Wednesday, April 16, 2008

House of the dead (2003) di Uwe Boll


Parlare di “House of the dead” non è facile, soprattutto se stai per parlarne bene. Ci sarà sicuramente qualche neofita del genere horror con la puzza sotto il naso a martellarti i coglioni con le sue idee sul bello o sul brutto cinematografico o i veterani, saccenti critici della vecchia guardia a storcere il naso con la bocca piena di paroloni e nomi dei bei tempi che furono e non torneranno più come Fulci, Romero e Jackson. Approccio senz’altro sbagliato per rapportarsi al lavoro di Boll che è cosciente di una propria “stupidità” narrativa, anzi la usa a suo vantaggio per giocare coi clichè del cinema della paura senza scendere nella facile parodia, ma imbastendo un gioco meta filmico mai banale dove titoli e situazioni da film e telefilm famosi tornano anche nei nomi dei personaggi (Capitano Kirk, Casper, Mcgyver). E’ un gioco che se non preso seriamente diverte e sa persino stupire, il primo cine game che non si limita a riproporre situazioni giocate, ma ne viene contaminato diventando per assurdo un’operazione quasi cronenberghiana di nuova carne e pixel. In “House of the dead” quindi la lunghissima e detestata sparatoria in bullet time diventa occasione non solo per portare sullo schermo sensazioni vissute davanti al pc e la console, ma proprio per inumanizzare personaggi già bidimensionali in una sorta di invasione del videogame all’interno del film. E’ cinema per certi versi avanguardistico che si fa beffe delle semplici regole cinematografiche in una sorta di anarchia visiva che sovrasta il linguaggio cinematografico consono per essere cinema “oltre” con le sue valenze negative o positive. Dal canto suo Boll non gira male, anzi risulta persino elegante nelle parti meno selvagge di “House of the dead”. Stupisce che pochi conoscitori del cinema bis si siano accorti dei numerosi omaggi che il regista fa ai film italiani sui morti viventi dagli zombi acquatici di “Zombi 2” alle atmosfere e persino alle luci, ai colori, alle situazioni di “After death” di Fragasso con questa nebbia sempre opprimente e almeno una scena rifatta pedissequamente (il petto squarciato da un pugno). A Boll però sembra interessare più il genere avventuroso (e con “Alone in the dark” sarà più evidente) che il superficiale cotè horror con zombi dinoccolati (Zombi 3?) e sangue cannibale. Riverenza nei dialoghi verso George A. Romero e la sua Santa trilogia (ormai arrivata a 5 capitoli) in un film che è l’opposto del classicismo romeriano. A suo modo un classico.


di Andrea Lanza

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