Esistono film che non hanno un vero e proprio genere, vivono il limbo di una dimensione tutta loro, particolare e sfrontatissima. Postal di Uwe Boll è uno di questi, anzi è già sulla strada per essere l’esempio più eclatante di un nuovo non genere. Ad occhio superficiale Postal è un’opera come tante, demenziale, sciocca, leggera, non diversa dai facili prototipi di Abraham e Zucker come “L’aereo più pazzo del mondo” o “La pallottola spuntata”; in realtà molteplici sono gli umori che scorrono attraverso le immagini, a volte eccessivamente grottesche a volte di un cinico tendente all’autodistruttivo, fino ad arrivare a far divenire Postal forse l’opera più smaccatamente politica e antiamericana del nuovo millennio. Dimentichiamo le urla col dito puntato di Michael Moore o un certo cinema anche italiano di denuncia (i vari Martinelli, Ferrara e Placido), nel film di Uwe Boll ci troviamo in una dimensione di completa anarchia visiva, visionaria e perché no narrativa fin dalle prime scene; è un altro cinema, quasi lynchiano nella struttura, dove ogni nostra convinzione o idea viene sovvertita da un luna park di surrealismo sfrontato e devastante. Benvenuti quindi nel Paese degli orrori: l’America. La storia, sfilacciata e semplice, è quella di un uomo comune che si trova invischiato in un complotto terroristico talebano atto alla fine del mondo. Ecco, ma ridurre Postal in una linea di sceneggiatura, che sì e no sarà stata scritta in una paginetta, è svilente perché la critica di un sistema come quello americano, veloce, superficiale, tendente all’autismo delle persone in una concezione più grande di macchina sociale, è a livelli così alti da lasciare basiti. Uwe Boll usa la carta del nonsense per parlare di disagi, di un Paese che dopo l’11 Settembre si sente stuprato di certezze, che usa la violenza del razzismo per combattere l’odio razziale, creando forse la macchina cinema più folle dai tempi del capolavoro ridanciano “Hellzapopping” di Henry C. Potter. L’umorismo di Postal, molto fumettoso e folle, ricorda a tratti il cinismo de “I Simpson”, ma lo amplifica mettendo in scena in un mondo allo sbando dove non esiste pietà per nessuno né invalidi né bambini, l’America è madre cannibale che divora i propri figli e arriva ad usare, a suo beneficio, i resti di una strage per imbastire un telegiornale di lacrime esclusivamente a scopo di odience. Postal è secondo le intenzioni provocatorie del regista “il diretto concorrente di Indiana Jones”, ma è probabilmente solo un’altra provocazione perché nulla né a livello concettuale né a livelo spettacolare potrebbe unire questo film alla saga avventurosa di Spielberg. Un suicidio commerciale sicuramente anche alla luce dell’ultima immagine dove ci vengono mostrati Bin Adel e George W. Bush correre mano nella mano verso una deflagrazione atomica che porta inequivocabilmente alla parole fine nel senso più assoluto. Da amare o da odiare, chi scrive però vede in Postal i segni di un genio che da anni manca al cinema contemporaneo, troppo impegnato ad essere autore per riuscire a parlare con semplicità di temi importanti e attualissimi. Cammeo del regista nel ruolo di… se stesso.
di Andrea Lanza
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