Saturday, June 02, 2007

HOSTEL di Eli Roth (2005)

Tre allegri ragazzi in interrail in giro per l’Europa (due americani e un esagitato quanto arrapato islandese) arrivano ad Amsterdam, iniziando un bell’excursus tra droghe leggere e sesso sfrenato a pagamento. Una notte, dopo essere stati letteralmente chiusi fuori dall’ostello cui alloggiano ,causa tardo orario di rientro, vengono ospitati da uno strano ragazzo di nome Alexei, il quale consiglia loro di andare in Slovacchia, garantendo che vi saranno orde di ragazze allupate pronte a soddisfare ogni esigenza sessuale. Manco a dirlo, i tre partono diretti al luogo indicato dal sedicente pappone, e, una volta arrivati in un ostello che pare un gineceo, fanno conoscenza di due splendide quanto facili donzelle, con cui soddisfano le proprie bramosie la notte stessa dell’arrivo. Dal giorno successivo, però, i due americani notano l’inspiegabile e repentina scomparsa dell’amico islandese, e l’atmosfera attorno a loro si fa sempre più sinistra e imprevedibile, corredata di baby gang particolarmente aggressive, e sguardi pieni di ostilità. Uno dei due americani, Josh, scompare a sua volta, e starà allo yankee superstite Paxton fare in modo di salvare la propria pelle, per arrivare a scoprire che dietro a tutto vi è un letale club che rifornisce di materiale “umano” tutti coloro disposti a versare una discreta somma con il solo scopo di provare emozioni forti.
L’idea basilare del film è nata a Roth dopo aver visitato un sito tailandese in cui, dietro un pagamento di poche migliaia di dollari, si offrivano esseri umani a chiunque avesse voglia di torturarli e ucciderli per puro ludibrio. Inizialmente l’idea era farne un documentario, per poter almeno svolgere un’indagine riguardo la presunta veridicità del sito, ma in seguito il regista decise di sfruttare la raggelante trovata per inserirla all’interno di uno script con protagonisti tre backpackers a spasso per l’Europa. Vi è da ammettere che la soluzione è stata delle più azzeccate perché se da un lato Eli coglie al volo la possibilità di confermare il proprio nome nell’apogeo della ritrovata brutalità dei film orrorifici americani attuali, dall’altra si struttura un vero e proprio apologo morale sulla realtà contemporanea post-11 settembre, vissuta da un americano che viaggia in Europa con il solo scopo di trovare decerebrato e disimpegnato divertimento.
Pubblicizzato come un ritorno senza compromessi alla violenza cinematografica puramente seventy, Hostel è stato sia forgiato che penalizzato da un hype che lo riguarda solo in parte. Costato 4,5 milioni di dollari, in merchandising ne sono stati sborsati più di venti, portandolo sì in testa alle classifiche americane (grazie ad esilaranti, quanto inutili trovate, come la barf bag distribuita all’ingresso delle sale), ma creando un clima di insoddisfazione generale davvero eccessivo. Certo, vi è da ammettere che l’impostazione del film è quanto meno bizzarra per quello che dovrebbe essere un horror di pura razza grindhouse: dopo un incipit agghiacciante, in cui vediamo i postumi di ciò che senza dubbio è stata un’uccisione, con tanto di grottesco fischiettìo in sottofondo proveniente da un non rivelato individuo che ripulisce sangue, strumenti e umori vari, Hostel prende una virata in cui solo in apparenza è rapportabile ad una teen comedy destinata ad adolescenti dagli ormoni in subbuglio. L’idilliaca scampagnata sessuale dei protagonisti ad Amsterdam (in realtà “ricostruita” a Praga) straborda sì di tette e culi, ma ha uno scopo ben preciso all’interno dell’economia narrativa dell’intero film: fungere da malaugurante incipit alle sadiche mattanze della seconda parte. Si prenda su tutte l’emblematica sequenza in cui il timido Josh dal corridoio del bordello olandese sente urla di dolore provenire da una stanza, per poi scoprire che si tratta di un gioco accondiscente tra una mistress e la sua vittima pagante. Ciò che in superficie pare un’innocua gag sporcacciona è un preludio, quasi didascalico, alla mortale mercificazione dei corpi che avrà in seguito luogo nella fabbrica delle torture. Anche la tanto sbandierata joie de vivre dei protagonisti è netto contrasto con quanto li circonda: coloro che non sembrano nutrire un rigido pregiudizio nei loro confronti (la rissa nella discoteca, scatenata da un futile