Saturday, June 02, 2007

CABIN FEVER di Eli Roth (2002)

Cinque giovani universitari (tre ragazzi e due ragazze) decidono di iniziare le vacanze estive andando ad alloggiare in uno chalet situato in mezzo ai boschi di un’imprecisata cittadina provinciale popolata da strani personaggi. Tra pomiciate, scopate, racconti del terrore davanti al fuoco ecc., tutto pare procedere per il meglio, finché una notte un uomo dalla pelle completamente devastata chiede loro aiuto, in maniera sin troppo veemente, ottenendo in cambio di bruciare tra le fiamme. Scossi dall’accaduto, i ragazzi cercano di riprendersi, denunciando il fatto ad un giovane quanto strambo e inconcludente rappresentante della legge. Quando tutto pare aquietarsi , una delle ragazze viene infetta da enormi piaghe che le appaiono su tutto il corpo. Gli altri quattro fanno il possibile per preservarsi dalla propagazione dell’ignoto virus, senza conoscerne le cause con precisione, al punto tale da dimenticare completamente di aiutarsi a vicenda. Avrà inizio una imprevedibile quanto bizzarra carneficina a catena, quando in conclusione il tutto pare essere stato scatenato da un elemento solitamente ritenuto innocuo, ma vitale…

Il lungometraggio di esordio di Eli Roth può essere forse considerato lo spartiacque delle produzioni horror americane più emblematiche ed emoglobiniche del XXI° secolo. Fino ad allora, mancava la volontà di cimentarsi in qualcosa di originale e differente dalle usuali produzioni con serial killers, fintamente metacinemografiche ( il prototipo “Scream” a parte) e inflazionate da un vuoto pneumatico di idee. Ci voleva l’energia di un giovane come Roth che apportasse con chiarezza le coordinate attraverso le quali un horror che si rispetti deve passare. Cabin Fever è uno scontro frontale tra la brutalità allo stato brado dell’exploitation anni ’70, e l’ironia gory scanzonata tipica delle produzioni di genere anni ’80. I rimandi e le citazioni per questi ultimi si sprecano: la location ricorda direttamente Evil Dead di Raimi; il contagio (e relativo isolamento forzato) “The Thing” di Carpenter; gli fx di Berger e Nicotero paiono trarre ispirazione dal secondo episodio di Creepshow 2 in cui uno schifoso e indefinibile essere acquatico si pappa dei giovinetti su una zattera in mezzo a un laghetto (scena citata anche visivamente, seppur in un momento di raccordo). Non si pensi, però, che le dosi di massiccia ironia scalfiscano la potenza visiva e metaforica di un’opera davvero inconsueta: anche se mancano gli stupri, i soprusi psico-fisici tipici di tanto cinema esploitativo anni ’70, l’amarezza, il nichilismo, la disillusione che trasuda Cabin Fever paiono uscire esattamente da quel tipo di film. Il riso grottesco, lo sberleffo repentino e inaspettato sono sì presenti, (il bambino karateca, il vecchietto rincoglionito del negozio, il divertentissimo personaggio del poliziotto amante della “baldoria”) ma transitori: quando si arriva al sangue, si fa sul serio. Non è la quantità, nemmeno tanto alta, di gore a dirigere il film verso plumbei sentieri, quanto il senso di pessimismo cosmico che aleggia nei momenti in cui il pericolo più estremo entra in scena. Si pensi alla sequenza in cui Marcy (Cerina Vincent), dopo essersi fatta una ceretta alquanto “dolorosa”, in preda al panico viene divorata dal cane famelico. Oppure alla scena, impreziosita da una dolce quanto raggelante nenia musicale del grande Angelo Badalamenti, in cui Paul (Rider Strong) masturba Karen (Jordan Ladd), salvo poi scoprire che altro non faceva che ravanare con le dita in una grossa pustola aperta: ogni “sorpresa” è una sorta di scherno cupo e inquietante, praticamente impossibile da alleggerire con una risata da “pelo sullo stomaco”, ma tutto sommato rasserenata, come poteva avvenire con la saga “Evil Dead” di Raimi, oppure con “Bad Taste” e “Brain Dead” di Jackson, infinitamente più splatter, ma anche sinistramente più solari e grotteschi. Senza considerare poi l’individualismo più sfrenato che subentra in ognuno dei protagonisti quando la situazione varca le soglie dell’irreparabilità: ogni personaggio pensa solo alla propria salvezza, anche a costo di calpestare coloro che fino a pochi attimi prima erano suoi amici. Nemmeno si potrebbe tacciare il film di eccessiva freddezza, perché, nonostante appaia arduo simpatizzare anche per un solo character, vi è parecchio di stranamente prossimo alla realtà quotidiana nel loro modo di affrontare tutto il marasma che li coinvolge. E’ forse questo andirivieni, sebbene sia voluto, di toni a rendere il film, per quanto riuscito, velleitario e difficilmente collocabile, anche se il tutto è controllato da una sceneggiatura che, per quanto umorale e solo in apparenza “casuale”, mantiene in realtà lo svolgimento dei fatti sotto uno strenuo controllo che permetta alle caratteristiche psicologiche dei personaggi più rilevanti di emergere durante i momenti topici. Fatto sta che è girato con discreta maestria: i movimenti di macchina sono fluidi, avvolgenti, ammiccanti: la sequenza dell’ospedale, ripresa in carrello laterale (di cui si farà uso anche in Hostel), rimanda a Shining e alle apparizioni allucinate dell’Overlook Hotel.. Il cast di giovani attori non è particolarmente meritevole, ma volenteroso (indimenticabile lo sceriffo di Giuseppe Andrews, e lo stesso Roth nei panni dello svalvolato Grim). Gli effetti speciali della premiata ditta KBN risultano assolutamente credibili nella loro audace volontà di ricreare, con quasi pornografica ostentazione, le piaghe del derma, il quasi cronemberghiano disfacimento della carne , dotando il film di un’ulteriore marcia di disagio, la quale non se ne va nemmeno dopo una memorabile gag che si prende gioco della politically correctness della parola “nigger” e del ballo scanzonato di parte delle comparse, rimandante a sua volta al 2000 Maniacs di Herschell Gordon Lewis.

di Francesco Furlotti

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