di Gianluigi Perrone
Thursday, April 17, 2008
DIETRO LO SPECCHIO (BIGGER THAN LIFE) di Nicholas Ray (1956)
di Gianluigi Perrone
SEXY BEAST di Jonathan Glazer (2000)

di Gianluigi Perrone
HATCHET di Adam Green (2007)

di Gianluigi Perrone
Das erste semester (1997) di Uwe Boll

College movie alla Uwe Boll che ormai liberatosi del suo socio Frank Lusting può dare sfogo alle sue idee personalissime di stile e regia. “Das erste semester” è apparentemente un passo più commerciale rispetto ad “Amoklauf” con i suoi studenti goliardici e pruriti giovanili da “Porky’s” teutonico, ma è solo una facciata perché tra le righe si ritorna a parlare di solitudine, di un sistema che tende ad omologarti al di là dei tuoi sogni, questa volta in maniera più velata certo dello strabordante e strillato “German fried movie”, ma con la stessa carica di critica esplosiva. La storia è quella, semplice, di un ragazzo che, dopo avere ereditato una fortuna, decide di iscriversi al primo semestre dell’Università e lì cercare la donna della sua vita, ma il patrigno cercherà di mettere le mani sui soldi del giovane rovinandogli tutti i suoi piani. In mezzo a questo semplice plot Boll si sbizzarrisce in una regia sempre più sicura rispetto agli esordi e a tratti persini virtuosistica, mai convenzionale, primi semi di una cifra stilistica difficilmente omologabile di anarchico del cinema. Gli attori sono volenterosi quanto basta per evitare il fastidioso senso di amatorialità della precedente commedia tra cui spicca per bellezza e bravura la fulgida e sensuale Radost Bokel, già vista nel film fantasy italo tedesco “Momo” di Johannes Schaaf.
di Andrea Lanza
Barschel - Mord in Genf? (1993) di Uwe Boll e Frank Lusting

Secondo film (codiretto) di Uwe Boll e secondo tentativo, in parte migliore rispetto a “German fried movie”, di opera politica che cerca di portare alla luce uno dei fatti di cronaca nera più misteriosi e scomodi della storia della Germania. Era l’11 Ottobre del 1987 quando Uwe Barschel, capo del governo democristiano dello Schleswig Holstein, dimissionario in seguito alla denuncia di Pfeiffer, fu trovato una stanza dell'albergo Beau Rivage di Ginevra immerso con i vestiti ancora addosso in una vasca da bagno piena d'acqua. Deceduto sembra per suicidio con la gola piena di sedativi, i motivi del gesto non vennero chiariti del tutto dalla polizia. Da questo fatto reale nasce “In Barschel - Mord in Genf?” di Uwe Boll e Frank Lusting, dove si tracciano ipotesi anche non banali sulle presunte cause della morte del politico tedesco. Il film è sicuramente interessante nell’idea meta filmica di raccontare la vicenda attraverso un progetto di due registi e un produttore di girare un film sulla vicenda. Boll e Lusting riescono a tratteggiare con originalità la storia di un uomo che è andato a patti con i suoi demoni, che è stato travolto da un ciclone di cospirazioni politiche non seconde a quelle del Watergate, e che è stato sacrificato dai suoi stessi soci in affari. In “Barschel - Mord in Genf?” però l’eccesso di logorrea nel descrivere il film nel film e un senso di amatorialità, forse anche voluta, minano il risultato finale dell’opera che alla fine risulta meno interessante delle sue premesse. Peccato perché sicuramente con un budget adeguato “In Barschel - Mord in Genf?” sarebbe stato un film importante e all’altezza delle sue meritevoli intenzioni.
Curiosità: lo stesso Uwe Boll fa un cammeo nella pellicola come spettatore addormentato di un cinema
di Andrea Lanza
German fried movie (1991) di Uwe Boll e Frank Lusting
Primo film di Uwe Boll e satira feroce di una certa società che vive in funzione di talk show e futili miti da mangiare e divorare subito. Co-diretto (come tutti i suoi primi passi registici) dall’amico e collega Frank Lusting, il film risulta essere un ibrido di intenzioni e messa in scena, ancora acerba e rozza. “German fried movie” è forse indigeribile per un pubblico non teutonico, ma ancora di più lo saranno le commedie successive, importanti solo per capire l’ecletticità di un autore tacciato molte volte come superficiale e banale. Sono però i primi passi che faranno scoppiare le stragi di “Amoklauf” e “Heart of America” e che condurranno a poco a poco verso il Boll touch dei videogame, qui in maniera ancora seminale, ma non invisibile. “German fried movie” è una serie di scene tenute su da un sottile filo, un po’ come sarà il successivo “Postal”, alcune azzeccate (la scena del ponte dei suicidi) altre un po’ tirate, ma comunque tutte all’insegna di una certa ferocia nel disegnare la Germania. Spicca il divertimento di tratteggiare uno stato come quello tedesco con dei moti ancora sotterraneamente nazisti con frasi come “La Germania ai tedeschi” e che trova spazio per il comunismo solo grazie a delle belle lesbiche dal cuore rosso bolscevita. Peccato che, come già detto, molte volte il tutto si limiti soltanto ad una satira superficiale, raramente graffiante, contraddistinta però da una forte dose di cattiveria e scorrettezza. Il problema di “German fried movie” è soprattutto di pagare una sceneggiatura non elaboratissima, che sembra andare avanti ad inerzia (l'idea della tv spazzatura come collage alla lunga stanca), non aiutata purtroppo neppure da bravi attori, e che alla lunga annoia anche lo spettatore più paziente. “German fried movie” non si può considerare un bel film , ma è comunque un’esperimento per le prove successive del regista.
Curiosità: German fried movie (con ovvio riferimento al quasi omonimo esordio di John Landis), secondo le testimonianze dello stesso Boll, raggiunse la quarta posizione al box office tedesco nonostante fosse stato autoprodotto e autodistribuito con mezzi amatoriali.
di Andrea Lanza
Amoklauf (1994) di Uwe Boll

