
La storia si svolge come una spirale per tornare al punto di partenza, e ancora una volta Kim Ki-Duk torna a parlare con i gesti e le azioni, misurate quanto impulsive, dei suoi personaggi. Ancora una volta i dialoghi si fanno vuoti e superflui, senza motivo di essere, e il regista torna sui fortunati registri di “Ferro 3” e de “L’isola”, lo sguardo riacquista il ruolo di protagonista e basta un campo e controcampo a far venire la pelle d’oca. Una spirale di sentimenti in cui ciclicamente si torna a respirare, ma è un respiro che torna dopo l’apnea di una vita che va a rotoli. È arduo il compito del regista, che si dimostra capace nel guidare per mano lo spettatore, coinvolgendolo nell’intrico di sentimenti persi, traviati, poi ricostruiti in una tempesta di colori, tra i due protagonisti e non solo, attraverso due diversi livelli di rappresentazione: il dentro e il fuori. La dimensione “interna” di una prigione, in cui i corpi stanno avvinghiati, per volontà (il rapporto omosessuale tra compagni di cella) o per necessità (il freddo dell’inverno che incombe), e che non offre possibilità di evasione, né materialmente né mentalmente; e la dimensione “esterna” in cui si muove Yeon, dove l’abbondanza di spazio si rivela inutile e quasi di ostacolo (come il lungo tratto di autostrada che la separa dalla prigione). Quando la donna comincia a tappezzare la sala visite del carcere con gigantografie di foto di paesaggi scattate in diverse stagioni (Primavera, Estate, Autunno e l’Inverno naturale che fa da cornice alla storia, in un’esplicita autoreferenzialità manierista), il confine tra le due dimensioni si sfalda e permette a entrambi di evadere dalle mura – ormai non più definite per via delle foto – della prigione verso un esterno fittizio all’interno di una storia di passione travolgente. Come le stagioni si succedono e si avvicendano con regolarità, così le fasi della storia d’amore si definiscono e si completano, per arrivare all’evasione ultima: un amplesso realizzabile solo in una prigione finzionale, in cui quando uno espira l’altra inspira e il respiro dei due diventa uno solo (ritrovamento del respiro). Tre fasi – perdita del respiro, apnea, ritrovamento del respiro – in una storia carica di simbolismi, che sono però appannaggio del solo spettatore, l’unico a cui è permesso dare un’interpretazione a ciò che vede. Spettatore con cui Kim gioca e di cui riveste anche i panni: da capo della sorveglianza, infatti, si trasforma ora in spettatore divertito e partecipe (ha la stessa curiosità dello spettatore del film e si lascia trasportare dalle performance canore della protagonista), ora in regista sotto gli occhi dello spettatore, selezionando le immagini del monitor di sorveglianza e inducendo a determinati comportamenti i protagonisti della vicenda. Un Kim Ki-Duk definitivamente ritrovato.
di Davide Beretta
No comments:
Post a Comment