Wednesday, August 22, 2007

KEOMA, Enzo G. Castellari (1976)

“Keoma perché sei venuto, perché sei tornato..” La morte stessa si rivolge a Keoma nei panni di una mendicante dagli occhi di ghiaccio, dopo che a cavallo e con i capelli lunghi da meticcio varca implacabile le soglie di un paese distrutto e lasciato all’abbandono, pieno di cadaveri, una sorta di ambiente post-nucleare in cui le radiazioni sono il piombo e la peste che flagella vite accompagnata da una morte che soffre per sé stessa. La grande mietitrice chiede a Keoma di tornare da dove è venuto, ma lui, come in una missione in un’iconografia sacra, non può fermarsi di fronte al suo destino. Il protagonista ritorna nel suo paese dove troverà i suoi fratellastri che lo odiano e un padre protettivo che ha sempre suscitato l’ira di questi, la peste imperversa e un signorotto senza scrupoli tiene in scacco la popolazione sfruttandola in ogni maniera possibile. Keoma ci si metterà contro. Le superbe musiche dei fratelli De Angelis accompagnano le riprese altrettanto notevoli di questo film, curate nei minimi dettagli e pronte ad accogliere la saturazione di un genere. I dettagli sono molti, troppi rispetto all’iconografia degli spaghetti western precedenti, ma questo è uno di quei film che chiude l’epopea del genere e si eleva ad un punto di vista perfettamente conscio e filtrato da un’simbologia sacra del tutto peculiare. Il paese è l’inferno e Franco Nero, che interpreta il protagonista, è inizialmente un angelo vendicatore per poi sublimarsi in una sorta di Gesù Cristo che attraversa la sua personale valle di lacrime in cerca di sé stesso. Inutile dire che è un essere incompreso dagli altri ma anche da sé stesso, come dirà con le sue parole parlando col padre. Il personaggio del “negro”, come lo chiamano con disprezzo gli scagnozzi del latifondista, ha spesso uno strumento musicale tra le mani e funge quasi da cantore muto in linea con la disperazione di quei luoghi che sembrano quasi sospesi tra realtà e sogno. Le panoramiche delle cavalcate fuori del paese tra i prati sono sconfinate, mentre quelle all’interno del paese non lasciano quasi mai intravedere il cielo Castellari rende la cittadina un vero e proprio inferno claustrofobico dove l’unico respiro è la violenza. Alcuni ralenti presenti nel film sono stati spesso criticati, ma possono essere visti come uno stilema tipico delle sequenze di guerra (la guerra è l’inferno), quelli iniziali ricordano alcune famose fotografie scattate durante la guerra civile Spagnola, in particolare la foto simbolo di Robert Capa dell’uomo colpito a morte e sul punto di rovinare a terra. Keoma è uno dei migliori spaghetti western, ma non solo per la meticolosa tecnica con cui è girato, anche per la poesia che è insita in esso e per l’approfondimento dei personaggi, tramite dettagli quasi impercettibili ma funzionali in ogni loro aspetto. Se il cinema bis fosse come il personaggio di Keoma potrebbe solo rinascere… “Il mondo è marcio” risponde alla morte Keoma. Un dito, due dita, tre dita, quattro dita. Buio in sala.

di Davide Casale

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