La vita di un Signor nessuno è intervellata da piccoli momenti: il cibo, il lavoro, film di esecuzioni usati come porno per bipassare la sfera sessuale. Ma l’uomo comune ha rabbia dentro e presto sfocerà nel sangue di massa.
Esordio solitario shock alla regia per Uwe Boll nel 1994 in una pellicola all’apparenza lontana da quelli che saranno i suoi film più celebri. “Amoklauf” è figlio del bellissimo “Schramm” di Buttgereit, ma non ne è un clone, anzi riesce a prendere strade innovative in un contesto sicuramente simile. Rispetto a Buttgereit il film di Boll è meno violento graficamente, ma non per questo meno disturbante. L’odissea del nostro uomo comune, con un lavoro svilente, è soprattutto una storia di alienazione mentale e terribile solitudine. La follia del protagonista sfocia a poco a poco davanti a stupidi talk show che si trasformano in maniera quasi armonica in immagini di estenuanti esecuzioni. Il sesso pur se cercato nelle prime immagini con la violenza diventa orgasmo solo in questo caso di pornografia della morte. Da lì a poco l’isolamento del protagonista viene interrotto con una coltellata ai danni della bella vicina e devastato con una strage di massa che rende quel desiderio di morte non più piacere personale, ma sociale. L’unico modo per rapportarsi con gli altri sembra essere solo l’omicidio, il riuscire a risaltare da una massa tutta uguale risplasmando quella stessa massa a nostro volere così come faceva lo psicopatico di “Schramm” con le sue vittime in una sorta di nuova carne cronenberghiana o come farà Zack Wardh nell'ironico "Postal". “Amoklauf” è un film crudo, disperatissimo che tocca corde di nichilismo estremo nei confronti di una società che tenta di schiacciare i più deboli, dove la violenza è l’unico modo per essere qualcuno. Il tocco di Uwe Boll già comincia a notarsi soprattutto nelle lunghe scene al rallenti della strage finale o nella fascinazione per la morte come estetica che avrà in anni recenti il suo massimo sfogo nel bellissimo “Seed”. “Amoklauf” è un film a bassissimo costo, ma ricco di idee e spunti, forse materia non esportabile o commerciale, ma interessante come poche.
Esordio solitario shock alla regia per Uwe Boll nel 1994 in una pellicola all’apparenza lontana da quelli che saranno i suoi film più celebri. “Amoklauf” è figlio del bellissimo “Schramm” di Buttgereit, ma non ne è un clone, anzi riesce a prendere strade innovative in un contesto sicuramente simile. Rispetto a Buttgereit il film di Boll è meno violento graficamente, ma non per questo meno disturbante. L’odissea del nostro uomo comune, con un lavoro svilente, è soprattutto una storia di alienazione mentale e terribile solitudine. La follia del protagonista sfocia a poco a poco davanti a stupidi talk show che si trasformano in maniera quasi armonica in immagini di estenuanti esecuzioni. Il sesso pur se cercato nelle prime immagini con la violenza diventa orgasmo solo in questo caso di pornografia della morte. Da lì a poco l’isolamento del protagonista viene interrotto con una coltellata ai danni della bella vicina e devastato con una strage di massa che rende quel desiderio di morte non più piacere personale, ma sociale. L’unico modo per rapportarsi con gli altri sembra essere solo l’omicidio, il riuscire a risaltare da una massa tutta uguale risplasmando quella stessa massa a nostro volere così come faceva lo psicopatico di “Schramm” con le sue vittime in una sorta di nuova carne cronenberghiana o come farà Zack Wardh nell'ironico "Postal". “Amoklauf” è un film crudo, disperatissimo che tocca corde di nichilismo estremo nei confronti di una società che tenta di schiacciare i più deboli, dove la violenza è l’unico modo per essere qualcuno. Il tocco di Uwe Boll già comincia a notarsi soprattutto nelle lunghe scene al rallenti della strage finale o nella fascinazione per la morte come estetica che avrà in anni recenti il suo massimo sfogo nel bellissimo “Seed”. “Amoklauf” è un film a bassissimo costo, ma ricco di idee e spunti, forse materia non esportabile o commerciale, ma interessante come poche.
di Andrea Lanza
Wednesday, April 16, 2008
Heart of America (2003) di Uwe Boll
Titoli di testa.
Il corridoio è buio. Siamo in una scuola. La telecamera di sorveglianza inquadra dall’alto una sagoma scura che si avvicina. Fotografia sgranatissima da documentario di guerra. La musica è un sottofondo di classica che spazza da Mozart a Vivaldi. La figura ora la possiamo vedere in tutta la sua interezza: è un ragazzo giovanissimo, punta il fucile a pompa contro i nostri occhi. Bam. Musica metal pesantissima. Comincia il massacro.
La pellicola girata nel 2003 e ispirata alle sanguinose vicende del massacro di Colombine è il primo passo per Boll per emergere dalla massa dei registi direct to video, il suo tocco in quest'opera ricorda il precedente “Amoklauf” dove la solitudine sfociava in violenza disperata. Il suo film vale più del famoso “Elephant di Gus Van Sant” o del cinico “Bowling of Columbine” di Michael Moore. Dove Gus Van Sant si perde in un formalismo estetico a base di carrellate o soggettive insistite, di inutili scene gay, “Heart of America” è soprattutto un dramma dai toni quasi elisabettiani che riesce davvero a parlare con sincerità di una tragedia tanto grande. La regia di Boll rispetto a Van Sant è più sensazionalista certo, ma anche più efficace, non si perde in una sorta di carineria auto contemplativa, ma arriva dritto al nodo del dramma con scene efficaci e un alto tasso di introspezione psicologica dei personaggi. Anche il reparto attori è in stato di grazia con delle ottime perfomance di Clint Howard, Michael Parè e un inedito Jurgen Prochow nel ruolo di un padre disperato. Boll è un regista tedesco, quindi estraneo ai fatti, riesce a guardare con sguardo alieno il sistema americano che sottomette e cannibalizza i propri figli. Tra Mac Donald’s e Blockbuster la strage si compie, l’odio adolescenziale esplode graficamente con perizia balistica contro i nostri stessi simili. Cane mangia cane. Siamo nella stessa America che ha creato la Tiger force in Vietnam, che ha nascosto il plutonio nelle vene di Eda Schultz Charton. L’ultima frase prima di uno sparo in “Heart of America” è “Ti odio madre”. Bam. Di questo sangue siamo tutti sporchi.
“Heart of America” è un calcio violento. Molto più cattivo, disincantato e anarchico di qualsiasi altra cosa ci saremmo aspettati. Ed è abbastanza esplicativo di come in Italia un film del genere non sia mai uscito neppure nelle ore più scure. Più facile ridere di morti viventi tranciati da effetti alla “Matrix” che portare nelle nostre case l’orrore più scomodo e reale. Pulp fiction in salsa combat film. L’orrore siamo noi. Sempre.
Il corridoio è buio. Siamo in una scuola. La telecamera di sorveglianza inquadra dall’alto una sagoma scura che si avvicina. Fotografia sgranatissima da documentario di guerra. La musica è un sottofondo di classica che spazza da Mozart a Vivaldi. La figura ora la possiamo vedere in tutta la sua interezza: è un ragazzo giovanissimo, punta il fucile a pompa contro i nostri occhi. Bam. Musica metal pesantissima. Comincia il massacro.
La pellicola girata nel 2003 e ispirata alle sanguinose vicende del massacro di Colombine è il primo passo per Boll per emergere dalla massa dei registi direct to video, il suo tocco in quest'opera ricorda il precedente “Amoklauf” dove la solitudine sfociava in violenza disperata. Il suo film vale più del famoso “Elephant di Gus Van Sant” o del cinico “Bowling of Columbine” di Michael Moore. Dove Gus Van Sant si perde in un formalismo estetico a base di carrellate o soggettive insistite, di inutili scene gay, “Heart of America” è soprattutto un dramma dai toni quasi elisabettiani che riesce davvero a parlare con sincerità di una tragedia tanto grande. La regia di Boll rispetto a Van Sant è più sensazionalista certo, ma anche più efficace, non si perde in una sorta di carineria auto contemplativa, ma arriva dritto al nodo del dramma con scene efficaci e un alto tasso di introspezione psicologica dei personaggi. Anche il reparto attori è in stato di grazia con delle ottime perfomance di Clint Howard, Michael Parè e un inedito Jurgen Prochow nel ruolo di un padre disperato. Boll è un regista tedesco, quindi estraneo ai fatti, riesce a guardare con sguardo alieno il sistema americano che sottomette e cannibalizza i propri figli. Tra Mac Donald’s e Blockbuster la strage si compie, l’odio adolescenziale esplode graficamente con perizia balistica contro i nostri stessi simili. Cane mangia cane. Siamo nella stessa America che ha creato la Tiger force in Vietnam, che ha nascosto il plutonio nelle vene di Eda Schultz Charton. L’ultima frase prima di uno sparo in “Heart of America” è “Ti odio madre”. Bam. Di questo sangue siamo tutti sporchi.
“Heart of America” è un calcio violento. Molto più cattivo, disincantato e anarchico di qualsiasi altra cosa ci saremmo aspettati. Ed è abbastanza esplicativo di come in Italia un film del genere non sia mai uscito neppure nelle ore più scure. Più facile ridere di morti viventi tranciati da effetti alla “Matrix” che portare nelle nostre case l’orrore più scomodo e reale. Pulp fiction in salsa combat film. L’orrore siamo noi. Sempre.
di Andrea Lanza
Sanctimony (2001) di Uwe Boll

