Monday, October 15, 2007

DEAD MAN di Jim Jarmusch (1995)

William Blake, poeta, incisore e pittore Inglese non è stato acclamato quand’era in vita, e sebbene dopo la sua morte sia stato rivalutato come uno dei più grandi artisti mai partoriti dalla Gran Bretagna, durante la sua esistenza si trovava nella posizione di un pesce fuor d’acqua. Il William Blake di questo film diretto da Jim Jarmusch, protagonista interpretato da Johnny Depp, è anch’egli un pesce fuor d’acqua, il quale durante la seconda metà del XIX secolo negli Stati Uniti, si spinge fino alle estremità della frontiera per cercare lavoro in un piccolo paese come contabile in un’industria siderurgica. Nel paese abbiamo la contrapposizione tra territorio selvaggio e avvento dell’industrializzazione, dove chi ha potere, chi è in vista, deve essere ricco o abile con la pistola. Se in Faccia A Faccia di Sollima avevamo un malato professore che ritrova se stesso in una realtà dove la società è ancora modificabile, qui, in Dead Man, il protagonista cerca la sua dimensione in un lavoro normale, ma per una serie di eventi casuali si ritrova ad essere un fuorilegge e a costruire senza volerlo a differenza del film di Sollima, una sorta di leggenda sul proprio conto. Con dei bounty killer alle spalle che hanno il compito di farlo fuori, uniti alla legge che lo cerca per impiccarlo, William Blake viene aiutato da un indiano di nome Nessuno. Una sorta di angelo custode, o meglio di spirito guida, per vederlo nell’accezione Indiana, che lo guiderà verso il suo destino. Un destino che è già scritto. Johnny Depp è un Dead Man, un uomo morto, già morto, condannato a fine prematura senza la benché minima speranza di sopravvivenza. Questo glielo dice fin dall’inizio l’indiano, il quale è già contaminato dall’occidente chiedendo continuamente tabacco, che insieme all’alcool è uno dei fattori, oltre al piombo, che portarono alla distruzione di un popolo. Nessuno riveste una sorta di spirito guida secolarizzato, e il sostituirsi a una divinità è una visione tipicamente occidentale, cosa che in un'iconografia non occidentale si paga a caro prezzo. Al di là della sottotrama ricca di significati, il film di Jarmusch, girato in un elegante bianco e nero, annovera un cast di tutto rispetto. Abbiamo Robert Mitchum che interpreta il padrone della fabbrica in cui il protagonista chiede lavoro, da segnalare che questa è l’ultima interpretazione della compianta leggenda del cinema. Lance Henriksen incarna l’interessante Cole Wilson, un sicario che incarna il male puro, personaggio quasi blasfemo che si nutre dei suoi nemici, i quali si rivelano essere semplicemente coloro che gli stanno attorno. Vediamo per poche sequenze anche Iggy Pop, in una parte atipica, nella quale veste i panni di un cacciatore quasi androgino. Le musiche, che si sposano alla perfezione con l’eleganza visiva messa in campo dal regista, sono curate da Neil Young che unisce melodie che si avvicinano a quelle tipiche del western, ma che vengono filtrate attraverso suoni elettronici, dando l’impressione di una sospensione quasi onirica della vicenda. Johnny Deep interpreta magistralmente il suo personaggio che come dicevamo si rende conto a malapena di costruire la leggenda di se stesso, si stupisce solamente di essere portato nell’usare la pistola. La gente ha paura di lui, lui è destinato a scomparire, ma lo sta facendo con stile. Questo visto dagli occidentali, i quali, nostalgici della frontiera in cui gli indiani li tenevano occupati, ora si abbruttiscono e appaiono degli ibridi tra bestie e uomini, e Jarmusch ce li presenta quasi come dei mutanti appartenenti a un’era post atomica. Un film lineare come una barca che scorre lenta lungo un fiume, ma che non ha più remi nè ormeggi e che si lascia inesorabilmente trasportare come se traghettasse un uomo morto che non può più governarla.

Di Davide Casale

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