne,Rosie e Billie e l'estrema Varla risaliranno il limite lungo una strada di sesso violento e sensuale violenza massacrando di botte il tipico bulletto maschilista,rapendo e malmenando una giovane cretinetta in bikini e scontrandosi contro una turpe famigli guidata da un maniaco misogino in sedia a rotelle e un povero demente dai modi truci. Ma la grande Tura Satana,che in questo film troverà l'immagine della sua vita,e le sue amiche combattono in realtà contro gli stereotopi ottusi del perbenismo americano
affrontando,è proprio il caso di dirlo,"di petto" la società avversa e inconcepibile.Perchè loro sono spietate e slegate da qualsiasi rapporto con la società,delle psicopatiche fumettistiche i cui comportamenti sono puro istinto e la cui forza risiede nella potenza degli ormoni. Sensuali e folli,le donne di Meyer sono il testamento di una società utopistica dove dominano queste amazzoni aliene,dure e feroci ma incredibilmente sensuali nelle loro caratteristiche distintive,come il modod di esprimersi di Varla,l'accento esotico di Rosie e la maniera incredibilmente ipnotica di muovere il culo di Billie tutte distinte da un seno strabordante,osceno,un'arma da guerra contro la mentalità reprimente dell'Emerica degli anni '60.
Considerato un pornografo,Meyer era in realtà un cavallo selvaggio dall'ottica disturbata e ironica che lo salvava dalla follia visiva.Non a caso,pur cartoonistico e delirante,Faster Pussycat è il film più lineare,con una trama più concreta del resto della produzione di Russ Meyer.Negli anni il film diventerà un cult senza tempo e soprattutto il portabandiera di un femminismo,quello pulsante e vivo non quello represso e frustrato.

di Gianluigi Perrone

Saturday, June 10, 2006

THE HOST

Dopo il successo dell'ottimo Memories of Murder,l'aspettativa per il nuovo Bong Joon-Ho era decisamente alta ed il film,presentato a Cannes,era la punta di diamante della produzione sudcoreana dell'anno corrente. Le pochissime
indiscrezioni rivelavano come plot principale la comparsa di una creatura sulle sponde del fiume Han che sparge il terrore tra la popolazione di Seul. Un Monster Movie quindi ma visti i precedenti non propriamente classico. Bong effettivamente si getta nel tentativo ma non riesce a prevalere sull'anima da blockbuster dell'opera.
The Host si concentra sulla storia della famiglia Park,di estrazione ploretaria,composta da personaggi più o meno emarginati.
Un diplomato senza occupazione fissa e problemi di alcohol,un fannullone un pò tonto e narcolettico ed una aspirante
campionessa di tiro con l'arco fanno capo ad un padre di umilissime origini. La loro routine viene rotta dall'attacco di una creatura che ricorda molto da vicino l'immagine del primate mezzo pesce mezza lucertola che risalì dalle acque milioni di anni fa per popolare la terra ferma,generato,in questo caso,da una orrenda metamorfosi causata dall'inquinamento del fiume.
Quando la bambina di Kang-du,il figlio fannullone interpretato da Song Kang-ho(già attore feticcio sia di Bong che di Park Chan-wook),verrà rapita dal mostro,la famiglia si metterà alla sua ricerca ostacolati dalla cecità dell'autorità che crea falsi allarmi per la presunta infezione di un virus inesistente.
The Host vuole essere un'opera ecologista in primo luogo ma anche e soprattutto una critica all'assalto mediatico che gli Stati Uniti usano come influenza nei confronti della Korea del Sud. Un tema molto battuto dagli autori contemporanei coreani,il problema dell'invasività americana è qui mostrata in maniera esplicita e anche un pò banale. Bong si perde troppo spesso in
stereotipi narrativi(vedesi l'uso delle musiche)che rimangono fuori luogo se confrontati con la narrazione dell'opera. La sceneggiatura alterna momenti drammatici con scenette comiche che risultano inutili e spesso anestetiche. Questo perchè The Host richiedeva comunque di essere un blockbuster e la presenza di variazioni del tema sembra messa lì per dare un minimo di spessore che non c'è. Anzi si creano delle incongruenze narrative assurde che distolgono dalla tensione originale del film. La regia è sontuosa e,come ormai standard per la korea del sud,visivamente ineccepibile quando riesce a sfruttare al meglio la scenografia del ponte sul fiume Han. Il Mostro,creato dalla Weta è,forse volutamente,un pò goffo ma è anche mostrato troppo tanto da assuefarsi presto alla visione. E se comunque ci vengono presentati i personaggi con cura,avviene in maniera statica e mai catartica. Alla fine Bong riesce con il mestiere e il talento a salvare il film dall'essere un piatto pastrocchio commerciale ma dati i precedenti era naturale aspettarsi di più.