Pochi film sono fregature tanto grosse da voler cercare il regista per flagellarlo: una di questi è sicuramente “Sanctimony”. Credo di essere uno degli estimatori più grandi del regista Uwe Boll, ma il mio primo approccio con lui anni fa non è stato dei migliori, questa sua pellicola paratelevisiva ha acceso il mio malcontento come poche altre. “Sanctimony” è forse l’unico passo completamente sbagliato della carriera del regista: certo di film indigesti ce ne saranno (Alone in the dark), ma nel bene o nel male tutti porteranno il marchio del regista, la sua poetica d’anarchia visiva. Qui invece la regia di Uwe Boll è anonima, addormentata, piatta, imbelle nel rappresentare una storia che non si vergogna di clonare “American psycho” senza ritegno. Abbiamo il pessimo Casper Van Dien, reduce dal grandissimo successo di Verhoeven “Straship trooper” e chissà perché coinvolto a recitare qui, nei panni di un broker di successo con qualche vizietto nascosto. Infatti il nostro Casper di notte si aggira come un’anima persa nei night club più hot in certa di nuove emozioni e, capitato per sbaglio in uno strano rituale di maschere con tanto di omicidio ai fini di snuff, si sente pronto per uccidere a sua volta. Attenzione ho detto che il film scimmiotta il grande libro di Brett Easton Ellis sullo psicopatico Patrick Bateman, ma se cercate in questo lavoro di Boll le stesse atmosfere, lo stesso vuoto pneumatico che sfocia da nichilismo in violenza efferrata del capolavoro su carta, beh avete sbagliato tutto. Qui abbiamo solo un cretino senza alcun fascino che commette omicidi solo perché Dio sa, che se la prende tra tutti con un super sbirro incazzato quando gli tocca la famiglia. Bel pirla aggiungerei pure. “Sanctimony” è un filmaccio davvero meritevole di essere nei cestoni di qualche supermercato a pochi euro, indegno dell’estro che da lì a poco Boll sfoggerà con violenza quasi devastante nelle sue opere future. Nel cast si salva solo un convincente Michael Parè e un paio di sequenze (la scena delle maschere su tutte) girate con una certa professionalità. Ma è poca cosa in un film da dimenticare presto senza rimpianti.
di Andrea Lanza
Blackwoods (2002) di Uwe Boll

