Un filone molto sfruttato dal cinema americano è quello con tematiche carcerarie. “Incatenato all’inferno” ,tuttavia,pur potendosi far risalire a questo filone,risulta essere un film di più ampio respiro. La storia ,reale e biografica, del protagonista, finisce per essere una tortuosa rappresentazione di quel self made man che è l’incarnazione stessa del “sogno americano”. Il reduce Robert Elliot Burns , che, alla fine della prima Guerra Mondiale, si ritrova vittima della depressione che aveva investito gli Stati Uniti,finisce per divenire uno dei tanti diseredati che vagavano nascosti sui treni di città in città,sperando di trovare un lavoro o di racimolare qualche spicciolo. Nella propria ricerca di una opportunità,però, il giovane si ritroverà invischiato in una rapina,finendo per essere condannato a dieci anni di lavori forzati nello Stato della Georgia. Il film ci catapulta in un vero inferno sulla terra,quello delle colonie penali del profondo Sud, il lato oscuro della Dixie Land,dove la vita di un uomo vale meno di nulla. Qui Burns scoprirà il lato bestiale e malvagio dell’animo umano, incarnato dal direttore Hardy (un immenso e sudaticcio Charles Durning)e dai suoi scagnozzi. Da questo posto mefitico ed inumano,però,il giovane reduce riuscirà a fuggire per tentare di crearsi una nuova identità e di ricostruire la propria vita; da un suo romanzo si darà il via a quel processo civile che porterà alla riforma delle colonie penali. Un film che tocca molte tematiche,dunque: dalla ingenerosità dell’America nei confronti dei propri reduci, al tema dei delitti e delle pene,il tutto supportato da una colonna sonora folk blues e spiritual,cantata a squarciagola dai detenuti per scandire il ritmo delle picconate. Ultima menzione,doverosa, va al personaggio del vecchio Pappy Glue, Interpretato da Elisha Cook.
Di Andrea Scalise
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