di Gianluigi Perrone

Wednesday, June 07, 2006

IL SIERO DELLA VANITA'

L'opera seconda di Alex Infascelli nasce avanti ad aspettative molto alte,grazie alla meritata fama delle virtù del regista,e
riesce a procurarsi un casti di grandi nomi italiani davanti alla macchina da presa,tra cui Margherita Buy e Francesca Neri,nonchè l'ottima Barbora Bobulova, ma anche Valerio Mastandrea e Marco Giallini.Da un soggetto di Niccolò Ammanniti,Il Siero della Vanità si muove nell'inedito mondo della televisione.Quando alcuni personaggi televisivi cominciano a scomparire,le forze dell'ordine richiamano a rapporto la poliziotta Lucia Allasco,ritiratasi per via di un'incidente subito in passato e sull'orlo dell'alcolismo la
quale,indagando,scoprirà che le persone scomparse erano tutte partecipanti di uno show televisivo di una guru del piccolo schermo,Sonia Norton. Evidente,nelle intenzioni dell'autore,è il voler criticare aspramente il sistema televisivo e il mondo che ci gira intorno dipingendo negativamente i vari personaggi che purtroppo nella realtà sono anche peggio. Per cui si vedono i comportamenti frivoli e il voler fare spettacolo ad ogni costo di un teatrino di squallidi individui spesso portati a caratterizzazioni non così estreme visto l'andazzo qui in Italia. Opinionisti antipatici,conduttrici faine e starlette cocainomani in crisi sono la base su cui si pone critico l'occhio di Infascelli,anche se un pò troppo spesso in maniera banale e scontata. Il voler apparire ad ogni costo è il tema principale che distingue ogni personaggio del film,decantando la purezza di chi invece se ne infischia di tali sovrastrutture. Qualsiasi critica al sistema messo su da pochi mercenari dell'immagine va solamente supportata anche perchè per certi versi Il Siero della Vanità riesce ad essere un thriller avvincente. Infascelli ha un buon stile
registico che cura attentamente nelle scene a cui tiene di più.Purtroppo si perde spesso in banalità e inutili lungaggini che penalizzano molto il lavoro nel suo insieme. Tranne Margherita Buy,bravissima e assolutamente in parte,gli altri personaggi non vengono ben caratterizzati se non rimandandoli al "supposto alter-ego" nella realtà e la stessa soluzione finale "fa abbastanza acqua".Limitatamente a questo rimangano le critiche perchè la bravura di Infascelli sta sempre nell'essere capace di scovare progetti diversi e inediti se non accattivanti.L'opera poteva sicuramente essere migliore ma nel complesso siamo comunque e sempre oltre la media.