Una gita con la sua fidanzata tra i boschi porta un giovane, Matt, a fare i conti con un passato che forse non è come crede che sia.
Prima dei famosi film che nel bene o nel male daranno fama a Boll c’è stato un periodo che il regista tedesco muoveva i primi passi nelle piccole produzioni con film interessanti come “Heart of America” e obbrobri come “Sanctimony”. “Blackwoods” è un film particolarissimo, uno dei migliori risultati di Uwe Boll nel campo del thriller horror. Merito anche dello sceneggiatore che più di altri saprà assecondare l’estro visionario del regista con delle ottime sceneggiature, Robert Dean Klein. Forse il miglior epigono de “Il sesto senso”, “Blackwoods” vive una sua particolarissima dimensione di thriller soprannaturale a scatole cinesi, completamente imprevedibile, con una storia che trova la sua comprensione solo nel finale. “Blackwoods” non cerca mai facili strade, ma riesce a spaventare e a rendere efficace una tensione che nasce soprattutto dai dedali della mente umana. Si parla certo di fantasmi e di vendette, ma tutto in una sorta di estetica della visione fallace dove il regista e il suo occhio (divino?) diventano unici portatori di una verità assoluta anche nella menzogna. Mai la regia di Boll è stata così elegante, senza mai svaccare in un virtuosismo che nei futuri film diventerà a volte ostentazione di un grandissimo stile fine a se' stesso. Grandissimi momenti di commozione, quasi da ghost story romantica, nell’ultima sequenza dove passato e presente, colpa e pentimento, si incontrano nella tragica deflagrazione di un incidente stradale, dove per qualche istante nell’iride di chi muore resta impressa la speranza di un amore. Ecco “Blackwoods” è anche una non storia d’amore dove tutto potrebbe essere tutto e per colpa del destino non è. Il cast è composto da vecchie glorie del cinema come fu come Clint Howard, fratello del più noto Ron e già nel cast di “House of the dead” e soprattutto Michael Parè, che nei primi anni 80 era promessa di gloria hollywoodiana e ora, come un pugile suonato, si aggira in produzioni di serie B. Ma ringraziando Dio di questo perché solo nelle mani di Boll Parè da’ il meglio di se’.
Prima dei famosi film che nel bene o nel male daranno fama a Boll c’è stato un periodo che il regista tedesco muoveva i primi passi nelle piccole produzioni con film interessanti come “Heart of America” e obbrobri come “Sanctimony”. “Blackwoods” è un film particolarissimo, uno dei migliori risultati di Uwe Boll nel campo del thriller horror. Merito anche dello sceneggiatore che più di altri saprà assecondare l’estro visionario del regista con delle ottime sceneggiature, Robert Dean Klein. Forse il miglior epigono de “Il sesto senso”, “Blackwoods” vive una sua particolarissima dimensione di thriller soprannaturale a scatole cinesi, completamente imprevedibile, con una storia che trova la sua comprensione solo nel finale. “Blackwoods” non cerca mai facili strade, ma riesce a spaventare e a rendere efficace una tensione che nasce soprattutto dai dedali della mente umana. Si parla certo di fantasmi e di vendette, ma tutto in una sorta di estetica della visione fallace dove il regista e il suo occhio (divino?) diventano unici portatori di una verità assoluta anche nella menzogna. Mai la regia di Boll è stata così elegante, senza mai svaccare in un virtuosismo che nei futuri film diventerà a volte ostentazione di un grandissimo stile fine a se' stesso. Grandissimi momenti di commozione, quasi da ghost story romantica, nell’ultima sequenza dove passato e presente, colpa e pentimento, si incontrano nella tragica deflagrazione di un incidente stradale, dove per qualche istante nell’iride di chi muore resta impressa la speranza di un amore. Ecco “Blackwoods” è anche una non storia d’amore dove tutto potrebbe essere tutto e per colpa del destino non è. Il cast è composto da vecchie glorie del cinema come fu come Clint Howard, fratello del più noto Ron e già nel cast di “House of the dead” e soprattutto Michael Parè, che nei primi anni 80 era promessa di gloria hollywoodiana e ora, come un pugile suonato, si aggira in produzioni di serie B. Ma ringraziando Dio di questo perché solo nelle mani di Boll Parè da’ il meglio di se’.
di Andrea Lanza
NB In una sequenza il protagonista Patrick Muldoon sta giocando al videogame GTA 2. La passione di Boll per i videogiochi era già accesa in quegli anni.
Bloodrayne 2: deliverance (2007) di Uwe Boll

Selvaggio west alla mescalina. Pazzo, folle, completamente fuori dai binari ordinari. Uwe Boll non si è di certo arrabbiato sulla definizione che molti fan gli hanno affibbiato di “Ed Wood del cinema moderno”. E imbastisce proprio una storia che sulla carta ricorda certi Z movie che avrebbero fatto gola al regista di “Plan 9 from outer space”. “Bloodrayne 2” è un sequel non sequel della precedente pellicola, mette in scena la stessa dhampyra all’interno di un contesto diverso, non più medioevo ma western, ma lo fa non rispettando una continuità. Lei, la straniera senza nome, metà umana e metà vampira, ha persino il volto di un’altra attrice, predilige le pistole piuttosto che le lame classiche e non ha più nulla che l’accumuli al personaggio del videogame omonimo. Boll gira un film inneggiante al vecchio spaghetti western assolutamente originale che si pone come re del genere ibrido cowboy e mostri. La trama vede un sanguinario Billy the kid vampiro tiranneggiare la città di Deliverance arrivando ad uccidere persino bambini per creare il suo regno del terrore. Arriveranno a salvare il mondo un manipolo di reietti dall’inferno, con il destino già segnato dalla morte, capitanati dalla bella Rayne. Non può mancare tra questi il leggendario Pat Garret, interpretato da un redivivo Michael Parè, affezionato delle produzioni del regista. “Bloodrayne 2” è un film sanguigno, crudo, che riesce a citare modelli aurei come Peckinpah senza svilirli. Basti pensare al lungo finale dove buoni o cattivi senza distinzione vengono crivellati da colpi e vanno inesorabili verso la morte. Delude un po’ la scelta dell’attrice protagonista Natassia Malthe, priva della carica di sensualità della bellissima Kristanna Locken, ma è poca cosa in un film che riporta alla luce vecchie follie cinematografiche fatte di incontri inverosimili fra personaggi storici e di finzione, come l’ormai cult “Billy The kid vs Dracula”. Tra gli attori spicca invece l’estroso Zack Ward che presterà il volto del folle personaggio principale dell’ancor più folle “Postal”. Un western sicuramente bizzarro, ma tutt’altro che disprezzabile, che paga a volte forse una messa in scena troppo televisiva, retaggio dell’idea di farne un pilot di un’ipotetica serie tv.
di Andrea Lanza
Bloodrayne (2005) di Uwe Boll

