Sunday, July 08, 2007

BREATH (Soon) di Kim Ki Duk South Korea 2007

Una donna, Yeon, scopre che il marito la tradisce (perdita della fiducia come perdita del respiro). Il desiderio di rivalsa si riversa tutto nella voglia di conoscere Jang Jin, un condannato a morte (l’attesa come apnea) che ha provato più volte a togliersi la vita, senza riuscirvi. Così l’incontro e la passione che nasce tra i due diventano pretesto di evasione: dall’incubo di una fine già decisa – e ritardata solo dai reiterati tentativi di suicidio – per l’uno; da una vita familiare spezzata dal tradimento e tenuta in vita solo dalla figlia, per l’altra.
La storia si svolge come una spirale per tornare al punto di partenza, e ancora una volta Kim Ki-Duk torna a parlare con i gesti e le azioni, misurate quanto impulsive, dei suoi personaggi. Ancora una volta i dialoghi si fanno vuoti e superflui, senza motivo di essere, e il regista torna sui fortunati registri di “Ferro 3” e de “L’isola”, lo sguardo riacquista il ruolo di protagonista e basta un campo e controcampo a far venire la pelle d’oca. Una spirale di sentimenti in cui ciclicamente si torna a respirare, ma è un respiro che torna dopo l’apnea di una vita che va a rotoli. È arduo il compito del regista, che si dimostra capace nel guidare per mano lo spettatore, coinvolgendolo nell’intrico di sentimenti persi, traviati, poi ricostruiti in una tempesta di colori, tra i due protagonisti e non solo, attraverso due diversi livelli di rappresentazione: il dentro e il fuori. La dimensione “interna” di una prigione, in cui i corpi stanno avvinghiati, per volontà (il rapporto omosessuale tra compagni di cella) o per necessità (il freddo dell’inverno che incombe), e che non offre possibilità di evasione, né materialmente né mentalmente; e la dimensione “esterna” in cui si muove Yeon, dove l’abbondanza di spazio si rivela inutile e quasi di ostacolo (come il lungo tratto di autostrada che la separa dalla prigione). Quando la donna comincia a tappezzare la sala visite del carcere con gigantografie di foto di paesaggi scattate in diverse stagioni (Primavera, Estate, Autunno e l’Inverno naturale che fa da cornice alla storia, in un’esplicita autoreferenzialità manierista), il confine tra le due dimensioni si sfalda e permette a entrambi di evadere dalle mura – ormai non più definite per via delle foto – della prigione verso un esterno fittizio all’interno di una storia di passione travolgente. Come le stagioni si succedono e si avvicendano con regolarità, così le fasi della storia d’amore si definiscono e si completano, per arrivare all’evasione ultima: un amplesso realizzabile solo in una prigione finzionale, in cui quando uno espira l’altra inspira e il respiro dei due diventa uno solo (ritrovamento del respiro). Tre fasi – perdita del respiro, apnea, ritrovamento del respiro – in una storia carica di simbolismi, che sono però appannaggio del solo spettatore, l’unico a cui è permesso dare un’interpretazione a ciò che vede. Spettatore con cui Kim gioca e di cui riveste anche i panni: da capo della sorveglianza, infatti, si trasforma ora in spettatore divertito e partecipe (ha la stessa curiosità dello spettatore del film e si lascia trasportare dalle performance canore della protagonista), ora in regista sotto gli occhi dello spettatore, selezionando le immagini del monitor di sorveglianza e inducendo a determinati comportamenti i protagonisti della vicenda. Un Kim Ki-Duk definitivamente ritrovato.

di Davide Beretta

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