di Gianluigi Perrone

TORRENTE-EL BRAZO TONTO DE LA LEY

Siamo alla periferia di Madrid in uno dei tanti quartieri popolari e ci troviamo catapultati nella vita di Josè Luis Torrente, ex poliziotto di mezza età che vive col padre. Un ex pubblico ufficiale intenzionato ad essere riammesso nella polizia dopo essere stato cacciato. Josè Luis racchiude tutti gli aspetti negativi di un essere umano del mondo cosiddetto civilizzato: razzista, ubriacone, violento, sessista, fannullone, inaffidabile ed estremamente disonesto. Sembra vi stia presentando un clone de IL CATTIVO TENENTE, ma TORRENTE è un film che fa letteralmente scompisciare dalle risate. Santiago Segura, come il personaggio del film, è originario di un quartiere periferico di Madrid e anche grazie a questo si cala perfettamente nella parte e dirige il film con naturalezza e forte di esperienze vissute, esaltando e portando all’estremo situazioni tipiche della vita quotidiana e luoghi comuni della Spagna più tradizionalista. Le battute e le gag sono inserite in situazioni di quotidianità e la depravazione che si crea attorno Torrente è di quanto più divertente si possa immaginare. Un umorismo estremamente cinico, sporco e decadente, spietato in alcuni punti, soprattutto per quanto riguarda la figura del padre il quale viene obbligato a chiedere l’elemosina dal figlio. Segura inserisce in quell’ambiente delirante un intrigo che non può che far ricordare alcune vicende del MONNEZZA, ma funge da pretesto per lasciare aperto un sequel e per andare affondo nella drammaticità carnevalesca del protagonista. Come Alex De La Iglesia anche Segura ama i Friky, che sarebbero in spagnolo i nerdz. Torrente si circonda di personaggi assurdi, ragazzini patetici me estremamente comici e grotteschi nella loro ridicolaggine. Torrente fa da guida spirituale a questi individui e li sfrutta per i suoi scopi che ovviamente contemplano il suo personalissimo “vivere in maniera retta”, sebbene la cosa faccia ridere già di per se, e l’arricchirsi in maniera facile e non ultimo l’accrescere il proprio ego di condottiero e trascinatore di masse, in poche parole tenta di mascherare a se stesso l’essere il fallito per eccellenza.
Vedere Josè Luis Torrente rivolgersi alle ragazze del suo quartiere con modi tutt’altro che eleganti è impagabile. Vi innamorerete del personaggio fin dai primi minuti, grazie a un’ introduzione che ha del geniale. Josè Luis si aggira per il quartiere con la sua Seat Marbella stra vecchia e piena di gadget dell’Atletico De Madrid, seconda squadra della capitale Spagnola. Vede ogni tipo di atto criminoso e lo liquida con commenti ad alta voce che rendono quest’uomo un mito del trash ancora prima che il film si incanali in una trama. A tratti la colonna sonora ci accompagna con pezzi classici della Copla, musiche tipiche del paese della corrida e tanto amate dal nostro reazionario, ignorante, ma a cui ci affezioneremo, Josè Luis Torrente.

di Davide Casale

Sunday, May 28, 2006

TORRENTE 3:EL PROTECTOR

Torna José Luis Torrente,il lurido detective privato spagnolo portato con successo sugli schermi da Santiago Segura,già
attore feticcio di Alex De La Iglesia. Il personaggio,che non è mai arrivato da noi in Italia,in spagna è una vera e propria
istituzione facendo registrare i tutto esaurito al botteghino e creando diversi fenomeni paralleli come videogiochi,fumetti ed
action figures. Stavolta Torrente diventa la guardia del corpo di Giannina Ricci(Yvonne Scio),una eurodeputata ecologista
che mette i bastoni tra le ruote ad una potente multinazionale Petronosa a capo del gangster Montellini(Fabio Testi)che vuole farla fuori. Torrente addrestrerà un gruppo dimentecati per difendere l'incolumità della donna sperando di penetrare nel cuore della donna o almeno di concludere. Segura rispolvera una serie di comportamenti animaleschi tipici del suo personaggio dedito al bere,alla volgarità ed al sesso promiscuo(scena top quando trova la tossica addormentata sul divano). La fisicità e bravura di Segura e comprovata da tempo e per il terzo capito si è voluto creare qualcosa di esagerato. Quindi Torrente 3,rispetto agli altri, più blockbuster e contiene scene assurde di azione,esplosioni,combattimenti e fuochi d'artificio q parodia del genere action americano.Tutto condito dalle scorregge di Torrente che,se tanto mi da tanto,è figlio della commedia italiana di Bruno Corbucci,Nando Cicero e similaria. Infatti se la fisicità di Torrente ricorda moltissimo Lino Banfi nel periodo verde,i suoi comportamenti orribili possono ricondurre all'ultimo Monnezza,quel Tomas Milian delle Squadre Antitutto. Segura aggiunge una regia spettacolare volutamente esagerando sugli effetti pirotecnici. A condire il tutto una serie di cameo di vari personaggi televisivi spagnoli ma anche star americane come John Landis e Oliver Stone. Alal fine TOrrente riesce a far danni anche alla casa bianca ma chissà se sarà l'ultimo capitolo.Forse sarebbe meglio così perchè il personaggio potrebbe saturarsi troppo.