Dopo il flop di “Alone in the dark” Uwe Boll torna sempre a girare trasposizioni di videogame, ma in maniera più classica, con sceneggiature più articolate rispetto ai due film precedenti. “Bloodrayne” è il suo lavoro successivo, un’opera non esente da difetti, ma molto affascinante nel fare, come sempre nel cinema del regista, terrorismo con la maniera trattata. La storia del videogame, ambientata in epoca nazista, viene rispettata in parte, ma le libertà sono evidentissime a partire dalla cornice medioevale fino al cotè inedito di dramma familiare tra figlia e padre vampiro. Il risultato finale ricorda un ibrido tra i pupazzoni di “Buffy l’ammazzavampiri” e il romantico videogame/gioco di ruolo “Vampire the masque rade redemption”. Caso quasi unico nella filmografia del regista, il film è violentissimo con effetti speciali sanguinosissimi curati dal collega Olaf Ittenbach. E’ la sagra degli arti tagliati, delle teste decapitate, soprattutto nella director’s cut che amplifica queste scene shock in un nuovo finale che ripropone in pezzi più spinti delle scene horror. Boll azzecca il cast con un gruppo di attori che avrebbero fatto invidia a Tarantino: Michael Madsen, Michelle Rodriguez, il premio Oscar Ben Kingsley. A primeggiare su tutti la stupenda Dhampyra (metà umana e metà vampira) Kristanna Locken che ci regala sia una scena di sesso anomala contro le sbarre di una cella sia vari umori lesbo quando fronteggia belle fanciulle. Uwe Boll dimostra di avere una regia perfetta per il fantasy e costruisce una scena almeno da applauso: la fuga di Bloodrayne dal circo dove flashback e flashfoward si intrecciano. Se per assurdo è proprio il celeberrimo Kingsley ad essere il meno convincente del cast, con faccette da avanspettacolo, per il resto tutto fila liscia o quasi. I già accennati effetti speciali, truculenti come non mai, sono infatti abbastanza brutti e non molto convincenti, soprattutto a reparto make up. Ma “Bloodrayne” , pur se non possedendo la forza anarchica di un “Alone in the dark”, è molto piacevole e regala uno spettacolo d’altri tempi che avrebbe meritato più successo di quello che realmente ha avuto. Ma si sa i geni sono incompresi.
di Andrea Lanza
Alone in the dark (2004) di Uwe Boll

Peggio o forse meglio di “House of the dead” secondo gusti epidermici che con la critica cinematografica non hanno niente a fare. Alone in the dark è una giostra vorticosa spinta all’eccesso con suoni, sparatorie tanto astratte da essere o dementi o sublimi, con una macchina da presa che tenta l’impossibile in una sorta di virtuosismo tsuiharkiano. Se il nostro occhio viene appagato da una parte da un’estetica visiva tra le migliori del cinema moderno horror, dall’altra abbiamo una storia che si fa fatica a seguire, dialoghi che sono fastidiosamente stupidi, un intreccio appassionante quanto una nonnina in vestito sadomaso. Le due anime di un film disprezzato dai più, reo di avere pugnalato al cuore quanti si aspettavano una vera trasposizione del classico gioco per pc e console e invece si sono trovati una specie di Indiana Jones che incontra Stargate che incontra Relic. Ma la grandezza del film di Boll è di essere una grande opera non sense, azzerando storia e dialoghi, si assiste al più grande esperimento di horror visionario tratto da un videogame. Ormai non servono più, come in “House of the dead”, i fotogrammi presi dal videogioco omonimo, è il videogioco che contamina l’essenza cinematografica diventando una grande partita di cui noi siamo solo spettatori. Alone in the dark preso in quest’ottica da hellzappopping horror diventa un esperimento difficilmente riproducibile di videogame meta cinematografico, un esperimento di futurismo su pellicola che non ha precedenti né avrà successori. Se la regia di Boll è potentissima, qui a livelli da titano d’invenzioni, non si può dire lo stesso di un cast stralunato che rende ancora più bizzarra l’operazione. Tara Reid è buona forse solo per qualche porno con capre che la sodomizzano, Slater che reciti Amleto o Paperino ha la faccia sempre uguale, Dorff è più incapace del suo sempre basso standard. In mezzo a questo delirio la scena dove i due protagonisti scopano al ritmo di “Seven seconds” di Neneh Cherry: esilarante nella sua ironia da eiaculazione precoce. Inqualificabilmente perfetto.
NB La scena dove il nano viene sodomizzato da una legione di scimmie ninfomani in "Postal" sembra omaggiare in chiave comica la morte in questo film di Stephen Dorff.
di Andrea Lanza
House of the dead (2003) di Uwe Boll