motivo), mostrano ai ragazzi una sin troppo sorridente e generosa accoglienza (Alexei, le ragazze dell’ostello, ecc.). L’unica nota di biasimo che si può sollevare alla parte “allegra” del film è un’eccessiva lunghezza, la quale ha però una ragion d’essere nella costruzione dello slow burning che conduce alle violenze a venire. La fotografia segue a pari passo il mood della vicenda: l’illuminazione irta di neon, prossimi alla fantascienza nel bordello olandese, vira in progress verso toni più grigi durante i momenti delle inaspettate sparizioni dei personaggi, per poi sprofondare in una raggelante cupezza quando si arriva alla fatidica “fabbrica”. Lo script di Roth, vantando anche un paio di memorabili dialoghi (quello “carnivoro” dell’uomo d’affari tedesco su tutti) è abile nel tenere presente la propria consapevolezza di appartenere al “genere”: i rimandi, seppur meno esibizionistici rispetto a Cabin Fever, si sprecano. Si va da The Wicker Man, (il senso di pregiudizio e tacito accordo proveniente dagli abitanti della cittadina slovacca , “Quien puede matar a un nino?” (l’esplosione di rabbia, frenata in extremis di Paxton su un bambino teppista), “Shining” (la stanza 237), lo slasher Intruder dell’amico Scott Spiegel (il disvelamento, con carrello all’indietro, della testa decollata di Oli l’islandese), “The Texas Chainsaw Massacre” (la gamba tagliata) a strizzate d’occhio palesi alla violenza del cinema orientale odierno (il taglio dei tendini di “Sympathy for Mr.Vengeance”, e poi Audition, Suicide Club, ecc.), senza scordare una fuga finale di Paxton che pare in bilico tra la nervosità de “Il Maratoneta”, e “Il Fuggitivo” in salsa gore. Quindi, se Roth non perde l’abitudine di divertirsi, e di divertire, talvolta anche dimenticandosi il senso logico di alcune soluzioni che oltrepassano il limite della verosimiglianza, al tempo stesso desidera imbastire una chiara metafora sull’acrimonia e il pregiudizio che infesta l’animo delle persone in questi tempi angusti, riuscendovi appieno. L’americano viene visto nelle lande a lui estere come epitome della monodimensionalità yankee terroristico/scopereccia, e lo sconosciuto, quando non tutto indifferente, è capace di modi cortesi e simpatici solo per forgiare gli scopi più abbietti immaginabili. Sotto questo aspetto, Hostel è probabilmente l’apologo post-11/9 più pregnante, significativo e sfaccettato che si sia visto al cinema negli ultimi anni. Unicamente questo motivo basterebbe ad elevarlo al di sopra di tanti rip off di Saw (di cui non è), facendogli aggirare anche le accuse di non essere all’altezza della violenza promessa. Forse meno efficace è il j’accuse lanciato verso il sadismo della classe dirigente, perché più didascalico e verboso (l’esagitato torturatore americano interpretato da Rick Hoffman), ma ciò non smussa la forza tagliente di Hostel, al di là degli oggetti contundenti meticolosamente mostrati. La brutalità visiva rientra in effetti nello standard dell’ horror contemporaneo , ma sul piano psicologico da’ svariati giri di stacco a qualsiasi forzatamente moralistico “Enigmista”. Tecnicamente il film non si avvale di movimenti di macchina virtuosistici, ma opta per una messa in scena rigorosa, essenziale, quasi classica nella sua ostinata pervicacia nell’aggirare ogni trappola videoclippara finto cool à la Saw, prediligendo un’attenzione smodata ai dettagli, assemblati in modo tale da creare una suspense in crescendo; funzionale e azzeccatissima, quanto inconsueta, la scelta del ridente paesino slovacco Cesky Krumlov come preludio infernale, così come ben studiata la scelta di una fabbrica/teatro delle barbarie che fosse il più anonima, inusuale e sotto tono possibile, quindi più reale. Gli attori, nemmeno qui eccelsi, risultano però funzionali al racconto e ai ruoli che rivestono, con particolare menzione per la splendida Barbara Nedeljakova nel ruolo di una femme fatale impossibile da resistere, e Jan Vlàsak nei panni dell’infido uomo d’affari tedesco. Da ricordare anche la scelta di comparse dai visi decisamente poco raccomandabili. Gli effetti speciali dei soliti noti Berger & Nicotero sono ben fatti, ma dalle sembianze talvolta fin troppo cheesy e artigianali.
Da vedere e affrontare, non di pancia, ma di testa.

di Francesco Furlotti

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