di Gianluigi Perrone

Friday, May 26, 2006

CITY OF LOST SOULS

Un aitante brasiliano in Giappone con una affascinante ragazza del luogono in fuga dalla polizia da ché lui l’ha rocambolescamente fatta evadere da un pullman di un penitenziario. Il suo arrivo in elicottero e l’uccisione delle guardie è una scena esagerata, volontariamente quasi pacchiana, e la sua mano tesa verso di lei come a dire “Vieni con me piccola” anticipa tutto l’essere sopra le righe del film.
Miike confeziona un film insolito e curioso. Vediamo la comunità Brasiliana a Tokyo stereotipatamene caratterizzata dall’amore per il calcio, il calcio vincente. Il protagonista schiva quasi i proiettili e nelle sparatorie è abile come fosse un giocatore della sua nazionale. La Yakuza non poteva non esserci, ma è eccessiva, quasi videoludica, portata all’estremo fino ad essere parodia di se stessa. Il tema dell’ organizzazione criminale per eccellenza del sol levante in Miike è più che ricorrente fin dagli esordi. Vediamo scimmiottare anche l’effetto tanto caro a MATRIX e cloni vari. Lo spettacolo visivo del bullet time è ironicamente ridotto a siparietto in un combattimento tra galli, il tutto girato in animazione da cartoni animati della mattina, quelli che si vedono facendo colazione. Le storie si intrecciano e le gang Yakuza sono più di una. Il Brasiliano è impassibile e sa quello che vuole, sembra impossibile che non possa ottenerlo perché ha le doti giuste. Come in una partita di calcio dribbla tutti e l’area avversaria è il suo terreno di gioco. Girato in maniera quasi confusionaria riduce le peculiarità che rendono grande il regista a poco più di un paio di sequenze. Il film sembra girato con leggerezza, per sfogo, senza premere l’acceleratore in nessun senso. Sortisce comunque il suo effetto satirico e non si può dire che non abbia un tocco di originalità soprattutto per il curioso binomio Giappone-Brasile.

di Davide Casale

Tuesday, May 23, 2006

L'UOMO VENUTO DALLA PIOGGIA

René Clemént è raffinitissimo tessitore di trame noir dall'aspetto surreale e provocatorio come riconfermerà in Delitto in Pieno Sole,Crisantemi per un Delitto e Unico indizio: una sciarpa gialla. Già dai primi minuti di film,introdotti da una citazione da Alice Nel Paese delle Meraviglie,Clemént mette il veto sulle sue intenzioni di divagare su terreni astratti e sconosciuti. L'uomo venuto dalla pioggia del titolo non è il protagonista Charles Bronson come si potrebbe supporre ma uno scuro passeggero che arriva in autobus in una cittadina della costa della Francia. Completamente zuppo sembra essere interessato solo ad una borsa rossa che stringe a sè. Ma mettiamolo da parte. Ora c'è Mellie,diminutivo di Melancholie,che si prepara civettuosa per il ritorno del marito,ufficiale euronavale,che sta per raggiungerla dopo una lunga assenza. Le strade dell'uomo misterioso e della donna si incroceranno quando questi si intrufolerà in casa sua per violentarla. Sconvolta,Mellie inizialmente pensa di avvisare la polizia ma il suo passato d'infanzia la blocca in un omertoso silenzio. Quando la donna si accorgerà che il suo carnefice è ancora in casa non avrà esitazione a prenderlo a fucilate e infine schiacciarli il cranio con un remo. Liberatasi del corpo Mellie tiene il suo segreto sicura di averla fatta franca ma un giorno compare un'altro uomo misterioso(Bronson)che sa tutto e che vuole da lei qualcosa di ancora non specificato. La donna negherà sempre imperterrita il suo coinvolgimento ma ora il loro rapporto si evolverà in sentieri inaspettati. La crudezza della prima parte del film,in cui vediamo la distruzione dell'anima di Mellie,una bravissima Marlène Jobert,abbandonata nuda con addosso solo la calza portata sul volto dal suo violentatore,si tinge di giallo dal momento in cui compare l'incognita Charles Bronson che darà vita ad una quantità notevole di colpi di scena. Sembra che il trauma che rode Melliè,che ha radici ben precedenti alla violenza subita(il nome Melancolia non è un caso)venga metabolizzato e muti da quando la donna si trova avvinghiata nella più classica struttura del noir. Talmente classica che nel finale sarà ironicamente McGuffin,ilt trucco che svela tutto come lo definiva Hitchcock, il nome di chi svela gli arcani. Misteri che rimangono tali per alcuni,che vengono svelati allo spettatore ma non a chi li vive e che creano un rondò di piroette basato sulle bugie. Sono le bugie il motore de L'Uomo Venuto dalla Pioggia. Mente Mellie all'antipatico
marito che non merita di sapere chi è la moglie,mente lei fino a negare l'evidenza davanti al delitto perpetrato e mente il colonnello Dobbs(Bronson con un nome da cocktail)che inebria di menzogne la protagonista per condurla dove lei furba ma fragile,non riesce e non vuole arrivare. Quando i nodi si sciolgono non importa più nulla se non l'espiazione dei vecchi peccati e delle sopite memorie.