Parlare di “House of the dead” non è facile, soprattutto se stai per parlarne bene. Ci sarà sicuramente qualche neofita del genere horror con la puzza sotto il naso a martellarti i coglioni con le sue idee sul bello o sul brutto cinematografico o i veterani, saccenti critici della vecchia guardia a storcere il naso con la bocca piena di paroloni e nomi dei bei tempi che furono e non torneranno più come Fulci, Romero e Jackson. Approccio senz’altro sbagliato per rapportarsi al lavoro di Boll che è cosciente di una propria “stupidità” narrativa, anzi la usa a suo vantaggio per giocare coi clichè del cinema della paura senza scendere nella facile parodia, ma imbastendo un gioco meta filmico mai banale dove titoli e situazioni da film e telefilm famosi tornano anche nei nomi dei personaggi (Capitano Kirk, Casper, Mcgyver). E’ un gioco che se non preso seriamente diverte e sa persino stupire, il primo cine game che non si limita a riproporre situazioni giocate, ma ne viene contaminato diventando per assurdo un’operazione quasi cronenberghiana di nuova carne e pixel. In “House of the dead” quindi la lunghissima e detestata sparatoria in bullet time diventa occasione non solo per portare sullo schermo sensazioni vissute davanti al pc e la console, ma proprio per inumanizzare personaggi già bidimensionali in una sorta di invasione del videogame all’interno del film. E’ cinema per certi versi avanguardistico che si fa beffe delle semplici regole cinematografiche in una sorta di anarchia visiva che sovrasta il linguaggio cinematografico consono per essere cinema “oltre” con le sue valenze negative o positive. Dal canto suo Boll non gira male, anzi risulta persino elegante nelle parti meno selvagge di “House of the dead”. Stupisce che pochi conoscitori del cinema bis si siano accorti dei numerosi omaggi che il regista fa ai film italiani sui morti viventi dagli zombi acquatici di “Zombi 2” alle atmosfere e persino alle luci, ai colori, alle situazioni di “After death” di Fragasso con questa nebbia sempre opprimente e almeno una scena rifatta pedissequamente (il petto squarciato da un pugno). A Boll però sembra interessare più il genere avventuroso (e con “Alone in the dark” sarà più evidente) che il superficiale cotè horror con zombi dinoccolati (Zombi 3?) e sangue cannibale. Riverenza nei dialoghi verso George A. Romero e la sua Santa trilogia (ormai arrivata a 5 capitoli) in un film che è l’opposto del classicismo romeriano. A suo modo un classico.
di Andrea Lanza
Tuesday, April 15, 2008
Seed (2008) di Uwe Boll

Max Seed è un serial killer e di quelli cattivi. Già il suo cognome fa capire quale sia la sua passione: guardare. A Seed piace torturare le sue vittime, lasciarle morire d’inedia per giorni, mesi, settimane davanti all’occhio spietato di una videocamera. Lo fa con donne, animali, persino neonati, che piangono, urlano e diventano polvere e ossa. Seed è il male, nulla può fermarlo, neppure la morte. Seppellito vivo dopo un’esecuzione il suo scopo sarà solo la vendetta più sanguinosa.
Questo nuovo horror di Uwe Boll cerca di superare un record: mettere in scena degli omicidi mai così sanguinosi in un’ottica della violenza voyeuristica che tocca su due piani prima l’assassino e poi noi spettatori. Fin dalle prime scene dove il killer assiste ad un esecuzione di volpi (materiale di repertorio naturalmente) si capisce che non siamo capitati nel solito horror game movie alla Uwe Boll con sparatorie infinite e zombi saltellanti. No, in “Seed” siamo all’inferno, un universo pieno di torture e sangue che scorre copioso. Se esiste un’estetica della morte nel nuovo cinema americano va cercata non tanto nei vari Hostel, ma in questo nuovo lavoro del regista teutonico. Il film è pervaso da un’atmosfera disperata, crudelissima. Ecco, appunto è la crudeltà a farla da padrone in una messa in scena sadica e spietata degli omicidi che non cadono mai nel bestiale inumano, ma in una sorta di nichilismo nei confronti della vita. “Seed” è un film autardiano dove la tortura è soprattutto crudele attesa di essa. Boll gira benissimo, con uno stile nervoso e la prevalenza della macchina a mano, sceglie ambienti malsani, oscuri, tagliati dai flash delle torce dei poliziotti nella sua opera più feroce, quasi riflesso d’animalesca rivolta verso tutti quelli l’hanno catalogato come regista pessimo e superficiale. In “Seed” esiste una sorta d’atemporalità nel narrare la vicenda: gli anni 70 sembrano mischiati ad elementi attuali in una sorta di postmoderno narrativo che serve a donare alla vicenda un’aria ancora più folle. “Seed” non è un film moralista, ma anzi si limita a mettere in scene omicidi in maniera quasi documentaristica e perché no pornografica senza prendere posizioni ne’ verso i buoni né berso il malvagio assassino. E’ un personaggio positivo il poliziotto che sotterra vivo il killer ancora vivo? O lo sono i secondini che prima di essere brutalmente asassinati da Seed lo umiliano? Seed è il lato scuro di ogni spettatore, la sua fama di vedere è oltre i talk show, oltre i film horror, oltre i documentari shock. Stupisce poi un finale plumbeo come pochi e con tocchi di bellezza estetica come la bambina urlante nell’occhio del padre. Il cast è ottimo, Michael Parè regala la sua performance più bella e sofferente da tanto, tanto tempo. Da vedere senza dubbio per poter rivalutare finalmente il nome di Uwe Boll. Lunga vita al re.
NB Circola su internet una versione di Seed da 79 minuti mortalmente tagliata da pesanti censure. Manca tra le altre cose una ferocissima sequenza dove Seed uccideva una vecchia a martellate. I tagli poi sono stati inferti con tanto dilettantismo da rendere a tratti incomprensibile la vicenda. Statene alla larga.
Questo nuovo horror di Uwe Boll cerca di superare un record: mettere in scena degli omicidi mai così sanguinosi in un’ottica della violenza voyeuristica che tocca su due piani prima l’assassino e poi noi spettatori. Fin dalle prime scene dove il killer assiste ad un esecuzione di volpi (materiale di repertorio naturalmente) si capisce che non siamo capitati nel solito horror game movie alla Uwe Boll con sparatorie infinite e zombi saltellanti. No, in “Seed” siamo all’inferno, un universo pieno di torture e sangue che scorre copioso. Se esiste un’estetica della morte nel nuovo cinema americano va cercata non tanto nei vari Hostel, ma in questo nuovo lavoro del regista teutonico. Il film è pervaso da un’atmosfera disperata, crudelissima. Ecco, appunto è la crudeltà a farla da padrone in una messa in scena sadica e spietata degli omicidi che non cadono mai nel bestiale inumano, ma in una sorta di nichilismo nei confronti della vita. “Seed” è un film autardiano dove la tortura è soprattutto crudele attesa di essa. Boll gira benissimo, con uno stile nervoso e la prevalenza della macchina a mano, sceglie ambienti malsani, oscuri, tagliati dai flash delle torce dei poliziotti nella sua opera più feroce, quasi riflesso d’animalesca rivolta verso tutti quelli l’hanno catalogato come regista pessimo e superficiale. In “Seed” esiste una sorta d’atemporalità nel narrare la vicenda: gli anni 70 sembrano mischiati ad elementi attuali in una sorta di postmoderno narrativo che serve a donare alla vicenda un’aria ancora più folle. “Seed” non è un film moralista, ma anzi si limita a mettere in scene omicidi in maniera quasi documentaristica e perché no pornografica senza prendere posizioni ne’ verso i buoni né berso il malvagio assassino. E’ un personaggio positivo il poliziotto che sotterra vivo il killer ancora vivo? O lo sono i secondini che prima di essere brutalmente asassinati da Seed lo umiliano? Seed è il lato scuro di ogni spettatore, la sua fama di vedere è oltre i talk show, oltre i film horror, oltre i documentari shock. Stupisce poi un finale plumbeo come pochi e con tocchi di bellezza estetica come la bambina urlante nell’occhio del padre. Il cast è ottimo, Michael Parè regala la sua performance più bella e sofferente da tanto, tanto tempo. Da vedere senza dubbio per poter rivalutare finalmente il nome di Uwe Boll. Lunga vita al re.
NB Circola su internet una versione di Seed da 79 minuti mortalmente tagliata da pesanti censure. Manca tra le altre cose una ferocissima sequenza dove Seed uccideva una vecchia a martellate. I tagli poi sono stati inferti con tanto dilettantismo da rendere a tratti incomprensibile la vicenda. Statene alla larga.
di Andrea Lanza
Sunday, April 13, 2008
Postal (2008) di Uwe Boll

