Si, Tim Roth ormai lo conoscono tutti, il fattorino schizofrenico ed esaltato di FOUR ROOMS, uno dei rapinatori in LE IENE o la sua parte da ladruncolo mentalmente disturbato e sfigatissimo in PULP FICTION. La sua recitazione stilisticamente è multiforme, interpreta svariati personaggi e dimostra una plasticità facciale non indifferente. Anche il suo primo film e attualmente unico da regista, ZONA DI GUERRA, rispecchia questa varietà di gusti che lo caratterizzano, l’imprevedibilità in tutto quello che fa. Conosciuto in tutto il mondo per atteggiamenti solitamente anfetaminici, qui dimostra il contrario nel suo primo lavoro dietro la macchina da presa, rimanendo dietro le quinte senza mettere il naso nel cast. ZONA DI GUERRA, film dal titolo inizialmente fuorviante, ma che durante la visione assume una connotazione drammatica, estremamente drammatica. La guerra non centra nulla nel soggetto, tratto da un romanzo omonimo di Alexander Stuart, o meglio è una guerra psicologica che attacca lo stesso spettatore con tematiche crude ma estremamente reali. Il tutto è ambientato in Gran Bretagna, in una casa isolata di un paesino isolato di un territorio isolato, per farvi capire siamo in luoghi molto simili alla brughiera di UN LUPO MANNARO AMERICANO A LONDRA. La camera segue per tutta la durata del film le vicende di una famiglia trasferitasi in mezzo al nulla da Londra, con i problemi ovvi di adattamento sociale che ne derivano, un padre che ha un lavoro in bilico e un’ unità familiare invidiabile forse dettata dall’amore e la fiducia della moglie nei confronti del marito, ma è tutto poco convincente, quasi artificiale. Solo il figlio maschio a differenza della sorella che sembra fregarsene di tutto, ha uno sguardo critico nei confronti della famiglia anche se sembra il meno preparato nel proferire critica alcuna. Si respira umidità guardando questo film, il cielo è sempre plumbeo, la nebbia è in agguato e la famiglia in questione non riesce a riscaldare l’animo sebbene ci provi in tutti i modi, vi è qualcosa che non va, di marcio, più della stesso territorio lugubre sebbene affascinante. Roth riesce a esprimere al meglio questa instabilità quasi impalpabile, ma comune percettibile, giocando con i tipici problemi adolescenziali dei figli per quasi tutta la durata del film, scoprendo poco a poco attraverso gli occhi del figlio maschio, quello che verso la fine sarà chiaro e che si sospettava con incredulità già varcando la soglia del secondo tempo. Un film molto curato, elegante nonostante la crudezza e che non ha paura di dire le cose come stanno e mostrare cose che colgono di sorpresa tutti, nessuno escluso.
di Davide Casale
Sunday, May 27, 2007
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