di Gianluigi Perrone

Monday, May 22, 2006

TELEFON

La sola idea di veder lavorare Don Siegel con Charles Bronson avrebbe fatto tremare i polsi a gente di ben tosta pellaccia. Il
regista che,tra le altre,avrebbe contribuito a plasmare,insieme a Sergio Leone,una delle figure più idolatrate nonchè uno dei
registi più significativi a cavallo del secondo millennio. Naturalmente si parla di Clint Eastwood che con Siegel ebbe non solo una forte amicizia ed una assidua collaborazione ma un rapporto da lui definito di apprendistato che ben più di quello nei
Western della trilogia del dollaro,formerà gli stilemi del suo cinema. Era quindi nella natura delle cose che dopo la saga
dell'ispettore Callaghan,Siegel lavorasse "l'altro" giustiziere per eccellenza,la figura brulla e imperscrutabile di Charles
Bronson. E la sorpresa sta proprio nella pellicola,l'unica insieme, che li vide nei titoli insieme. Telefon infatti è un esperimento
singolare di fantapolitica,più inedito per Bronson che per Siegel che aveva già all'attivo un capolavoro come L'Invasione
degli Ultracorpi.Bronson interpreta il Maggiore Grigori Borzov,dei servizi segreti russi. L'agente del KGB viene informato di una diabolica macchinazione da parte del governo russo durante la guerra fredda. Una seire di agenti scelti in qualità di kamikaze sono stati privati della propria personalità mediante un lavaggio del cervello,sono stati sitruiti per credere di essere cittadini americani dopo essere stati addestrati a compiere atti suicidi di terrorismo,sono stati "disattivati" e messi a vivere normalmente negli States. Il piano era di poterli attivare,in caso di bisogno,per telefono(da qui il titolo) pronunciando una frase specifica. L'accordo di non belligeranza tra URSS e USA aveva portato le autorità del KGB a far vivere tranquilli i
kamikaze,che qui vengono chiamati "sleepers" per il loro stato di stasi mentale come se nulla fosse. Qualcuno però,che evidentemente conosce il segreto,sta attivando gli "sleepers" causando degli apparentemente inspiegabili atti di distruzione. Il Maggiore Borzov viene mandato a scoprire l'intrigo con ogni mezzo,affiancato controvoglia da un'avvenente agente della
CIA. Il film che Siegel trae dalla novella di Walter Wager sembra sospeso in uno stato ipnotico come quello degli "sleeper". L'aria che permea il film è invernale e misteriosa,tipica da spy-story della cortina di ferro e riesce a catturare sin dai primissimi minuti,anche grazie alla stupenda colonna sonora di Robert Frost. Don Siegel atttraverso il tema del meta-spionaggio riesce
a delineare lo stato d'animo che c'era tra le due nazioni durante la guerra fredda,quando la pace era legata a equilibri sconosciuti alle masse e vertiginosamente instabili. Ottima prova di attori sia per Bronson che sperimenta un ruolo insolito che per Donald Pleasance che caratterizza perfettamente il suo personaggio. Da riscoprire.