Esistono film che non hanno un vero e proprio genere, vivono il limbo di una dimensione tutta loro, particolare e sfrontatissima. Postal di Uwe Boll è uno di questi, anzi è già sulla strada per essere l’esempio più eclatante di un nuovo non genere. Ad occhio superficiale Postal è un’opera come tante, demenziale, sciocca, leggera, non diversa dai facili prototipi di Abraham e Zucker come “L’aereo più pazzo del mondo” o “La pallottola spuntata”; in realtà molteplici sono gli umori che scorrono attraverso le immagini, a volte eccessivamente grottesche a volte di un cinico tendente all’autodistruttivo, fino ad arrivare a far divenire Postal forse l’opera più smaccatamente politica e antiamericana del nuovo millennio. Dimentichiamo le urla col dito puntato di Michael Moore o un certo cinema anche italiano di denuncia (i vari Martinelli, Ferrara e Placido), nel film di Uwe Boll ci troviamo in una dimensione di completa anarchia visiva, visionaria e perché no narrativa fin dalle prime scene; è un altro cinema, quasi lynchiano nella struttura, dove ogni nostra convinzione o idea viene sovvertita da un luna park di surrealismo sfrontato e devastante. Benvenuti quindi nel Paese degli orrori: l’America. La storia, sfilacciata e semplice, è quella di un uomo comune che si trova invischiato in un complotto terroristico talebano atto alla fine del mondo. Ecco, ma ridurre Postal in una linea di sceneggiatura, che sì e no sarà stata scritta in una paginetta, è svilente perché la critica di un sistema come quello americano, veloce, superficiale, tendente all’autismo delle persone in una concezione più grande di macchina sociale, è a livelli così alti da lasciare basiti. Uwe Boll usa la carta del nonsense per parlare di disagi, di un Paese che dopo l’11 Settembre si sente stuprato di certezze, che usa la violenza del razzismo per combattere l’odio razziale, creando forse la macchina cinema più folle dai tempi del capolavoro ridanciano “Hellzapopping” di Henry C. Potter. L’umorismo di Postal, molto fumettoso e folle, ricorda a tratti il cinismo de “I Simpson”, ma lo amplifica mettendo in scena in un mondo allo sbando dove non esiste pietà per nessuno né invalidi né bambini, l’America è madre cannibale che divora i propri figli e arriva ad usare, a suo beneficio, i resti di una strage per imbastire un telegiornale di lacrime esclusivamente a scopo di odience. Postal è secondo le intenzioni provocatorie del regista “il diretto concorrente di Indiana Jones”, ma è probabilmente solo un’altra provocazione perché nulla né a livello concettuale né a livelo spettacolare potrebbe unire questo film alla saga avventurosa di Spielberg. Un suicidio commerciale sicuramente anche alla luce dell’ultima immagine dove ci vengono mostrati Bin Adel e George W. Bush correre mano nella mano verso una deflagrazione atomica che porta inequivocabilmente alla parole fine nel senso più assoluto. Da amare o da odiare, chi scrive però vede in Postal i segni di un genio che da anni manca al cinema contemporaneo, troppo impegnato ad essere autore per riuscire a parlare con semplicità di temi importanti e attualissimi. Cammeo del regista nel ruolo di… se stesso.
di Andrea Lanza
Sunday, April 06, 2008
TUONO ROSSO The Great Skycopter Rescue di Lawrence Foldes (1978)
di Andrea Scalise
Thursday, April 03, 2008
PERDITA DURANGO di Álex de la Iglesia

di Davide Casale
LA COMUNIDAD di Alex De La Iglesia (2000)