di Gianluigi Perrone

Sunday, May 21, 2006

DUE SPORCHE CAROGNE

La prima volta insieme per Alain Delon e Charles Bronson non poteva essere più amena. Il film d'esordio di Jean Herman,in seguito passato alla letteratura come giallista,è un finissimo esempio di noir francese di rara eleganza. Franz Propp,americano,e Dino Barran,francese,hanno prestato entrambi servizio nella Legione Straniera,come mercenario il primo,in qualità di medico il secondo. Entrambi cinici,ideologicamente disonesti e disincantati,tornati in Francia,dividono le proprie strade per l'evidente incompatibilità caratteriale. Difatti se Dino è freddo e meditativo,Franz è il tipio browler fracassone. Nell'impossibilità ed incapacità di trovarsi da vivere onestamente,quest'ultimo comincerà a girare i circoli
perversi della città procurandosi denaro nelle maniere meno lecite. Intanto Dino si impelaga in uno strano affaire per via di un fattaccio che lo mette in condizioni di debito morale verso alcune persone. Fattosi assumere in un ufficio,deve riportare dei documenti in una cassaforte di cui conosce solo 3 delle 7 cifre della combinazione. Quando il destino lo riunirà a Franz,anche lui interessato al contenuto della cassaforte,la loro forzata convivenza diventerà causa di stravolgimenti inaspettati. In quel turbine di figure oscure che vivono nel tipico noir francese,Adieu L'ami ritrae il codice d'onore che vige tra i criminali,nonostante gli odi e i contrasti di interesse. Herman tratteggia benissimo il sordido sottobosco dove si muovono i
personaggi,corrotti e corrompenti,raggiungendo il climax nella scena in cui Bronson vende la sua donna "con il cuore vuoto" ad un ricco pervertito che la vuole letteralmente come "bambola". I contrasdti tra i due protagonisti ritraggono la più classica delle situazioni in cui due individui diversi per estrazione ma simili per ideologie portano le proprie personalità a scontrarsi
fino a fondersi nel momento in cui si ritrovano prigionieri degli eventi. Misogino e cattivo,la pellicola risolve nel finale tutti i misteri del caso dimostrando come sia chi non fa parte del gioco dei bassifondi ad essere amorale e che davanti alla possibilità di scegliere,un uomo d'onore,per quanto canaglia,rimane fedele e sincero nell'addio al proprio amico.

di Gianluigi Perrone

SOLE ROSSO

Non che Sole Rosso sia un brutto film.Anzi l'ironia surreale che permea durante tutta la visione lo rende spesso spassoso.
Però ci si aspettava di più da un cast e soprattutto una trama che faceva sperare al cult sin da subito. L'ambasciatore del Giappone attraversa il selvaggio West con dei doni pacificatori per il Presidente degli Stati Uniti. Il treno su cui viaggia viene assaltato da un gruppo di banditi che fanno una carneficina durante la quale viene ucciso anche uno dei samurai
dell'ambasciatore. Uno dei banditi,Gauche(mancino in francese)americanizzato in Gotch trradisce il compare più anziano,Link Stuart e,credendolo morto,scappa col bottino. Link si metterà alla caccia di Gotch e dei suoi soldi ma gli verrà appresso il samurai Kuroda,desideroso di avere la sua vendetta sul bandito francese.
Una sceneggiatura così assurda,pepata di umorismo,erotismo e azione non poteva sperare in interpreti migliori che Charles Bronson e Toshiro Mifune,frizzante coppia slapstick per tutto il film,e un villain d'eccezione,Alain Delon,con il faro sugli occhi
per tutte le riprese. Se i duetti tra Bronson,in forma come non mai,e Mifune sono sicuramente la parte più divertente dell'affare,di meno lo sono i cali di ritmo che spesso ne discordano il ritmo. Spesso l'azione è interrotta da momenti morti e
non si capisce dove il regista voglia andare a parare. Terence Young,che si è fatto un nome con un paio di 007 passati alla storia(Dalla Russia con Amore e Thunderball),non ha la mano altrettanto ferma in questa produzione internazionale che vede Italia,Francia e Spagna in produzione,un regista inglese ed attori americani e giapponesi all'opera. Il tutto non diventa un
pastrocchio grazie all'autoironia dello script che non pretende di prendersi troppo sul serio ed a alcune scene piccanti con Ursula Andress e Capucine. Sole Rosso diverte ma non riesce mai a essere memorabile,nonostante ne avesse tutte le potenzialità.

di Gianluigi Perrone

IO NON CREDO A NESSUNO

Curiosa operazione questo Breakheart Pass che ha nell'interpretazione di Charles Bronson la sua aminità più evidente. Difatti sarebbe interessante capire come mai scelsero un attore della sua fisicità e con una storia di ruoli di un certo tipo per una pellicola che guantava sicuramente ad un Alec Guinness o ad un Peter O'Toole. Tratto da un romanzo giallo di Alaister
McLean,il film,di ambientazione western,si incentra sull'indagine di John Deakin su una serie di morti misteriose occorse su un
treno lungo la tratta attraverso le Montagne Rocciose. L'uomo,inizialmente spacciatosi per un baro ed arrestato,in realtà è un agente cheintende smascherare una serie di trame su un traffico d'armi ordite da un Governatore corrotto(Richard Crenna,il colonnello Trautman di Rambo). Classica struttura "alla Dieci Piccoli Indiani" con il politico,lo sceriffo,il prete,il dottore e la bella di turno come principali indiziati,il film si sussegue con una serie di colpi di scena e qualche scena d'azione ben girata
come il combattimento sul tetto del treno e l'ecatombe della maggior parte dei soldati nel crollo del vagone,anche se un pò
forzata.Purtroppo la regia un pò troppo piatta di Tom Gries procura qualche sbadiglio. Interessante vedere Bronson in una prova d'attore stimolante e ben lontana dai suoi canoni. Simpatico cameo di Archie Moore,allora stranoto campione di
pugilato categoria mediomassimi.

di Gianluigi Perrone

CHATO

Probabilmente è Michael Winner ad aver valorizzato al meglio la figura di Charles Bronson. Al di là della serie del Giustiziere
della Notte,il regista londinese(ma trapiantato perfettamente negli States)contribuì già con Chato's Land a creare il mito di
macchina di morte che sarà l'ex-minatore della Pennsylvania Charles Buchinski. Probabilmente Chato è un'opera meno
complessa e riuscita del precedente Io sono la Legge(Lawman con Burt Lancaster)ma si viaggia comunque ad altezze
vertiginose. Senza preamboli il film si apre col l'eliminazione di un bieco razzista che va a rompere le uova nel paniere al
pellerossa Apache Pardon Chato. L'uomo si difende e di conseguenza viene braccato da un gruppo di gringos con la fregola di impiccare l'indiano. Sì,perchè l'uomo ucciso è lo sceriffo. A capo del Capitabo Quincey Whitmore(un fantastico Jack Palance),il gruppo di vendicatori sanguinari si lancia in una feroce caccia all'uomo. Ma Chato è più duro di chiunque altro. Il gruppo di allegri razzisti finirà presto di ridere.
Chato è la calma,meditazione ed astuzia contro la violenza,l'idiozia e la stupidità. I cowboy al suo seguito sono mossi dall'odio,dal desiderio di linciaggio o da un confuso sentimento di giustizia che in molti creerà più di un ripensamento. Non hanno remore a violentare la donna di Chato ed a bruciare un suo compagno indiano. Non riescono ad andare d'accordo neanche tra di loro perchè non sono coscienti delle proprie esistente,della propria vita e di ciò che li muove.E come iene impazzite si sbranano tra di loro,ormai dimentichi del motivo che muove la loro mano La loro ferocia è dettata solo da un inaudito senso di cieca xenofobia espletato continuamente con frasi del più basso tenore. "Accoppia un cane con un lupo ed avrai una bestia assassina." Solo Quincey,esperto di cultura indiana,compie la ricerca da outsider,perchè non è capace di
"vivere come uno qualunque" e vive l'avventura con rispetto verso il suo avversario.
Ovviamente inquadrature da perdere il fiato e movimenti di macchina da orgasmo in mezzo alle terre brulle dove Chato intrappolerà i suoi aguzzini.C'era il Vietnam allora e la coscienza della guerra era similmente opaca a quella del film. In questa maniera l'America guardava a se stessa.