Il cinema di Alex De La Iglesia non cita praticamente mai altri film, la sua peculiarità è l’originalità, ma non per questo mancano strizzate d’occhio a classici della settima arte, cose appena percettibili come alcune inquadrature che non possono che ricordarci Hitchcock e dei brevissimi momenti che ci rimandano alla mente gli zombi di un altro osservatore critico della società odierna, George A. Romero. Il regista in questo film si scatena con le sequenze interne e mette in campo un armamentario inesauribile di inquadrature, grandangoli, carellate e panoramiche sui condomini che sembrano quasi immagini surrealiste. La summa del suo stile registico viene esaltata da un impeccabile senso del tempo, infatti il montaggio è frutto di un lavoro certosino, ogni inquadratura è sfruttata al meglio in funzione dell’angoscia e il senso di oppressione che si amplificano mano a mano si va avanti con la visione, fino alla breve fuoriuscita a cielo aperto. I brevissimi esterni, che sono situati alla fine del film, sono formati da inquadrature calcolate in ogni minimo dettaglio, ricordandoci gli esterni girati come se fossero interni, con poco spazio al cielo, dei primi tre film di Marco Ferreri, quando lavorava a Madrid. Alex De La Iglesia è caustico e in questo film lo è ancora di più rispetto alle sue opere precedenti, si prende gioco dell’istinto umano muovendo i suoi personaggi come marionette sacrificabili in tutto e per tutto, non ci sono buoni o cattivi in questo film, ma solo condomini pieni di sorprese ed estranei che violano l’habitat infernale del condominio. E’ spaventoso come venga rappresentata la fobia umana per la ricchezza in questa tragedia di una dei più briosi e intelligenti registi viventi.
di Davide Casale
EL DIA DE LA BESTIA aka IL GIORNO DELLA BESTIA di Alex De la Iglesia (1995)

El Dia De La Bestia, come ama dire lo stesso regista è una commedia di azione satanica, con tocchi horror, una frenetica epopea in cui i tre protagonisti percorrono in lungo e in largo una piovosa Madrid nella serata-notte del giorno di Natale del 1995. A riunire questa sorta di trinità o novelli re magi, ci pensa il prete del trio, un bravissimo Álex Angulo nei panni di un prete studioso di sacre scritture, il quale dopo attenti calcoli scopre che l’anticristo nascerà a Madrid proprio in quel fatidico giorno. La gente si diverte, compra i regali per i propri cari, il consumismo ha un’ impennata e solo un uomo sa cosa sta per accadere, il male sta per nascere, conosce la data e la città, ma deve scoprire il luogo esatto. Per entrare in contatto con Satana deve peccare e appena giunto a Madrid si impegna nel fare tutto il male possibile. Entra di seguito in contatto con un grasso metallaro interpretato da Santiago Segura e con un esorcista-guaritore-ciarlatano che conduce un programma televisivo, un Italiano (guarda caso) interpretato da Armando De Razza. Questo trio è composto da persone caratterialmente e socialmente opposte, ma uniranno le loro forze e metteranno a repentaglio le loro vite per salvare il mondo!
E’ un tutto in una notte in una Madrid inquietante, crepuscolare, la pioggia fa quasi pensare che il diluvio universale abbia avuto inizio e che si prepari a seppellire il male che sta per nascere. Parallelamente agli eventi un gruppo di xenofobi inizia ad ammazzare gente emarginata lasciando come firma la scritta in spray “Limpia Madrid”, ossia “Pulisci Madrid”. Qui entra in campo la critica di Iglesia contro la xenofobia, in quegli anni oltretutto preoccupantemente in voga nella capitale Spagnola.
Il prete è coltissimo e molto intelligente, ma avendo vissuto in clausura e dietro ai libri per lungo tempo non ha nessuna esperienza col mondo reale, è una specie di angelo caduto dal cielo. Il metallaro è sciocco ma buono e fedele, inizialmente assiste il prete per pura noia, ma in seguito gli si affeziona. Cavan, il ciarlatano, è il più incredulo forse proprio perché col suo programma prende per i fondelli milioni di persone. Si ricrederà ed esternerà un gran coraggio, sarà proprio lui a spingere il trio nei momenti di difficoltà. Il meccanismo di relazione fra i tre personaggi è ben congeniato, attraverso ostilità e momenti di coesione che si alternano, facendo da base alla suspense indotta dalla corsa contro il tempo. Il male non deve nascere, dopo sarà troppo tardi. A fare ombra alla loro relazione vi è la lotta tra bene e male che incombe, Dio li aiuta con segni quasi impercettibili e il male li ostacola in tutti i modi, non a caso il male sarà rappresentato oltre che dalla banda di nazisti xenofobi, anche dalla polizia. Ma non è una metafora quella dell’anticristo, Satana c’è davvero! E Alex De la Iglesia ce lo mostra già nella prima parte del film nelle vesti di un nero caprone, in una sequenza che rasenta la perfezione, capace di lasciare a bocca aperta.
Il coinvolgimento con le vicende è massimo, attraverso un montaggio serrato il film diventa fin da subito quasi ipnotico facendo divertire lo spettatore dal primo all’ultimo minuto.
Immenso film che non si può non vedere almeno tre volte, pena, la crocifissione!
di Davide Casale
CRIMEN PERFECTO di ALEX DE LA IGLESIA (2004)

di Michelangelo Pasini
AZIONE MUTANTE di ALEX DE LA IGLESIA (1993)

di Davide Casale
Tuesday, April 01, 2008
The mist di Frank Darabont (2008)

di Andrea Lanza
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