di Gianluigi Perrone

HEAVEN'S SOLDIERS

Basterebbe anche solo il valore storico-culturale della trama per decretare un giudizio positivo nei confronti di questo
Heaven's Soldiers(Cheong Gun in originale),opera prima di Min Joon-ki ed ennesima riprova della egemonia tecnica della cinematografia Sud Koreana. Difatti la vicenda ci porta a riflettere sulla stragrande maggioranza di eventi bellici che hanno fatto la storia delle due Koree,dall'invasione Giapponese strenuemente affrontata da uno sparuto manipolo di soldati che,con uno scarto di uno a cento,riuscirono a mantenere libera la propria nazione,fino agli ancora attuali dissensi tra Nord Korea Comunista e Sud Korea repubblicana. Difatti siamo ai giorni nostri quando le due Koree stanno trovando un patto di non belligeranza rinunciando agli armamenti nucleari. Questo,oltre che dare rabbia agli States che,come il regista tiene a sottolineare,sono interessati al fatto che le due nazioni non si riuniscono,infastidisce anche l'ala più oltransista del regime comunista nordcoreano,qui rappresentato dall'ufficiale Kang Min Gil(Kim Seung Woo),che con uno sparuto gruppo di
reazionari deciderà di fare il colpaccio rubando la testata atomica. Il piano va quasi in porto se non fosse che vengono inseguiti da una task force sudcoreana a testa dell'ufficiale Park Jeong Woo (Hwang Jung Min,già visto in A Bittersweet
Life)che imbastirà un'incontro a fuoco mentre da lì passa una cometa dal ciclo cinquecentennale. Ovviamente la matrice fantascientifica del film vuole che gli effetti siano quanto più incredibili possibile tant'è che i sopravvissuti si ritrovano nella Korea del Sedicesimo secolo in mezzo alle orde barbare che massacrano i contadini dei villaggi. La pellicola a questo punto non può non ricordare l'effetto che fa l'inizio de L'Armata delle Tenebre con gli stessi retroscena comici che aveva Bruce Campbell verso i guerrieri medioevali. Infatti Min ha tutto l'interesse a tenere un buon equilibrio di azione e vis comica in questa prima parte che contiene un numero considerevole di divertentissime gag. La svolta comincerà ad arrivare nel momento in cui entra in scena Yi Sun Shin (Park Joong Hoon),sorta di Garibaldi Koreano tanto da comparire sulle
monete,esistito veramente e divenuto leggendario perchè divenuto ammiraglio a capo della flotta che difese coraggiosamente la Korea difronte all'invasione dei Giapponesi. Questo incontro inizialmente galvanizzerà i soldati del 21esimo secolo per poi ridimensionare la propria emozione nel momento di scoprire che l'ufficiale è un povero imbranato. I soldati cercheranno di donare dignità e coraggio al futuro ammiraglio,realizzando che i contrasti tra le due fazioni sono inutili e
cominciando a combattere sotto un'unica bandiera,contro i barbari,coraggiosamente fino alla morte. Nonostante Heaven's Soldiers sia un blockbuster dalla trama abbastanza prevedibile,stupisce la perizia tecnica di Min e soprattutto la sua sapiente capacità di saper dosare ironia,azione,sentimento e comicità. Il film passa con disinvoltura da momenti di comicità anche pecoreccia a un sincero patriottismo forse un pò retorico ma efficace. Pescando a piene mani da cult americani sui paradossi spazio-temporali(il già citato L'Armata delle Tenebre,la saga di Ritorno al Futuro etc.),Heaven's Soldiers riesce a diventare anche una meditata visione sui contrasti che tutt'oggi(forse ancora per poco)infiammano il 38° parallelo. Ovviamente non
siamo ai livelli di un Joint Security Area che prendeva l'argomento molto più seriamente e rivelava in Park mire ben più alte del mero successo commerciale,ma arriva alle stesse conclusioni:la Korea è un unico stato e i contrasti tra gli eserciti si fondano sul nulla se rapportati al coraggio dei guerrieri che la resero libera e che l'avrebbero voluta unita. Retorico ma sicuramente vero.

di Gianluigi Perrone